EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Tuesday, February 28, 2006

 
MARKETING POLITICO

Dal caso Calderoli al celodurismo. Rozza ma efficace, spartana ma concreta. Ecco la campagna elettorale del partito di Bossi


Vite e successi paralleli della Lega Nord e degli hard discount

Il Foglio - 1 Marzo 2006



La Lega ci ha abituato da tempo, non solo sotto elezioni, a una campagna silenziosa, con rare apparizioni tv e poche affissioni, ma animata da sporadiche azioni di grande impatto - vedi il caso Calderoli - che monopolizzano l’attenzione dei mezzi di informazione. Una politica che pare abbia i suoi effetti: nella campagna comparativa denigratoria a cui stiamo assistendo, dove i messaggi e i valori di riferimento dei vari partiti tendono ad assomigliarsi tutti, la Lega è l’unica che porta avanti idee e progetti, rozzi ma concreti.

Se prendiamo per buona la metafora della campagna elettorale vista come un grande mercato della distribuzione dei voti, la Lega può essere equiparata a un hard discount, quella forma di distribuzione in cui vengono venduti prodotti, generalmente non di marca, a prezzi bassi. Del resto i parallelismi tra la Lega Nord e gli hard discount sono molti.
Entrambi fecero il loro ingresso agli inizi degli anni 90, in concomitanza con un periodo di crisi della storia italiana: la Lega nacque nel 1991 dalla fusione di movimenti autonomisti del Nord Italia durante il declino della Prima Repubblica e un anno prima di Mani Pulite e Tangentopoli, mentre i primi hard discount aprirono - nel Nord - a seguito della concomitante crisi economica italiana.
Aspetto disadorno dei locali, esposizione spartana degli articoli sugli scaffali, assenza di servizi aggiuntivi non essenziali ma, soprattutto, la mancanza di prodotti a marchio sono, da sempre, le caratteristiche principali di questa forma di distribuzione. Anche la Lega Nord può essere considerato, a suo modo, un partito no frills (senza fronzoli, come le compagnie aeree low cost): un sostanziale basso profilo, campagne politiche essenziali e volutamente “brutte” esteticamente, modalità di comunicazione spartana e aggressiva e un programma di partito basato su pochi punti molto concreti.
In tempi brevi Lega e discount sono riusciti a rompere un meccanismo e un equilibrio che resisteva da decenni: da una parte la Prima Repubblica e lo strapotere di “Roma ladrona” come unico centro decisionale della politica italiana, dall’altra quello della marca dei prodotti alimentari vista come unica garanzia di qualità e portatrice di valore aggiunto per le famiglie italiane. E, in tempi brevi, hanno entrambi raggiunto risultati e performance sorprendenti.
La Lega Nord quindi come Wal Mart, la catena dei supermercati americani con i prezzi più bassi di tutti. Il faccioni rubicondi di Calderoni & co. come i “Big Box”, gli edifici simili a scatole di scarpe che ospitano quei discount capaci di sviluppare un fatturato annuo di 245 miliardi di dollari, pari al 2,5 per cento del pil USA. Anche Wal Mart è, in questi periodo, nel mirino dei media e dell’opinione pubblica europea: è stato appena presentato al Festival di Berlino il documentario di Robert Greenwald “The High Cost of Low Price” (L'alto costo dei prezzi bassi), un durissimo atto d'accusa contro la società di Bentonville, Arkansas, che, per mantenere i prezzi dei prodotti bassi, offre bassi salari ai dipendenti e non permette ai sindacati di intervenire nelle trattative.

I punti di contatto tra Lega Nord e discount continuano: dopo una partenza caratterizzata da politiche molto aggressive e d’impatto, nel corso degli anni hanno entrambi ammorbidito la strategia. La Lega al governo sembrava aver abbandonato il programma secessionista e il progetto di creare un Governo Padano, concentrandosi più sulla creazione di uno Stato federale attraverso il federalismo fiscale e la devoluzione. Il “celodurismo” a tutti i costi, rispolverato a tratti da Umberto Bossi, ha fatto posto in questi anni ad una politica più realista e al passo coi tempi: in questa direzione va vista anche l’alleanza elettorale con la coalizione di Raffaele Lombardo nel meridione. Allo stesso modo anche i discount hanno, in parte, abbandonato la filosofia “hard” passando a una concezione più “soft” della propria attività che prevede una differenziazione dell’offerta attraverso l’arricchimento degli assortimenti e dei servizi e la presenza in alcuni punti vendita di alcuni prodotti di marca.
E’ rimasta però per entrambi quella modalità di comunicazione saltuaria ma capace al tempo stesso di urtare e influenzare.
Sia la Lega che gli hard discount sono così: impresentabili ma, talvolta, efficaci.

Friday, February 24, 2006

 
CONSIGLI A LAPO

Gli architetti odiati da Tom Wolfe si vendicano con progetti "anticipatori di fururo"

Il Foglio - 24 Febbraio 2006


“Maledetti Architetti” è il titolo di un pamphlet di Tom Wolfe. Il giornalista e scrittore americano se la prende con gli atteggiamenti da guru della casta degli architetti, perlopiù incapaci di lavorare al servizio dei committenti, volti esclusivamente a imporre la propria visione della realtà. Wolfe nel suo saggio - uscito nel 1981 - accusa gli architetti di aver causato dei danni enormi all’urbanistica, progettando asettici “scatoloni di cristallo”, palazzi di vetro tutti uguali che in quel periodo dilagavano negli Stati Uniti.
In Europa, invece, sono stati i designer a rovinare tutto. “Designer” è la parola chiave di questi ultimi vent’anni: chi non era architetto, e quindi aveva solo il diploma di geometra, poteva trasformarsi senza colpo ferire in designer e vantarsene: perfino coloro che un tempo definivamo stilisti, ora vogliono essere chiamati designer. Siamo, in definitiva, un popolo di poeti, navigatori e designer. Costoro hanno messo lo zampino su qualsiasi cosa: dai divani alle biciclette, dalla pasta allo scopino da bagno (“Merdolino” progettato da Stefano Giovannoni per Alessi nel 1993).
Anche le aziende hanno approfittato - e abusato - dell’improvvisa popolarità guadagnata in questi ultimi anni da designer e architetti, affidando loro non solo il restyling dei prodotti ma anche la progettazione di costosissime sedi e showroom, senza che dietro ci fosse un vero e proprio “progetto”, ma solo per il gusto di avere qualcosa di firmato dal noto e stimato professionista.
Sembra però che in questi ultimi anni gli architetti - quelli veri, quella con la “cultura del progetto” - stiano offrendo con i loro lavori un’interpretazione concreta e anticipatrice di ciò che sarà il futuro prossimo, non solo dell’azienda, ma anche della nostra vita quotidiana.
L’architetto - che in questo caso riveste i panni dell’artista - diventa quindi un importante ispiratore capace di interpretare i valori e l’identità del marchio in modo creativo e significativo.

