EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Friday, June 29, 2007

 
Arriva il troppo atteso iPhone, un culto prima di uscire

Il Foglio - 29 giugno 2007

E fu così che dopo ventiquattro Domeniche di Avvento dall’Annuncio, l’iPhone giunse tra tutti gli uomini di buona volontà. Migliaia di devoti nordamericani si sono riversati in coda di fronte alle cattedrali (Apple Store e negozi del fornitore telefonico AT&T) per potersi meritare il primo iPhone della loro vita a soli 599$. Nel frattempo, altrettante migliaia di miscredenti si sono scagliati contro il nuovo Messia della telefonia mobile criticandolo animosamente.
Che il paragone liturgico non suoni troppo blasfemo o irriverente, perché ciò che è riuscito a creare Steve Jobs è molto più di un “hype” o una moda, ma un vero e proprio culto iniziato nel 1977 – anno di costruzione del primo personal computer Apple – e che (con fasi alterne, specialmente nei primi anni ’90) non ha smesso di essere un marchio di riferimento per milioni di adepti.
Il clima di attesa e carico di promesse costruito dall’azienda di Cupertino è stato tale che molti blogger e perfino l’Herald Tribune lo hanno ribattezzato JPhone, ovvero Jesus Phone.

Sulle sue caratteristiche si è già detto tutto: sottile, sensuale e realmente multifunzione. Cellulare e video iPod, lettore di email e browser internet, fotocamera e minicomputer. Tutto questo senza avere una vera e propria tastiera (sostituita dal sistema “touch screen”) e con uno schermo gigante. E con la promessa di essere velocissimo, intuitivo e facile da usare.
Già, la promessa.
Perché solo in pochissimi, fino a oggi, hanno davvero provato il funzionamento dell’iPhone. Fino all’altro ieri il prodotto non era ancora stato preso in mano dai commessi dei negozi AT&T, che pure oggi dovranno spiegare il suo funzionamento ai clienti.
Ci vuole fede, appunto. E i signori della Apple sono riusciti a creare e formare nel mondo milioni di evangelizzatori del brand.
Kevin Roberts, ceo dell’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi worldwide e guru del marketing, per descrivere marchi come Apple, Ikea o Starbucks, parla di lovemarks. I lovemarks sono quei brand che riescono a sviluppare un contatto intimo, personale e assai poco razionale con i propri consumatori: brand capaci di raccontare grandi storie, che coinvolgono, comunicano passione e creano miti e icone. Un rapporto d’amore che, se la fede non è devota e le promesse disattese, si può rapidamente tramutare in odio.
In passato gli altri prodotti Apple - che in seguito sono diventati dei “cult” - hanno avuto una diversa genesi: l’iPod, ad esempio, partì in sordina, senza un grosso battage pubblicitario e mediatico e con un successo commerciale limitato. Con il passare del tempo, l’opinione pubblica ne comprese le potenzialità, il prodotto migliorò, e il prezzo progressivamente calò. E le vendite si impennarono.
Al contrario dei jeans, degli occhiali, delle borse ed altri prodotti di moda dove il primato del possesso è fondamentale, per i prodotti hi-tech l’acquisto delle prime versioni spesso significa pesanti incazzature e ore al telefono con il servizio clienti. Basti vedere quello che è successo pochi mesi fa con Vista, il nuovo sistema operativo per pc della Microsoft: la prima “release” era piena di difetti e oggi gli acquirenti di nuovi computer preferiscono installare il vecchio sistema Windows Xp. E il rischio che la cosa si ripeta per l’iPhone è assai probabile.
L’iPhone esce in questi giorni solo negli Stati Uniti, mentre in Europa lo vedremo solo in autunno e in Asia addirittura nel 2008.
Rimaniamo in attesa della Quaresima.

Wednesday, June 13, 2007

 
100 negozi con camicie in 340 colori, 30 tessuti, 5 colletti, 3 polsini. Tom Ford.

