: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
Dopo Mattel e Nokia Il marchio non dà più garanzie, l'emozione non basta a sostiutire il controllo sull prodotto.Il Foglio - 30 agosto 2007Ah, che belli i tempi di Carosello.
Al di là dello stile naïf, e dei lunghi siparietti di matrice teatral-radiofonica, il paradigma comunicativo di quel tipo di pubblicità non lasciava spazio a dubbi. Slogan come “Galbani vuol dire fiducia”, “Rex: fatti, non parole” o “Negroni vuol dire qualità” parlavano chiarissimo e dispensavano al consumatore un senso di tranquillità e fiducia nei confronti della marca, sia sulla bontà delle materie prime sia sul funzionamento e sulla qualità del prodotto finito.
La marca, in fondo, serviva a questo.
A partire dagli anni Ottanta l’esasperazione del marketing aziendale ha modificato e, al contempo, complicato le cose: di fronte a prodotti più o meno uguali, contraddistinti solo da centinaia di brand e sottobrand, gli esperti di marketing inventarono un nuovo modo per differenziare gli uni dagli altri. Chiamiamola pure differenziazione emozionale: le agenzie di pubblicità costruirono intorno alla marca un mondo, una serie di valori e componenti immaginifiche (la moda o l’uso smodato dei testimonial) che permettessero al consumatore di distinguerla dalle altre marche-prodotto, spesso identiche da un punto di vista funzionale.
Contemporaneamente le stesse aziende scoprirono che un modo rapido per fare profitti e soddisfare i propri azionisti era quello di ridurre i costi di produzione: iniziò quindi la terziarizzazione o il trasferimento delle fabbriche in Cina, in India e in tutti i quei paesi dove la mano d’opera magari non era molto specializzata, ma almeno era a basso prezzo.
Oggi stiamo vivendo le conseguenze di questi due fattori chiave.
Il recente caso dei giocattoli tossici della Mattel e delle batterie surriscaldate dei cellulari Nokia, confermano quella sorta di “vuoto di marca” che sta emergendo, una discrepanza tra ciò che i marchi dicono di fare e ciò che fanno realmente. Era piuttosto interessante leggere la scorsa settimana sul Corriere della Sera l’opinione di padri moderni e scrupolosi come lo scrittore Sandro Veronesi o come Linus di Radio Deejay, delusi e sfiduciati da ciò che era successo, dal crollo di quelle poche certezze che avevano come genitori responsabili d’acquisto dei giocattoli per i loro figli. Per farla breve, un marchio che non dà più garanzie fiduciarie è come una compagnia aerea i cui voli sono perennemente in ritardo o una banca che non garantisce ai suoi clienti il prelievo dai suoi sportelli bancomat.
Il problema è che il “posizionamento emozionale” di alcuni marchi è stato così efficace che, in alcuni casi, ci ha ottenebrato lo sguardo e non ci ha fatto capire quanto la qualità o semplicemente il controllo dei prodotti stesse scemando. Ci siamo addirittura innamorati di certi marchi di culto - Kevin Roberts, gran capo mondiale della Saatchi & Saatchi li ha dato un nome e si è costruito un’importante carriera sui Lovemarks – perdendo di vista le qualità funzionali dei prodotti.
Per alcune aziende il 2007 può essere visto come una sorta di “anno zero”: dimenticare tutta la fuffa che è stata imbandita intorno al proprio brand e costruire un nuovo rapporto di fiducia con i propri consumatori.
Non più lovemarks, bensì trustmarks.
Questo significa non solo maggiori controlli della filiera e del processo produttivo, ma anche un’informazione completa al mercato e ai consumatori sugli standard di qualità e sui materiali utilizzati. Mettere da parte per un attimo la dimensione emozionale costruita intorno alla marca e ripartire su tematiche più razionali, per evitare i rischi corso dalle Mattel in questo agosto nero: il ritiro di 19 milioni di pezzi, il mancato introito e l’insieme delle attività per gestire la crisi, sono costate all’azienda oltre 22 milioni di euro, oltre alla perdita di immagine e di fiducia, per il momento impossibili da stimare.