Il settore della moda è stato il primo ad accorgersi di questo: le maison del lusso, dopo aver raggiunto il successo e conquistato il mercato mondiale, vogliono diventare immortali come i grandi musei e, per raggiungere questo obiettivo, hanno pensato di nobilitare il proprio marchio affidandosi alle visioni progettuali di alcuni architetti visionari.
Miuccia Prada è stata sicuramente la prima a intuirlo: ha affidato al celebre Rem Koolhaas la progettazione dei propri flagship store di New York e Los Angeles: negozi privi di insegne, di vetrine, e dei canonici strumenti di comunicazione delle boutiques. In sostituzione a questi cliché Koolhaas ha ideato gli “Epicentri”, cioè degli spazi in cui teatro, tecnologia e video arte si inseriscono come dei cortocircuiti all’interno del negozio. Le cabine di prova sono dotate, invece del solito specchio, di una telecamera, mentre l’esposizione dei prodotti è ispirata alle procedure aeroportuali di distribuzione dei bagagli, con tanto di nastri a rullo e porte con metal detector: metafore delle procedure di sicurezza sempre più diffuse nel mondo contemporaneo. Tutti elementi spesso inquietanti e non sempre d’immediata comprensione, ma che mirano a trasformare lo shopping in una nuova “esperienza ambientale”.

Stessa cosa per Tod’s, che ha fatto progettare e realizzare all’architetto Toyo Ito il nuovo quartier generale di Tokyo. L’edificio, che si sviluppa su 2500 metri quadrati e in sei piani, ospita boutique, uffici, sale-riunione, un roof garden e altri spazi in cui si avvicenderanno mostre ed eventi culturali. L’architettura si ispira all’intrecciarsi dei rami degli alberi - in piena armonia con il viale di Omotesando Avenue. Gli alberi "disegnati" sulla facciata creano un reticolo attraverso il quale poter osservare la città, lasciando tuttavia che la luce penetri all’interno dell’edificio. Un progetto, questo, di grande “qualità urbana”, in cui emerge un profondo rispetto per il cliente-consumatore-cittadino. La struttura dell’albero, che dà forma e senso all’edificio, è una sorta di enorme ombra cinese che testimonia la grande influenza della cultura orientale sul progetto.
Uno dei terreni più ricchi di stimoli è oggi il rapporto tra spazio pubblico e spazio privato e i nuovi centri commerciali - di qualsiasi tipo essi siano – portano necessariamente a ripensarlo con una nuova prospettiva. I nuovi negozi progettati da architetti realmente creativi e anticipatori, non sono più soltanto delle forme auto-celebrative dell’azienda dedicate ad una piccola élite di consumatori: diventano invece uno spazio sociale, al pari dei grandi musei, spazio in cui il brand assume in pieno la responsabilità della sua funzione pubblica. In questa ottica sono stati progettati i nuovi negozi di Nike, ma anche, ad esempio, il nuovo Polo di Fiera Milano o il museo MoMa di New York.
Qualcuno lo dica a Tom Wolfe.

Wednesday, February 15, 2006

 
MARKETING POLITICO
"Le parole sono importanti". Copyright Nanni Moretti

Rifondazione scopre la proprietà privata proprio ora che non è di moda


Il Foglio - 15 Febbraio 2006

Come parla! Come parla! Le parole sono importanti!
Così gridava in “Palombella Rossa”, Michele Apicella - l'alter ego filmico di Nanni Moretti - di fronte alla ruvida giornalista che si esprimeva con luoghi comuni, inglesismi o frasi fatte come “matrimonio alle spalle”, “cheap” e “alle prime armi”. Di fronte all’imbarbarimento della lingua italiana, «le parole sono importanti» è diventata la frase-chiave del film nonché il faro culturale della sinistra colta e intelligente.
Ecco che Rifondazione Comunista si è riappropriata del concetto di Nanni “con questi dirigenti non vinceremo mai" Moretti, e ha basato tutta la sua campagna sul tema della rifondazione delle parole: la campagna si intitola “Vuoi vedere che l’Italia cambia davvero” ed è declinata su tutti i media (web, stampa e affissioni e, nelle prossime settimane, anche con uno spot da inserire negli spazi dedicati dalla par condicio ai messaggi autogestiti).
Nella home page del sito www.vuoivedereche.it campeggia l’immagine di un calendario che scandisce il “countdown di resistenza”, ovvero i giorni, ma anche le ore-minuti-secondi che mancano alla data delle elezioni, calendario che può essere scaricato e utilizzato come desktop sul proprio computer.
Entrando poi nelle pagine interne del sito, si scoprono i vari soggetti della campagna che hanno come claim comune lo slogan “Rifondiamo le parole, riprendiamoci il significato”.

Chi ancora crede che la comunicazione in politica sia cosa distinta dai contenuti e dai programmi politici, ora ha l’occasione di ricredersi. Con questa campagna Rifondazione Comunista è pronta per andare al governo.
Le prime avvisaglie si erano avute durante le primarie del centro sinistra dove, per supportare la candidatura di Fausto Bertinotti, Rifondazione si inventò la comunicazione di “viral marketing”con i Post-it della 3M, anzi, i Post-it®, con la chiara specificazione del diritto di proprietà del marchio spettante alla multinazionale statunitense. In questa campagna “contro l’abusivismo lessicale”, ideato dall’agenzia Xister di Roma, le parole da rifondare - lavoro, giustizia, pace, diritti – sono accompagnate dalla ® che contraddistingue il marchio registrato, cioè quell’istituto giuridico del diritto industriale che garantisce al titolare protezione, tutela e privilegi nei confronti dei terzi.
E’ chiaro quindi che Rifondazione Comunista ha definitivamente scoperto e abbracciato la proprietà privata, un tempo trattata come “il male” e il nemico da abbattere. Adesso, seppur con tono ironico e gusto del paradosso, ne utilizza il concetto per comunicare il messaggio elettorale.
In questi giorni sul sito della campagna si è aperta un’interazione con gli utenti, che possono inviare via mail frasi e messaggi - con la stessa logica dell’operazione dei post-it – apponendo il simbolo del marchio registrato sulle parole più significative: “Vino® quello rosso”, “Napoleone® quello più alto”, “Italia® quella senza forza” sono alcuni esempi.

