: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
VIRTU' PERDUTE
Dopo la figuraccia delle auto ritirate dal mercato, ora solo il marketing può salvare Toyota.
Il Foglio - 12 febbraio 2010
Ci vogliono decenni per creare una reputazione e solo pochi giorni per distruggerla. Ed è quello che nell'ultima settimana è accaduto a Toyota, caduta in una spirale negativa che l'ha portata ad una massiccia erosione del proprio patrimonio, non solo finanziario.
I fatti sono noti e, comunque, riassumibili chiaramente in poche cifre: oltre sette milioni di auto richiamate negli Stati Uniti (più quasi due milioni in Europa), otto modelli di auto coinvolte, una settimana di blocco della vendita e della produzione delle linee, circa 30 miliardi di dollari persi in borsa. Tutto per colpa di un difetto al pedale dell'acceleratore che in passato non era stato preso in seria considerazione dell'azienda .
La cosa che stupisce è che tutto questo sia accaduto proprio a Toyota, un'azienda che ha fatto della qualità (con la q maiuscola) e dell'affidabilità i valori fondanti del proprio marchio e che, sopratutto, è diventata la case history, il paradigma e l'esempio virtuoso di strategia di management su cui professori universitari e presunti guru del management hanno campato per anni.
Toyota era da un punto di vista di gestione aziendale e produttivo la “macchina perfetta”, un sistema che si basava sui concetti di qualità e lean production (produzione snella) che garantivano eliminazione degli sprechi, rapidità d’azione e responsabilizzazione del personale e che hanno permesso negli ultimi venticinque anni all'azienda giapponese di moltiplicare sette volte la propria produttività.
Ancora oggi nell'anno accademio 2009-10 l'Università Bocconi di Milano all'interno del suo Dipartimento di Management ha un corso di Nuove Pratiche Manageriali e Organizzative che si basa proprio sul modello di lean mangement di Toyota; ci chiediamo francamente cosa risponderà il docente ai ragionevoli dubbi che i suoi più volenterosi studenti gli porranno in questi giorni.
L'esempio virtuoso di Toyota non si fermava solo all'industria automobilistica, ma era diventato anche modello vincente anche per aziende di servizi, pubblica amministrazione e, addirittura, sanità: il consulente aziendale Alberto Galgano ci scrisse alcuni anni fa un libro intitolato appunto “Fare Qualità - Il Sistema Toyota per industria, servizi, PA, Sanità” (Guerrini & Associati) la cui quarta di copertina recitava “Le aziende che vogliono concretamente “fare qualità” e abbattere i costi della “non qualità” devono applicare il Sistema Toyota, messo appunto dall'azienda che ha raggiunto i più alti standard del suo settore. Alberto Galgano, il suo profeta in Italia, spiega come perseguire la Qualità attraverso la corretta applicazione del Sistema Toyota e una potente, continua e inesorabile 'caccia agli sprechi'”. Nel mondo della consulenza l'importante è non avere dubbi.
Peraltro tale modello è stato adottato, con l'obiettivo di ridurre gli sprechi, anche dall'Azienda Sanitaria Locale di Firenze e dal comune di Correggio.
Ma ritorniamo alla domanda iniziale: come è possibile che questo incidente sia potuto capitare proprio a un'azienda come Toyota? La verità ancora non è chiara, ma secondo alcuni analisti aziendali la corsa spasmodica verso la rapida crescita per sorpassare GM nelle auto vendute, ha posto in secondo piano la qualità così tanto sbandierata ai quattro venti.
Se da un lato la tempistica di questo problema sta lavorando un po' a sua favore - l'inizio dell'anno è un periodo storicamente di bassa stagione per la vendita di automobile, e ciò consentirà a Toyota di terminare le riparazioni prima che inizi la primavera – dall'altra il vero problema sarà riconquistare la fiducia dei consumatori e la propria reputazione sulla quale era stata costruita la propria identità e brand equity.
E questa volta a fare le differenza non sarà il tanto citato, ma anche vano, sistema organizzativo di produzione, bensì una sapiente politica di marketing e pubbliche relazioni.
L'EVOLUZIONE DEL MARKETING OBAMIANO SECONDO NAOMI KLEIN
L'autrice di NO LOGO spiega come Obama è diventato un brand bushiano
Il Foglio - 4 febbraio 2010
Dieci anni fa una giovane giornalista canadese scrisse un saggio che, per time-to-market e sostanziale mancanza d'altro, divenne il manifesto simbolo dei movimenti “no global”.
