EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Tuesday, December 28, 2004

 
CONSIGLI A LAPO - 9

Il boom del Chrismukkah, Natale multiculturale, "venduto" con un merchandising vincente.

di Michele Boroni
Il Foglio - 28 Dicembre 2004

Adesso che è passato lo possiamo dire: il Natale, visto esclusivamente come (evento di marketing", ha ormai giocato tutte le sue carte. Inoltre l’immaginario e l’iconografia costruitagli intorno non corrisponde più allo spirito dei tempi. Anche per questo il 2004 in USA è stato l’anno del Chrismukkah: un mix tra la festività cristiana (Christmas) e quella ebraica (Hannukkah).
Tutto iniziò lo scorso anno, durante una puntata di O.C. (la serie tv, un cult anche in Italia) in cui Seth, uno dei protagonisti, spiegava agli amici che il padre ebreo e la madre cristiana avevano deciso di unire i due eventi religiosi e creare così una nuova festività.
Quello che era nato semplicemente come un argomento originale per un serial del prime time, è diventato una sorta di evento mediatico: Michelle e Ron Gompertz coppia cristiano-ebrea di Livingston, Montana, vedendo la puntata notarono che la situazione non era poi così paradossale e che molti famiglie multiculturali si trovavano a dover scendere a compromessi per combinare i due festeggiamenti, così iniziarono ad inviare ad amici e parenti biglietti che riportavano l’augurio di un buon Chrismukkah. La voce e l’interesse si sparse e la coppia, con spirito imprenditoriale, creò un sito nel quale si scambiavano idee e ricette per come festeggiare la nuova festività e dove venivano venduti una serie di biglietti di auguri e merchandising vario che in questi ultimi mesi hanno avuto un successo clamoroso.

Il Chrismukkah - che dura dal 7 Dicembre (dal primo giorno del Chanukah, conosciuta anche come Festa Ebraica delle Luci) fino al giorno di Natale - non ha la pretesa di diventare una vera e propria festa religiosa, ma piuttosto un evento che cerca di fondere e amalgamare le tradizioni e gli aspetti ludici legati alle vacanze dei rispettivi culti e, non ultimo, un simpatico pretesto per vendere merchandising e creare nuove abitudini di consumo. Gli stessi Gompertz e Josh Schwartz, il brillante autore di O.C., hanno infatti creato una linea di merchandising tra cui spicca il vendutissimo Yarmaclaus, il cappello nato da un mix tra il berretto con la nappa di Babbo Natale e il Yarmulke, lo zuccotto ebraico (chiamato anche Kippah), che lo stesso protagonista di O.C. indossava nel corso della puntata proprio mentre si ingegnava a trovare la strategia giusta per lanciare sul mercato il Chrismukkah e renderlo più popolare di Halloween.
La realtà sta superando la fiction visto che Procter & Gamble, Seagram e FedEx ci stanno facendo già dei pensierini.

Mentre qui in Italia siamo ancora al Telethon Rai presentato dalla Carlucci, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna a Natale sono molte le aziende (quelle a fini di lucro) che si mettono in mostra per finanziare e sponsorizzare operazioni di solidarietà e di beneficenza. Quest’anno le marketing charity campaigns sono triplicate rispetto al 2000 e il pubblico, specialmente quello dei giovanissimi, pare apprezzare molto.
Una delle campagne più di successo in USA è quella organizzata dalla Lance Armstrong Foundation guidata dal ciclista americano, assurto ormai ad eroe nazionale, che è riuscito a sconfiggere il cancro e tornare a correre da campione: il suo braccialetto portafortuna è diventato un accessorio cool e attraverso una massiccia e diffusa rete di vendita che ha coinvolto Nike e la catena dei Discovery stores in due mesi sono stati venduti 150.000 braccialetti alla settimana per un totale di 28 milioni di dollari a beneficio della ricerca sul cancro.

In questo periodo poi chi si trova nei ristoranti più fighi di Londra (dal Claridge di Gordon Ramsey alla Locanda Locatelli) noterà, insieme al conto, un bigliettino scritto splendidamente dall’attore Stephen Fry in cui si comunica che se la cena è stata piacevole e qualora lo si voglia, potrà essere aggiunta una sterlina che porterà conforto e speranza agli homeless della città. L’operazione si chiama StreetSmart è organizzata dalla società Bloomberg e coinvolge le maggiori città della Gran Bretagna. Dagli inglesi in fatto di stile e understatment abbiamo solo da imparare.

Anche Gap, ABC’s Carpet & Home e perfino il brand macho Harley-Davidson questo Natale si sono prodigati per cause buone e giuste: molti analisti sostengono che il motivo principale è che la pubblicità, le sales promotion e i tradizionali strumenti del marketing ormai non funzionano più e che per combattere il calo dei consumi e le catene dei discount è necessario trovare nuovi approcci più creativi: la “beneficenza” è uno di questi. Le stesse condizioni economiche non proprio floride in cui versano gli Stati Uniti e specialmente le fasce più emarginate rappresentano un impulso per l’americano medio a sentirsi colpevole e perciò ad acquistare non solo per soddisfare se stesso.
C’è infine chi (malignamente) sostiene che la categoria che veramente ha bisogno di essere aiutata e supportata è proprio quella dei commercianti e dei manager delle grosse corporation. E, come dire, in questo caso si gioca in casa.