Il ricorso a concetti come copyright e marchi registrati da parte della sinistra radicale italiana è, in questo preciso momento storico, piuttosto anacronistico e in totale controtendenza rispetto ai nuovi temi e alle soluzioni possibili che stanno animando la scena mondiale.
Da alcuni anni, infatti, una delle novità più interessanti nel campo dei diritti e delle opere dell’ingegno è Creative Commons, un’organizzazione no-profit che consente la diffusione di opere creative sotto licenza e che offre un insieme flessibile di protezioni e di libertà per autori, artisti e inventori. Basandosi sul tradizionale "tutti i diritti riservati", è stata creata una nuova fattispecie di diritto d'autore su base volontaria, fondata sul principio "alcuni diritti riservati": questo permette la condivisione e l'utilizzo da parte di terzi e fornisce la possibilità di costruire, com'è sempre avvenuto prima che si abusasse della legge sul copyright, qualcosa di nuovo sul lavoro degli altri, nel pieno rispetto delle leggi esistenti. Il concetto e il modello di Creative Commons è supportato e condiviso da molti: a oggi 53 milioni di opere su internet sono linkate a licenze Creative Commons. Contenuti aperti, condivisione e pubblico dominio, sono queste le parole chiave della nuova classe creativa.
“Vuoi vedere che”, prima o poi, anche i partiti politici italiani se ne accorgeranno?

Tuesday, February 14, 2006

 
CONSIGLI A LAPO

Va in scena il reality spot e diventa subito un culto


Che succede in una via invasa da 250mila palline? E' la nuova pubblicità


Il Foglio - 14 Febbraio 2006

San Francisco, California, una caratteristica strada in discesa durante una soleggiata e tranquilla mattina di luglio: improvvisamente da dietro la sommità del dosso vengono sparate, da dieci cannoni giganti, 250.000 palline di gomma colorate, creando uno scenario surreale, una macchia festante di colore che invade la strada, i marciapiedi, le macchine parcheggiate e i portoni delle case. Il tutto ripreso da 23 telecamere.
Trattasi dello spot per il lancio dei nuovi televisori lcd della linea Sony Bravia, probabilmente il più bel commercial prodotto nel 2005, trenta secondi (la versione da sessanta era visibile solo nelle sale cinematografiche) in rigoroso slow motion, accompagnato dalle morbide note cantate da uno sconosciuto cantante argentino (Josè Gonzales, che ovviamente dopo lo spot è diventato di culto) in cui la sensazione che si ha è quella dell’esplosione di un arcobaleno. Ovviamente “buona la prima”: nessun intervento di computer graphic o di post-produzione, bensì la ripresa della pura e semplice realtà. Il grande successo dello spot, ideato dall’agenzia Fallon di Londra, è arrivato prima ancora della sua messa in onda, grazie al passaparola scatenato tra gli abitanti di San Francisco che lo scorso luglio hanno vissuto dal vivo questa esperienza: nella giornata in cui è stato girato lo spot, che ha assurto lo status di vera e propria performance artistica, in molti hanno realizzato foto e video amatoriali che sono stati diffusi in rete sui blog e sui siti personali aumentando sempre di più le aspettative sullo pubblicità. La stessa cosa è successo per il teaser (ovvero quello spot che crea curiosità giacché non viene mostrato il prodotto reclamizzato e, talvolta, neppure il nome) della nuova console di videogiochi Microsoft Xbox 360 che mostra una reale guerriglia pacifica di gavettoni d’acqua organizzata nella periferia di Buenos Aires e i cui protagonisti sono proprio i ragazzini e i genitori abitanti nel sobborgo. Anche in questo caso l’effetto live è sorprendente, e la rappresentazione della realtà - vera, fisica e senza filtri – in pubblicità risulta più che efficace. Chiamali, se vuoi, reality spot.

La realtà, e non più la finzione o la messinscena, sta diventando il contenuto ideale per la comunicazione, laddove l’esperienza prende il sopravvento sulle performance del prodotto che viene pubblicizzato e sulle sue caratteristiche tecniche. Proprio l’esperienza del consumatore rappresenta ad oggi uno degli asset più importanti e strategici all’interno di un progetto integrato di comunicazione e che l’azienda può sfruttare a proprio favore: basti pensare come il “passaparola” sia diventato il motore trainante per il lancio di molti prodotti nei settori più disparati, dagli accessori di moda all’elettronica di consumo fino al comparto alimentare.
Proprio su quest’ultimo mercato si sono focalizzati i tipi di The Hartman Group Inc., una società di ricerche di mercato con sede a Bellevue, Washington: non basta seguire gli acquisti alimentari delle persone al supermercato o nel negozietto sotto casa, si sono detti i ricercatori americani, è invece necessario sapere come i componenti della famiglia consumano il prodotto, conoscere le modalità con cui se lo spartiscono e le implicazioni emozionali connesse con esso. Per ottenere questo due ricercatori/antropologi si sono trasferiti per nove mesi in una famiglia “campione” americana per seguire da vicino le scelte di consumo alimentari e individuare comportamenti e modalità di approccio al cibo. Taccuino alla mano, i ricercatori prendono nota di tutto e talvolta utilizzano anche videocamere o macchine fotografiche. Household Immersion Lab, questo il nome della ricerca, è la punta dell’iceberg di questa nuova tendenza del reality marketing e che prende spunto dal format tv del Grande Fratello visto come laboratorio di osservazione del comportamento umano, ma anche come studio di progettazione per nuovi prodotti e strategie di marketing. Dall’osservazione dei comportamenti della famiglia campione, che nonostante l’oggettiva invadenza dei ricercatori e il relativo compenso ottenuto si dichiara soddisfatta dell’esperienza, stanno emergendo interessanti considerazioni: specialmente nel caso di alcuni articoli alimentari si crea una cultura familiare, cioè dei riti tali per cui una bibita o una confezione di patatine di una certa marca acquistano un valore emozionale molto più alto di quanto si possa credere. The Hartman Group, che presta già la propria consulenza ad aziende quali Pepsi o Campbell Soup, con questa nuova modalità di ricerca sta ottenendo un grande successo che soddisfa appieno la curiosità invasiva e morbosa delle multinazionali del cibo.