La giornalista era Naomi Klein e il volume si intitolava “No Logo”. Quelli che l'hanno letto sanno che il volume era una provocatoria indagine sugli scheletri nell'armadio delle corporation, in cui si trattava con dovizia di esempi e particolari il fenomeno del branding e delle sue ripercussioni sulle dinamiche del lavoro; però i giornali e i media in vena di semplificazioni lo trasformarono nel manifesto comportamentale del movimento anti-globalizzazione. Un successo incredibile, anche in Italia. Del resto la copertina era così pop, con quel nero che snelliva e che staccava bene nelle librerie dei salotti popolate dai pastelli di Adelphi. Leggerlo, del resto, era una faticosa eventualità.
Sono passati dieci anni , appunto, e in questi giorni il libro torna nelle librerie inglesi (No Logo - 10th Anniversary Edition - Fourth Estate – 9,99£) impreziosito da una prefazione dell'autrice che vale la pena analizzare.
La scrittrice giornalista (il cui nome è la somma di due brand) è la prima a sottolineare l'equivoco generato da molta stampa: per questo motivo ha preferito negli anni successivi concentrarsi sulla politica americana e raccontarla utilizzando la metafora del branding e del marketing deviato.
In passato il suo target principale è stata l'amministrazione Bush colpevole, secondo la Klein, di aver dato in outsourcing al settore privato molte delle funzioni più importanti del governo, dalla protezione dei confini a molte funzioni dell'intelligence e in particolare Donald Rumsfeld per il suo comportamento da persuasore occulto che invitava il popolo americano a guardarsi dai pericoli senza mai spiegare di che cosa realmente si trattassero.
Oggi invece il suo bersaglio preferito è Barack Obama, sia il team che ha organizzato la sua campagna elettorale sia il suo illusorio primo anno di amministrazione.
L'elezione di Obama, secondo la Klein, è stato una vera e propria operazione di re-branding degli Stati Uniti, di rilancio del marchio USA nel mondo, un'operazione condotta con le più avanzate tecniche comunicative a disposizione. Al punto che poche settimane prima della sua elezione l'Associazione degli Inserzionisti Americani lo aveva già incoronato come Marketer of The Year. Nonostante la crisi, l'economia generata dal marchio Obama è in grande ascesa: J Crew, la griffe d'abbigliamento preferita da Michelle Obama ha visto crescere il suo valore azionario del 200%, come pure l'azienda produttrice del Blackberry, il telefono del presidente, per non parlare di marchi come Pepsi, Ikea e Southwest Atlantics che dopo l'elezione di Obama hanno inserito nelle loro comunicazioni la parola 'Change'.
Il problema - sostiene la Klein - è che come tutti i marchi di lifestyle, alla fine le azioni non sono mai all'altezza delle speranze che sono riusciti ad alimentare. La perfetta macchina che ha costruito intorno al presidente un superbrand è caduta nella trappola dell'eccessiva comunicazione: preferendo il gesto simbolico rispetto al programma articolato, privilegiando i simboli sulla sostanza, gli slogan su spiegazioni chiare, costruendo una tela su cui tutti quanti sono invitati a proiettare i loro desideri più profondi. Come letto su Advertising Age, in tema di posizionamento Obama è riuscito ad essere sia Coca Cola sia Honest Tea, sia il megamarchio globale di grande notoriet sia quello di nicchia e da intenditori.
La strategia di comunicazione utilizzata da Obama ricorda molto quella di Nike e Apple in cui venivano usate immagini e situazioni molte evocative e di contenuti rivoluzionari per poi vendere lo stesso prodotto di sempre. Allora dalle indagine e dalle ricerche di mercato era emerso nei consumatori il desidero di qualcosa di più dello shopping – un cambiamento sociale, voglia di spazi pubblici, un trionfo dell'uguaglianza. Lo stesso è successo per Obama: il popolo americano, uscito dal periodo Bush, desiderava sentirsi parlare di libertà civili, ecologia e di un progetto politico più grande di loro. Obama ha vinto capitalizzando questa profonda nostalgia per i movimenti sociali. Ma era solo una piattaforma di comunicazione.
Ricorda la Klein che in fondo Obama ha preso soldi da Wall Street più di qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca e sta continuando la politica internazionale di Bush, anche se con uno stile meno arrogante.
La giornalista canadese, nonostante tutto, nutre ancora una forte speranza nei confronti di Obama e aspetta “the real thing”: già, proprio come il claim anni '70 della Coca-Cola.