Friday, December 17, 2004

 
CONSIGLI A LAPO – 8

Il marketing applicato al blog funziona, ma occhio al boicottaggio sempre in agguato.

di Michele Boroni
Il Foglio - 17 DIcembre 2004

Questa settimana parliamo di blog.
L’argomento blog in questi ultimi tempi è passato dai computer delle camerette o degli uffici in pausa pranzo, alle sale riunioni delle agenzie di Pubbliche Relazioni, sui giornali economici e dentro i piani di comunicazione delle divisioni marketing di grosse aziende.
In molti infatti si sono accorti che il "blogging" se sfruttato in modo intelligente e con le giuste misure può essere un efficace strumento di marketing. E di business.
Il primo ad averlo intuito è stato il newyorkese Nick Denton che dopo le parziali delusioni ottenute in epoca new economy, si è creato una propria società - la Gawker Media - che gestisce una decina di weblog di grandissimo successo tra cui lo stesso Gawker (una sito di pettegolezzi che parla di NewYork, media e celebrities), un blog porno soft (FleshBot), l’irriverente gossip politico (Wonkette) e uno dedicato al mondo dei nuovi gadget (Gizmodo). Con questi blog Denton si rivolge ad un target ben preciso - quello che va dai 18 ai 34 anni - sul quale punta particolarmente anche l’industria pubblicitaria e che è sempre più difficile da raggiungere attraverso i media tradizionali. E sorprendentemente questi blog hanno fatto risalire (+35% secondo l’ultima stima) il mercato pubblicitario sull’internet che era stato fino ad oggi affossato dai portali e dalla bolla new economy: così prestigiose riviste come il Business Week, hanno ricominciato a parlare di business legato alla rete attraverso i blog.
Il segreto del successo della Gawker Media sta nell’aver individuato delle nicchie tematiche (il gossip politico, il porno soft, il mondo delle celebrities) che suscitano curiosità tra il gli utenti del world wide web e sulle quali l’editoria classica latita, utilizzando un linguaggio e un codice di comunicazione sfrontato e senza peli sulla lingua.
Ma Denton ha fatto di più: ha creato dei blog tematici, dei progetti editoriali fatti ad hoc per il web , facendoli sponsorizzare, in modo più o meno palese, da importanti brand: è accaduto con grande successo per “The art of speed” dove venivano raccolti video di giovani artisti e riflessioni sul tema della velocità e in cui non venivano praticamente mai citati i prodotti della Nike, l’azienda sponsor dell’operazione. Ultimamente ci ha provato di nuovo, con un weblog dedicato alle auto (Jalopnik) che è sponsorizzato, in modo fin troppo evidente da risultare credibile e obiettivo, da Audi.
In Italia intanto un gruppo di "microeditori" sta provando sull'onda dei successi oltre oceano di Gawker, attraverso il progetto Blogo, di sperimentare la formula del blog per dare vita ad un gruppo editoriale indipendente.

Sono in molti ad interrogarsi sull’efficacia di queste azioni di marketing applicate ai blog, quello che sappiamo è che è necessario accostarsi con cautela ai bloggers: un approccio troppo aggressivo rischia di ottenere l'effetto contrario a quello sperato. E' quello che è accauto alla Dr.Pepper-7Up che lo scorso anno, sempre negli Stati Uniti, per il lancio di Raging Cow - una bevanda a base di latte aromatizzato rivolta al pubblico dei teenagers - ha inviato lattine e vario merchandising ai redattori dei blog che hanno più successo tra i teenagers, sperando, ovviamente, in una promozione del prodotto e ottenendo invece nessuna pubblicità ma, al contrario, un boicottaggio che ha completamente affossato la bevanda verso il target giovanile.
I weblog hanno però tutte le caratteristiche per diventare il prossimo fenomeno nella comunicazione su internet e non solo: i bloggers appartengono a quella categoria di twenty e thirtysomenthing così tanto ricercata dagli investitori pubblicitari, utilizzano linguaggi e codici informali, sono ben strutturati e organizzati in comunità e parlano, scrivono, commentano ed esprimono giudizi. E molti di loro, nei rispettivi campi di competenza, sono considerati credibili ed autorevoli e, con le loro opinioni riescono ad influenzare gusti e a direzionare gli acquisti: molti film, dischi e prodotti tecnologici sono passati dal fenomeno di culto al successo grazie anche al passaparola e a quel processo di viral marketing naturale che i blog riescono a generare.
E se è vero che "i mercati sono conversazioni" come recitava la prima delle 95 tesi del Cluetrain Manifesto, una sorta di testo sacro, irriverente e provocatorio, della comunicazione aziendale al tempo di Internet, allora i blog possono davvero diventare the next big thing.