Monday, February 06, 2006

 
Non solo burro, ma anche il Lego, la birra, il design e altro ancora. Per gli acquisti il catalogo è questo.

Il Foglio - 7 Febbraio 2006

“L'aiuto di Dio, l'amore del popolo, la forza della Danimarca” è il motto della casa reale danese. “L’amore del popolo e dei suoi prodotti”, aggiungiamo oggi noi.
Il boicottaggio dei prodotti danesi da parte della comunità musulmana, non solo grava sull’economia di una nazione, ma mette in discussione anche la cultura della produzione di qualità che da sempre caratterizza le aziende danesi.
La più danneggiata da questo ostruzionismo è sicuramente la Arlo Foods, la seconda più grande industria lattiero-casearia europea e la principale esportatrice nei paesi arabi le cui vendite in quei paesi valgono oltre 270 milioni di euro all’anno.
Arlo Foods è una cooperativa scandinava formata da oltre 14000 soci allevatori che forniscono oltre sette milioni di tonnellate di latte all’anno destinato alla produzione di latte fresco, burro (Lurpak) e formaggi di vario tipo (Feta e Delissy o gli ‘erborinati’ come Danablu), tutti prodotti che sono distribuiti anche in Italia.
Per rimanere ancora sul cibo, un altro importante gruppo mondiale danese è Danish Crown, anch’essa una cooperativa di agricoltori, leader nel mercato delle macellazione e trasformazione di carni suine e bovine, le cui esportazioni annuali nel mondo valgono circa 4 miliardi di euro pari al 56 per cento dell’export dei prodotti agricoli danesi. All’interno del gruppo Danish Crown fanno parte marchi come Tulip, leader nel mercato mondiale della produzione di bacon ed esportato in 130 paesi o Friland specializzato nella vendita di carne biologica.
Ma probabilmente è la birra il prodotto che meglio rappresenta nel mondo la “way of production” danese: il gruppo Carlsberg - nel cui portafoglio prodotti sono compresi marchi come Carlsberg, Tuborg e Splugen - è al quinto posto tra i maggiori produttori di birra al mondo. Fondata da J.C. Jacobsen a Copenhagen nel 1847 è forse la madre di tutte le birre che beviamo oggi: fu infatti nello stabilimento della capitale danese che il chimico Emil Christian Hansen sperimentò per la prima volta - proseguendo gli studi di Pasteur - il controllo della fermentazione della birra, attraverso un procedimento di isolamento di alcuni lieviti e batteri, chiamato pastorizzazione. Jacobsen autorizzò Hansen a pubblicare i suoi studi, rinunciando con generosità a brevettare il metodo scoperto, che divenne perciò di dominio pubblico.
Il paese dei Jensen, dei Nielsen e degli Andersen (il suffisso -sen significa figlio) è inoltre la patria dei Lego, i mattoncini che hanno accompagnato i giochi infantili di molte generazioni. L’azienda nacque nel 1916 come falegnameria produttrice di giocattoli in legno e nel 1930 si specializzò nella realizzazioni di prodotti in plastica trasformandosi in Lego, il cui nome deriva dal danese leg godt, che significa "gioca bene". Lego, nonostante le difficoltà avute in questi anni in seguito alla profonda mutazione avvenuta nel mondo dei giocattoli con l’avvento dei videogame, rimane sempre una delle aziende più importanti nel mondo dell’infanzia: ha realizzato parchi a tema (LegoLand) in tutto il mondo e continua ad essere un punto di riferimento per la gestione responsabile d’impresa – nel 2004 è stata nominata dalla rivista Working Mothers ("Madri Lavoratrici") come una delle cento migliori aziende per l'attenzione alle madri lavoratrici.
Ma quando parliamo di prodotti danesi non possiamo dimenticarci della tradizione nella produzione di porcellane con marchi storici come Royal Copenhagen o ancora dell’innovativo design di aziende come Bang & Olufsen o dell’estetica funzionale dei prodotti Rosendahl.