Il prodotto «made in China» oggi è particolarmente vulnerabile e poco affidabile nella mente dei consumatori. Le aziende dovrebbero evitare di aggirare il discorso posticipando o addirittura negando il problema, ma elaborando un programma per la crisi con anticipo al fine di mantenere un contatto diretto e costante con i propri consumatori, con una comunicazione più interattiva attraverso un utilizzo intelligente di internet.
Conflitti di marketingParte la serie A e Totti di ritrova a fare spot per Vodafone e a giocare per Wind in un campionato TimIl Foglio - 24 agosto 2007Vi era un tempo in cui nel mondo pubblicitario vigeva la legge dell’“esclusività di settore”. La garanzia, data dalla concessionaria pubblicitaria, che all’interno di un break televisivo o nelle pagine di una rivista non ci fosse più di un’inserzionista operante nello stesso settore merceologico. Oggi questa clausola è sempre più difficile da trovare, così all’interno dell’affollamento pubblicitario si può riscontrare più di un conflitto d’interessi.
Sabato parte il campionato di calcio 2007-2008: per i più romantici la manifestazione sportiva più spettacolare d’Italia, per tutti gli altri un’industria da quasi 6 miliardi di euri, cioè quasi mezzo punto del Pil. Solo una piccola quota - meno di 200 milioni - arriva dagli spettatori paganti degli stadi, tra biglietti e abbonamenti. Il resto del giro d’affari è dato dai diritti tv, stampa, merchandising e sponsor. La visibilità per gli sponsor è immensa, la torta è grande e tutte le aziende vogliono accaparrarsene una fetta, poco importa se per gli spettatori c’è il rischio d’indigestione.
Fuori dalla metafora, facciamo degli esempi.
Francesco Totti, “er pupone” nazionale, è un caso meraviglioso: con il suo faccione simpatico è il conclamato testimonial di Vodafone (“Life is now”, ovvero battere il ferro finché è caldo), ma nella sua maglia da capitano della Roma campeggia una gigantesca scritta Wind – il nuovo sponsor ufficiale del club – ed è costretto a giocare nel campionato di calcio, nella Coppa Italia e nella Supercoppa, tutte manifestazioni sponsorizzate dalla Tim. Quando il conflitto d’interessi diventa un’opera d’arte. C’è da chiedersi, nel privato, con quale operatore telefonico farà le sue chiamate da cellulare.
Le linee quindi sono intasatissime, ma è tutto regolare dal momento che questi sono contratti che coinvolgono il giocatore su più piani: per Vodafone, Totti è coinvolto a livello individuale come celebrità e attore inesperto ma comunicativo e non come calciatore (mai e poi mai lo vedrete negli spot Vodafone con un pallone tra i piedi o su un campo di calcio). Per Wind è invece implicato come membro – capitano – della propria squadra, mentre per Tim lo è a livello “casuale”, in quanto la Roma è iscritta al campionato di calcio italiano. E’ tutto regolare, c’è poi da capire quanto tutto questo convenga all’azienda che ci investe milioni di euri e che dovrà continuamente monitorare l’efficacia della sponsorizzazione a suon di ricerche di mercato e focus group.
Un altro caso bizzarro di marketing applicato al calcio riguarda Gennaro Gattuso, peraltro compagno di Totti negli spot telefonici, ma in questo caso sono coinvolte le bibite energetiche. Il mediano del Milan è recentemente diventato il testimonial di Powerade Pro, una nuova bibita isotonica appartenente al gruppo Coca-Cola. Lo si vede in questi giorni nello spot tv mentre si appende, si butta e si rotola in modo spericolato tra i palazzi di una città. Tutto questo in borghese, senza pallone o calzoncini corti. Perché quando indossa la maglia rossonera, è invece legato a Gatorade, uno degli sponsor tecnici del club milanese, diretto concorrente di Powerade e facente parte del gruppo Pepsi. Perciò guai a vedere “Ringhio” bere, anche distrattamente, un sorso di Powerade dentro lo stadio, pena l’annullamento del contratto di sponsor e casini legali con il Milan.
Chi troppo e chi niente: ad oggi il Genoa, per esempio, non ha ancora uno sponsor ufficiale da mostrare sulle maglie dei suoi giocatori.