Thursday, December 09, 2004

 
CONSIGLI A LAPO - 7

Le magliette dell'imperialista equo e solidale.
Il Giappone no logo a Milano.

di Michele Boroni
Il Foglio, 9 Dicembre 2004

E’ facile criticare "NoLogo" di Naomi Klein (ironia della sorte: un nome, due brand) uno dei libri più noiosi e mal scritti degli ultimi dieci anni.
Del tutto condivisibile biasimare i boicottaggi - senza se e senza ma - dei prodotti realizzati dalle grandi corporation.
Quasi scontato sorridere di fronte ai tentativi teorici di "altri mondi possibili", seguiti poi da sonori fallimenti pratici, ad opera di qualche guru no-global che ha scoperto il baratto fuori tempo massimo.
Però.
Però quando ci si trova di fronte ad esempi di aziende che uniscono etica e profitto, rispetto per i lavoratori e prodotti di qualità con un ironico spirito iconoclasta, non possiamo non toglierci il cappello.

"Noi proponiamo una sorta di ipersintesi tra capitalismo e socialismo" questo dice Dov Charney, trentacinquenne visionario canadese fondatore della American Apparel, piccola azienda di t-shirt nata a Los Angeles che, nel corso di pochi anni, è diventata leader di mercato USA nella produzione di abbigliamento casual con 800 milioni di dollari come fatturato.
I dipendenti (poco più di 1700) di American Apparel sono per la maggior parte immigrati, ma tutti regolarizzati dalla stessa azienda che offre loro gratuitamente, all’interno della fabbrica, lezioni di inglese, di computer, servizio massaggio e yoga. I salari e i sussidi offerti poi sono al di sopra della media nazionale. Questi maggiori costi sono controbilanciati da un’attenta ottimizzazione delle risorse produttive, un’efficiente automazione e una totale integrazione verticale: nessuna funzione infatti viene data in outsourcing, dal design alla tessitura, dall’assemblaggio alla pubblicità, tutto si svolge negli uffici e nelle fabbriche di downtown L.A., là dove campeggia lo striscione con lo slogan "Siamo la nuova rivoluzione industriale". E forse c’è del vero: avete forse mai visto un imprenditore milionario accompagnare per mano i propri operai al corteo del primo maggio? Un vero e proprio capitalismo attento al sociale, sensibile all’impatto ambientale e che combatte attivamente contro gli sweatshop, letteralmente i negozi del sudore, ovvero quei laboratori tessili (assai diffusi in Asia e in America latina) in cui si producono, sotto condizioni disagiate e disperate, tonnellate di capi per i colossi commerciali americani.
Il fogliante può pensare "Ecco i soliti no-global antiamericani, uniti contro la cultura imprenditoriale del profitto". Macchè. Ecco cosa dichiara Don Chavney al New York Times "Io sono un’imperialista americano, credo nella vita, nella libertà, nella proprietà e nella ricerca della felicità. Qui non si fa beneficienza, si fa business. E si tengono alti i valori americani. Innovazione e responsabilità sociale: questo è il nuovo sogno americano". Neanche fosse Bush.
I vestiti realizzati sono rigorosamente senza marchi visibili, dalle linee basic ed essenziali ma prodotti con materiali resistenti e di qualità a prezzi concorrenziali: per chi scrive sono un po’ banalotti, ma è solo questione di gusti. E intanto i negozi monomarca AA negli Stati Uniti aprono ad un ritmo di 3-4 a settimana. Insomma, un successone.
Pare quindi che la cultura del nologo mista a valori come il patriottismo e la coscienza sociale hanno fatto presa sui giovani americani: a compensare però questi ideali e principi etici, qui il colpo di genio, c’è l’immagine di AA proposta nelle pubblicità e nei punti vendita: un’immagine fortemente trasgressiva e seducente più vicina alle foto di Terry Richardson e ai film di Larry Clark piuttosto che alle immagini pulite e patinate di Gap o Banana Republic.

Qui in Italia, intanto che aspettiamo le magliettine di Dov Charney, accontentiamoci di altri marchi nologo che rischiano di diventare molto cool: tra pochi giorni infatti apre a Milano - dopo Parigi e dopo Londra – Muji, il megastore di oggettistica giapponese dove viene venduto di tutto, dai mobili per la casa al cibo giapponese, dai vestiti alle biciclette. Design minimale, eco-compatibile e senza etichette. State certi che nei prossimi mesi nei bagni delle case radical chic milanesi non mancheranno i sali da bagno al cipresso giapponese o i rigorosi articoli non firmati ma riconoscibilissimi: però, mi raccomando, non dite in giro che in Giappone considerano Muji una cosa molto simile alla nostra Standa o all’Oviesse.

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