 
Prodi non è il candidato giusto? Sostituitelo con Jack Bauer

Il Foglio - Martedì 7 Febbraio 2006

C’è poco da dire. Il Cav. è un osso duro. Persino nel vorticoso e sfiancante - per lui e per noi, che ce lo troviamo in ogni angolo di palinsesto - tour de force radio-televisivo, Berlusconi riesce sempre a sorprendere e a costringerci davanti alla tv. Il Cav. spiazza, provoca, fa discutere; quando sta in video è perfino capace di convincerci.
Dalla sinistra invece arrivano solo timide repliche per lo più indignate o mediocri smentite d’ufficio: nessuna presa di posizione netta, nessun colpo di teatro. Per battere Silvio Berlusconi una volta per tutte, perlomeno nei dibattiti tv, c’è bisogno di un uomo nuovo, dotato di vero carisma, un uomo che non si lasci intimorire dalle battute di un ex-cantante di piano bar. E allora se toni aspri devono essere, le cose vanno fatte sul serio.
Noi una soluzione qui l’avremmo. Lo spunto ce lo ha fornito il blog Macchianera che sabato ha pubblicato una serie di “manifesti tarocchi” (la moda del momento, senza dubbio) della campagna ulivista dove, al posto di Romano Prodi, campeggiava la foto di Kiefer Sutherland nella sua più recente e celebre interpretazione, quella di Jack Bauer, l’agente dell’Unità Antiterrorismo della serie “24” appena andata in onda su Rete4.
Jack Bauer è colui che in 24 ore riesce a infiltrarsi nel più impenetrabile cartello del narcotraffico, sventare un attentato terrorista nei confronti del Presidente e pilotare un aereo militare contenente un ordigno nucleare, figuriamoci se non è capace di vincere un dibattito tv o di recuperare cinque punti percentuali alle elezioni.
D’accordo, la serie 24 - prodotta dalla Fox di Rupert Murdoch - è stata accusata di essere fortemente filo-repubblicana, ma la sinistra italiana ha ora una priorità: sconfiggere Berlusconi, con ogni mezzo necessario, anche usando le stesse armi della destra. E solo Jack Bauer è l’uomo giusto per farlo. Senza sottilizzare troppo sull’identità della sinistra e sul programma democratico. Non solo Bauer riuscirebbe a mettere alle corde il Presidente del Consiglio in tv, facendogli confessare marachelle adolescenziali e scheletri nell’armadio, ma siamo sicuri che l’agente del CTU, preso dall’entusiasmo, avrebbe già nel cassetto un programma di governo in pochi ed essenziali punti.
Innanzitutto la giustizia: il vero problema del sistema giudiziario italiano, si sa, è l’annosa lungaggine processuale. Con la gestione Bauer niente più tempi dilatati per le udienze o per i ricorsi in appello, basta semplicemente puntare una pistola alla tempia al principale indiziato per ottenere rapidamente la confessione e il gioco è fatto. Anche sui temi sicurezza, legalità e lotta al terrorismo, il nome Bauer è una sicurezza. Per quanto riguarda l’istruzione non sono ancora chiari i dettagli della nuova riforma, ma di certo una cosa è chiara: insegnamento obbligatorio di arabo, ceceno e serbo-croato a tutti gli studenti fin dalla prima media per formare tanti piccoli agenti speciali in grado di far confessare rapidamente le cellule terroristiche insediate in Italia.
Jack Bauer è persona pragmatica che prima di prendere una decisione preferisce provare sul campo e sulla propria pelle gli eventuali rischi o effetti collaterali: per combattere il traffico di droga nella serie andata appena in onda l’agente del CTU si introdusse all’interno di un potente gruppo di spacciatori e costretto a diventare tossicodipendente da eroina - altro che spinello giamaicano di Fini.
C’è però un unico problema, la figlia. Non avendo più la moglie, ovviamente assassinata da una ex collega del marito passata dalla parte dei terroristi, Jack Bauer si trascina sempre dietro la bionda figlia, specializzata nel combinare casini e mettersi nei guai. Prima di un qualsiasi incarico da offrire al padre, è necessario trovare un impiego alla figlia per tenerla impegnata e potenzialmente innocua, come ad esempio trasformarla nella migliore alunna del professor Cacciari, sostituendosi alla figlia del Cav.
Jack Bauer, che non lascia niente al caso, avrebbe anche un candidato per il ruolo di Presidente della Repubblica al quale promettere eterna fedeltà, ovvero Sergio Cofferati, l’uomo che più di ogni altro corrisponde alle caratteristiche di David Palmer il presidente USA nella fiction della Fox: un uomo fermo nelle sue decisioni di non trattare con i “cattivi”, ma assai debole nei confronti dell'altro sesso, un altro vero leader che la sinistra già una volta si è lasciata scappare.
Siamo ancora in tempo per un cambio dell’ultimo minuto.
Jack Bauer, altro che “uomo di facciata”.

Thursday, February 02, 2006

 
Più poster per tutti

Il destino nel manifesto. Forza Italia contro Ds come Pepsi contro Coca-Cola.

Il Foglio - 2 Febbraio 2006

Tutto ebbe inizio durante la campagna delle politiche del ‘94. La copiosa produzione di manifesti e slogan da parte della neonata Forza Italia fece scatenare tra tutti gli antiberlusconiani la gara a “taroccare” gli allora giganteschi manifesti (6 per 3): aggiungere un “più” laddove c’era un “meno” (“più tasse per tutti”) e poi baffi e denti neri sulla faccia del cavaliere. Marachelle da ragazzini.
Ma fu nelle politiche del 2001, con la massiccia diffusione di internet e delle e-mail, che la parodia si trasformò in un’operazione sistematica e ben organizzata. Attraverso l’uso professionale di Photoshop, il volto sorridente del presidente imprenditore e operaio che guardava dritto negli occhi gli elettori promettendo mirabilia, fu lo spunto di una serie di parodie che, attraverso il tam tam telematico dell’e-mail, ebbe rapido successo.
Nella campagna elettorale appena iniziata sembra invece che i ruoli si siano ribaltati: oggetto dello sberleffo non è Berlusconi e neppure Forza Italia, bensì i Democratici di Sinistra. La vera novità però sta nel fatto che gli autori dei “manifesti tarocchi” non sono più privati cittadini burloni, ma direttamente le segreterie dei partiti di governo. Fino a pochi giorni fa digitando l’indirizzo www.forzaitalia.it si poteva trovare nella home page la riproduzione di una serie di manifesti molto simili alla nuova campagna dei DS, quella che ha come slogan comune “Domani è un altro giorno”: nella parodia degli Azzurri, viene aggiunto un confidente “Speriamo di no” posto tra parentesi.
Se Fassino & Co. nei manifesti che in questi giorni sono affissi sui muri di mezza Italia dichiarano “Oggi leggi su misura, domani riforme”, la parodia di Forza Italia risponde “Oggi leggi per i nostri figli, domani per il Consorte”; allo slogan “Oggi precarietà, domani lavoro” viene controbattuto “Oggi occupazione, domani Okkupazioni”. Al momento non sappiamo ancora se questa operazione, che nel manifesto viene firmata dal doppio simbolo dei "Democratici non a sinistra" e delle “Olive”, avrà un seguito o una visibilità oltre che sul web dove, all’indirizzo http://www.forzaitalia.it/speriamodino/, si può trovare l’intera contro-campagna.
Il testo della pubblicità utilizzato quest’anno dai Ds peraltro si presta bene alle parodie, se è vero che anche il ministro Gianni Alemanno, candidato di Alleanza Nazionale a sindaco di Roma ha utilizzato questo format per la propria campagna affiggendo nella strade romane manifesti che recitano slogan come “Oggi inaugurazioni finte, Domani opere vere” e il claim “Roma merita un altro sindaco” inserite nella stessa gabbia grafica.

Considerata l’impostazione e il taglio fortemente pubblicitario che sta prendendo questa campagna elettorale, potremmo aspettarci nelle prossime settimane altri esempi di campagne parodistiche. Del resto questo è un tipico riflesso di comunicazione che avviene in quei mercati maturi dove l’offerta dei competitors è piuttosto indifferenziata: basti pensare alle celebri campagne americane degli anni Ottanta e Novanta di Coca-Cola e Pepsi dove quest’ultima, più iconoclasta della tradizionale e conservatrice Coke, giocava le sue comunicazioni sbeffeggiando il concorrente e le sue pubblicità “buoniste” o, più recentemente, in Italia nel mercato delle auto tra gli spot tv di Alfa e Bmw.

Daniele Capezzone segretario dei radicali della Rosa nel Pugno si sarebbe invece ispirato alle tante pubblicità delle società telefoniche, quelle che mettono a confronto le proprie tariffe con quelle della concorrenza, nel proporre l’idea di comparare la caratteristiche della principale candidata femminile Emma Bonino con la senatrice uscente di Allenza Nazionale Daniela Santanchè. Ma la cosa non deve essere affatto piaciuta all’europarlamentare radicale visto che la campagna non si farà.
Ma chi meglio della classica famiglia italiana (marito, moglie, figlia adolescente, nonno in pensione) può convincere l’elettorato medio sulla bontà di un prodotto o di un servizio? Così Gianni Cuperlo, responsabile informazione dei Ds ha dato l’incarico alla agenzia Proforma di Bari (la stessa che ideò la campagna di Nichi Vendola in Puglia e l’idea dei post-it per Fausto Bertinotti, candidato alle primarie del centrosinistra) di realizzare cinque spot - anche se vengono chiamati cortometraggi - da programmare nei circuiti cinematografici, in cui si narrano le storie di tutti i giorni della famiglia Spera, che arriva a malapena a fine mese e che, appunto, spera in un’Italia dove la tv è libera, il Paese unito e la ricchezza meglio distribuita.
Le fotografia e la tecnica di regia dal tono ironico e iperrealista utilizzata da Gianni Troilo e Graziano Conversano prende a piene mani dallo stile di un’altra celebre coppia di registi francesi, Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, autori del film Delicatessen. Anche loro, guarda caso, provenienti dalla pubblicità.

Wednesday, February 01, 2006

 
Come venedere Coca Cola al consumatore confuciano
La Cina è un mercato immenso ma difficile, basta un piccolo errore e ti ritrovi a bere "un cavallo femmina legato con la cera"

Il Foglio - 1 Febbraio 2006

Febbre Cinese. La Cina è più vicina. Obiettivo Cina.
Quotidianamente, nelle pagine economiche dei giornali, nei consigli di amministrazione o in qualsiasi dibattito in materia economica, l’argomento Cina, visto come ricca opportunità di business, viene sviscerato da ogni angolazione.
Tutto ebbe inizio negli anni Novanta quando le grosse corporation si resero conto che produrre in Cina conveniva: investimenti ridotti per gli impianti, manodopera a basso costo, altissimi ritmi di produzione e diritti dei dipendenti non sempre rispettati. Le condizioni di lavoro con il passare degli anni sono leggermente migliorate - anche se il problema dei diritti violati è sempre ben presente - grazie all’entrata della Cina all’interno della World Trade Organization nel 2001. Da allora la prospettiva da parte dei paesi occidentali è profondamente cambiata: la Cina non è più solo un punto di riferimento per la produzione industriale ma, soprattutto, un mercato vergine e aperto a tutti.

I numeri, più di tante parole, rendono meglio l’idea delle dimensioni del “Continente Cina” e possono far sobbalzare dalla sedia più di un direttore marketing o commerciale:
Popolazione: oltre 1 miliardo e trecento milioni (gli abitanti USA circa 296 milioni, quelli dell’Unione Europea circa 457 milioni).
Crescita annua del Prodotto Interno Lordo:+9,9 per cento (USA +4,4 per cento, EU +2,4 per cento).
Percentuale di debito sul reddito disponibile delle famiglie: 30 per cento (USA 110 per cento, Italia circa il 40 per cento).


La Cina si presenta oggi come un’economia gigantesca che cresce rapidamente, con una finanza sana e un risparmio crescente da parte delle famiglie che desiderano oltretutto recuperare, attraverso i consumi e uno stile di vita più moderno, il tempo perduto da decenni di buio.
Con il libero mercato e con le molte iniziative organizzate dai governi (il 2005 è stato l’anno della “Francia in Cina” e, secondo una prima stima, il portafoglio d’affari delle aziende francesi è stato quintuplicato) piccoli e medi imprenditori e grosse multinazionali hanno la possibilità di sviluppare in Cina lungimiranti business con enormi possibilità di guadagno.
Tutto questo è vero teoricamente, perché in pratica sono molti gli ostacoli che rendono il mercato cinese un ambiente complesso, estraneo e spesso incomprensibile.
Innanzitutto non esiste una sola Cina. Chi si trova già ad operare all’interno di questo mercato sa che per linguaggio, cultura, clima, dieta alimentare, reddito e storia, esistono “molte Cine”. Il linguaggio innanzitutto è la barriera principale: sebbene ci sia una comune lingua scritta, esistono ben otto lingue parlate che non comunicano tra loro. Il regime comunista ha cercato per molti decenni di imporre il mandarino come idioma comune al fine di rafforzare l’unità nazionale, ma altri “dialetti” regionali come lo shanghainese e il cantonese, sono sopravvissuti. Il cantonese oggi viene parlato da circa 60 milioni di persone nella provincia del Guangdong, ad Honk Kong e Macao, nonché da tutta la popolazione cinese che abita fuori dal paese, ed è diventato la lingua principale per le conversazioni su argomenti popolari e di intrattenimento, quindi anche il codice linguistico ufficiale per la comunicazione pubblicitaria.

Mercato pubblicitario in Cina: oltre 7 miliardi di euro
Tasso di crescita del mercato pubblicitario cinese: +20 per cento, nel resto del mondo +5 per cento
Penetrazione di apparecchi tv nelle abitazioni cinesi: 99 per cento
Oltre 100 milioni hanno la tv via cavo.
Quotidiani venduti ogni giorno: 85 milioni. La Cina è il mercato editoriale più grande del mondo.
Utilizzatori del telefono cellulare: oltre 353 milioni pari al 26 per cento della popolazione (USA:180 milioni, pari al 50 per cento ) con 5 milioni e mezzo di nuovi abbonamenti al mese.


Ma la vera grande differenza tra le “tante Cine” è quella culturale e socio-economica tra le metropoli situate nelle zone costiere e i migliaia di piccoli villaggi rurali disseminati all’interno. Molti sociologi temono che il gap tra la forte crescita verificatasi nella costa est e quella lenta dell’interno possa diventare una minaccia per la stabilità sociale e politica del paese, specialmente se le aziende e le istituzioni proporranno delle strategie di penetrazioni dei prodotti e dei servizi indifferenziate e uguali per tutti.
Molti imprenditori europei e americani oggi sbarcano in città fortemente sviluppate come Shanghai o Pechino credendo che queste rappresentino la Cina e, una volta saturati questi mercati, si spostano nelle città secondarie e terziarie come Wuhan, Nanjin o Chongquing il cui reddito medio è più basso di circa il 30-40 per cento rispetto a quello degli abitanti delle metropoli, e questo senza modificare minimamente la politica commerciale.
Da un punto di vista dei consumi quindi lo scenario che si presenta è molto differente: ad esempio, per quanto riguarda l’abbigliamento sportivo, nelle metropoli dominano marchi occidentali come Nike e Adidas, mentre nelle città più piccole, tipicamente più nazionaliste e patriottiche, le scarpe da ginnastica più vendute sono le Li Ning, un marchio locale che, forte del grande successo ottenuto in Cina, sta iniziando ora a esportare le proprie sneakers sul mercato europeo. Procter & Gamble, multinazionale americana tra le prime a sbarcare in Cina, ha fin da subito adottato strategie di penetrazione del mercato differenziate: ad esempio la crema sbiancante Olay, molto utilizzata in Oriente per schiarire la pelle delle donne, viene venduta nella “zona 1” (Pechino, Shanghai, Hong Kong) nella versione luxury attraverso una pubblicità che evidenzia dettagliatamente i benefici della crema. Nelle città rurali popolate da consumatrici meno sofisticate e attente al prodotto viene commercializzata la crema più economica abbinata ad una pubblicità che mostra soltanto la foto del volto femminile dopo il trattamento senza fornire alcuna spiegazione.

Il 2006 è l’anno della “Russia in Cina”, mentre il 2007 sarà la volta della Spagna. Anche l’Italia quest’anno è presente nel continente cinese, ma solo attraverso una serie di iniziative culturali. Una delegazione italiana presieduta dal Ministro per i Beni Culturali Rocco Buttiglione ha appena fatto ritorno da Pechino per l’inaugurazione della mostra “Specchio del tempo” con 80 opere italiane rinascimentali e per una serie di accordi tra cui quello firmato dalla Rai e la tv cinese CCTV per scambio di contenuti e canali sul digitale terrestre.

E poi ci sono i cinesi. C’è la cultura cinese, profondamente diversa da quella occidentale e che incide sulle decisioni di acquisto e di consumo.
La stragrande maggioranza della popolazione cinese non vuole imitare o scimmiottare lo stile di vita degli occidentali. Vogliono essere moderni e internazionali, ma mantenendo la loro forte identità orientale.
Noi valorizziamo l’intraprendenza e l’iniziativa personale, loro ricercano l’armonia. Noi pensiamo ed agiamo individualmente per controllare e modificare il nostro destino, i cinesi ne accettano l’ineluttabilità. Noi siamo fondamentalmente individualisti. Loro invece ragionano in termini di comunità, si sentono parte di un gruppo.
L’introduzione di un prodotto rivolto ai consumatori cinesi, e quindi alla loro visione del mondo, è sempre un’operazione molto delicata che richiede una complessa analisi dei bisogni, degli atteggiamenti e dei comportamenti del consumatore a cui lo si vuole offrire. Spesso molti imprenditori, in cerca di guadagni rapidi e facili, cadono nella semplificazione sostenendo che se il prodotto ha avuto successo in occidente, per forza dovrà averlo anche in Cina; ma i casi di fallimenti aziendali o di lanci che si sono rivelati dei grossi flop sono lì a dimostrare che non è questa la strada da percorrere.
Recentemente è uscito negli Stati Uniti un libro intitolato “Billions: Selling To The New Chinese Conusmer” scritto da Todd Doctoroff , capo della sede cinese dell’agenzia pubblicitaria J. Walter Thompson: in questo saggio sono raccolti una serie di consigli agli imprenditori che desiderano investire in Cina e che prima vogliono conoscere e condividere la visione del mondo del consumatore; consumatore definito “confuciano” per evidenziare la profonda integrazione tra istinto conformista e spirito moderno.
La donna cinese, ad esempio, è quella maggiormente investita da profondi cambiamenti. E’ ancora essenzialmente moglie, devota alla famiglia e alla casa, e madre, attenta alle direttive del governo e ai bisogni della prole, ma si sta imponendo sempre più una nuova figura di donna emancipata e individualista. Oltre a questo, esistono delle differenze sostanziali che influenzano anche i consumi: in Cina, la bellezza femminile è considerata uno strumento per raggiungere una maggior emancipazione e affermazione sociale, non di attrattiva nei confronti dell’altro sesso. Ne consegue che l’acquisto di prodotti di bellezza, di abbigliamento e il massiccio ricorso alla chirurgia plastica per occidentalizzare i tratti del volto, sono finalizzati a trovare un lavoro o ad avere un ruolo più importante all’interno della società e non alla conquista dell’altro sesso. Quindi le aziende che vogliono promuovere l’acquisto di un profumo o uno shampoo dovranno tener conto di queste diverse mentalità e desideri della consumatrice cinese. Per fare un altro esempio: a Pechino il più figo del gruppo è quello più intelligente non quello più bello esteticamente. Nella società cinese dove regna la legge del cane-mangia-cane e la severa gerarchia della tradizione confuciana, l’intelligenza è l’arma fondamentale: perciò le palestre o i centri di bellezza per uomini potranno incontrare solo una piccola sparuta nicchia di mercato.

Da domenica la Cina è entrata nell’anno del Cane: secondo il calendario lunare cinese è l'anno 4704. I festeggiamenti dureranno per una settimana e circa 200 milioni di lavoratori cinesi stagionali, emigrati nelle grandi città, ne approfitteranno per far ritorno a casa. La festa rappresenta per molti anche la speranza di ottenere i salari arretrati, come promesso dal governo cinese: nel 2004 la somma degli stipendi non pagati ammontava a ben 20 miliardi di yuan (pari a 2 miliardi di euro).


Anche il rapporto tra i cinesi e la casa è profondamente diverso dall’approccio occidentale: la casa è un luogo di rifugio e di fuga dal mondo esterno e solo raramente rappresenta l’espressione di sé. I concetti principali legati alla propria abitazione sono comfort, semplicità e discrezione: i mobili e gli accessori che servono per arredare la casa, anche tra le famiglie più ricche, vengono scelti tra quelli locali e più a basso costo. E’ raro quindi che le famiglie cinesi organizzino cene in casa per amici o per parenti, preferiscono invece mostrare il proprio status sociale all’esterno, magari attraverso oggetti tecnologici, vestiti o automobili. Nonostante i rapidi cambiamenti che la società cinese sta attraversando, queste tradizioni sono dure a morire: l’avvertimento è direttamente rivolto a tutti quei mobilieri e designer che pensano di diffondere il made in italy all’interno delle magioni cinesi e che spesso non prendono in considerazione le abitudini, i bisogni e, soprattutto, le risorse disponibili.

Reddito disponibile pro capite: 13.700 yuan pari a 1.400€ (USA 29.540$, Italia 16.900€).
Tasso di crescita annuale dei consumi in Cina previsto per il prossimo decennio: +18 per cento (USA +2 per cento, EU +1,3 per cento).
Rapporto fra risparmio e reddito disponibile delle famiglie: 23 per cento (USA 1,2 per cento, Italia 15,9 per cento ).


Ma c’è ancora un ostacolo di cui spesso non viene tenuto conto, ovvero la traduzione del proprio brand o prodotto in ideogrammi. Se il marchio esprime un valore o ha un senso compiuto, la traduzione risulta piuttosto semplice. Ma se, come spesso capita, il nome dell’azienda deriva dalla città d’origine, o dal suo fondatore, o è semplicemente un nome di fantasia, allora il gioco si fa duro. Mentre i linguaggi occidentali codificano le parole in scrittura, qui ogni ideogramma (circa 40,000 caratteri) rappresenta una parola, è necessario quindi decidere come dovrà essere tradotto il marchio che entra in Cina sia foneticamente sia visualmente. Circa la metà dei brand stranieri che entrano in Cina sono tradotti foneticamente come il nostro Ferrari (“Fe la le”) o Nokia (“no ji ya”), quindi attraverso dei suoni simili, anche se non proprio uguali. L’altra metà dei marchi stranieri viene tradotto letteralmente come Shell (“bei ke” cfr. conchiglia) e Nestlè (“que chao” cfr. nido di rondine). Vale la pena raccontare il caso Coca-Cola che dalla nel 1928 rischiò di rimanere danneggiata dalla traduzione del proprio nome. Poiché Coca-Cola è un nome privo di significato, il gruppo di Atlanta prima di entrare nel mercato cinese cercò una traduzione che ne riproducesse il suono: scoprì però che vi erano circa 200 ideogrammi che potevano suonare come “ko ka ko la”. Mentre gli americani cercavano una soddisfacente combinazione di simboli che rappresentassero graficamente il proprio nome, gli importatori cinesi decisero di creare un marchio combinando caratteri che suonassero bene, senza tuttavia badare al significato nella forma scritta. Così Coca-Cola divenne in cinese “un cavallo femmina legato con la cera”. Puro nonsense.
Solo più tardi i responsabili marketing di Atlanta riuscirono a trasformare il proprio marchio con una traduzione più appropriata, che abbinasse al suono anche un significato coerente al prodotto. Così venne scelto la traduzione “qualcosa che fa resuscitare la bocca”.

La Cina oggi produce per tutto il mondo: il 75 per cento dei giocattoli, il 58 per cento dei vestiti, il 29 per cento dei telefoni cellulari e il 65 per cento di accessori e attrezzi sportivi.

Archives

10/01/2004 - 11/01/2004   11/01/2004 - 12/01/2004   12/01/2004 - 01/01/2005   01/01/2005 - 02/01/2005   02/01/2005 - 03/01/2005   03/01/2005 - 04/01/2005   04/01/2005 - 05/01/2005   05/01/2005 - 06/01/2005   06/01/2005 - 07/01/2005   07/01/2005 - 08/01/2005   08/01/2005 - 09/01/2005   09/01/2005 - 10/01/2005   10/01/2005 - 11/01/2005   11/01/2005 - 12/01/2005   12/01/2005 - 01/01/2006   01/01/2006 - 02/01/2006   02/01/2006 - 03/01/2006   03/01/2006 - 04/01/2006   04/01/2006 - 05/01/2006   05/01/2006 - 06/01/2006   06/01/2006 - 07/01/2006   07/01/2006 - 08/01/2006   09/01/2006 - 10/01/2006   10/01/2006 - 11/01/2006   11/01/2006 - 12/01/2006   12/01/2006 - 01/01/2007   01/01/2007 - 02/01/2007   02/01/2007 - 03/01/2007   03/01/2007 - 04/01/2007   04/01/2007 - 05/01/2007   05/01/2007 - 06/01/2007   06/01/2007 - 07/01/2007   07/01/2007 - 08/01/2007   08/01/2007 - 09/01/2007   09/01/2007 - 10/01/2007   10/01/2007 - 11/01/2007   11/01/2007 - 12/01/2007   02/01/2008 - 03/01/2008   04/01/2008 - 05/01/2008   08/01/2008 - 09/01/2008   07/01/2009 - 08/01/2009   11/01/2009 - 12/01/2009   12/01/2009 - 01/01/2010   01/01/2010 - 02/01/2010   02/01/2010 - 03/01/2010   03/01/2010 - 04/01/2010   05/01/2010 - 06/01/2010   06/01/2010 - 07/01/2010   08/01/2010 - 09/01/2010   11/01/2010 - 12/01/2010   12/01/2010 - 01/01/2011   01/01/2011 - 02/01/2011   02/01/2011 - 03/01/2011   03/01/2011 - 04/01/2011   04/01/2011 - 05/01/2011   05/01/2011 - 06/01/2011   06/01/2011 - 07/01/2011   07/01/2011 - 08/01/2011   08/01/2011 - 09/01/2011   09/01/2011 - 10/01/2011   10/01/2011 - 11/01/2011   11/01/2011 - 12/01/2011   12/01/2011 - 01/01/2012   01/01/2012 - 02/01/2012   02/01/2012 - 03/01/2012   05/01/2012 - 06/01/2012   06/01/2012 - 07/01/2012   07/01/2012 - 08/01/2012   08/01/2012 - 09/01/2012   04/01/2013 - 05/01/2013   06/01/2013 - 07/01/2013   07/01/2013 - 08/01/2013   08/01/2013 - 09/01/2013   08/01/2014 - 09/01/2014   01/01/2017 - 02/01/2017  

This page is powered by Blogger. Isn't yours?