Il Foglio - 13 giugno 2007

Un tempo l’eleganza maschile era legata all’immagine del laboratorio sartoriale rigoroso e defilato. Un indirizzo conosciuto solo da pochi, perché in pochi, appunto, se lo potevano permettere. La tradizione familiare e un riservato passaparola erano gli unici due canali di promozione e comunicazione per conquistare una clientela più vasta.
Anche oggi è sempre una stretta minoranza a potersi concedere camicie su misura da 400 euri o abiti tailor made da 5000 euri, ma le cose in realtà sono un po’ cambiate. Awareness - parola di non facile traduzione in italiano, ma dal significato a metà tra notorietà e consapevolezza - è la parola chiave oggi nel mondo del lusso che, per forza di cose, diventa sempre più globale. Questo significa grandi campagne pubblicitarie non solo sulle riviste di alto livello, ambiziosi obiettivi di vendita e una presenza a tappeto in tutte le capitali del mondo. Alzare e, nel contempo, allargare il tiro pare essere la strategia vincente.
Lo ha capito bene Tom Ford. Lo stilista texano, noto ai più per aver rilanciato negli anni Novanta il marchio Gucci, tre anni dopo l’abbandono della maison, ha creato insieme a Domenico De Sole un proprio marchio che porta il suo nome. Dopo aver esordito - invero senza grossi successi – nel campo della cosmetica e dei profumi in collaborazione con Estée Lauder e aver lanciato una linea di occhiali da sole (alcuni peraltro, come quelli rivestiti in pelle di capretto, piuttosto stravaganti), ha finalmente creato una propria linea completa di abbigliamento maschile. Due mesi fa ha aperto il suo primo negozio monomarca a New York, nella Madison, e nei prossimi dieci anni, come riportava ieri il Wall Street Journal, è prevista l’apertura di cento nuovi negozi-atelier nelle principali capitali, tra cui Milano, Londra, Tokyo, Mosca e Shanghai.
Ecco come spiega la propria collezione il diretto interessato, utilizzando quel linguaggio tipico della moda che, spesso, leva gli schiaffi dalle mani “Un menswear di lusso, una sorta di linea confidential. Per uomini che non vogliono il classico à la Savile row (ndr: storica via londinese, sede dei più importanti laboratori sartoriali del mondo), ma che cercano qualcosa di particolare, raffinato e molto elegante. Una buona parte del progetto sarà custom made. Una specie di couture al maschile, che possa essere utilizzata allo stesso modo in cui le donne vanno da Chanel ad acquistare un abito. Nessuna sfilata, niente show ma solo appuntamenti privati. L’idea di base è una sola: prodotti unici con un forte accento sul lusso”. Siamo di fronte alla “sensualizzazione” del maschio? L’ennesimo “nuovo lusso”? Un rinnovato fordismo? La prima linea maschile “sartoriale-sensuale”? La risposta la lasciamo a qualcun’altro. Ci interessa invece notare come Tom Ford stia tentando di portare il “modello di business” sartoriale in scala globale, al fine di coprire quella nicchia di altissimo lusso che, secondo la coppia Dom&Tom (De Masi e Ford) è ancora in parte scoperta. Il negozio della Madison da questo punto di vista è eloquente: gli orari di apertura sono 11-5pm per la massa, mentre dalle 9 alle 11 del mattino e dalle 5 alle 7 del pomeriggio solo per appuntamento. Chi non conosce il nome Tom Ford, guardando le vetrine molto scure che mostrano sculture di grosse forbici e nessun abito, difficilmente capirebbe che quella è una boutique da uomo. Gli interni però, tra acciaio, cuoio e armadi che sembrano grosse celle frigorifere, riescono a ricreare un’atmosfera di nuova eleganza profondamente maschile. Nella stanza delle camicie si può scegliere la preferita tra 340 colori, 30 tessuti, 5 colletti e 3 diversi tipi di polsini, che ovviamente possono essere modificate da una squadra di sarti.
L’ex demiurgo di Gucci, che per questa linea di abbigliamento maschile ha stretto una joint venture produttiva con Ermenegildo Zegna, vuole quindi tornare al lusso “vecchio stile”, dopo che questo termine fin troppo abusato ha finito per perdere significato dato che, come dice Ford, “oggi tutto è lusso, e quindi nulla”. E la donna? Secondo il 45enne designer di Austin, il prèt-à-porter femminile è una categoria molto complessa, con troppa pressione e competizione, “credo che oggi essere uno stilista di moda femminile sia il lavoro più difficile del mondo”.
E così Ford creò il maschio.

Sunday, June 10, 2007

 
Andrea Arcangeli: il genio del computer vive in cantina, in Romagna

Style - Giugno 2007

“Se la chiamano nerd, lei si offende?” Andrea Arcangeli sorride. “Mah, diciamo che resto neutro. Non mi interessa. Ci sono certamente molti sviluppatori che sono disattenti ai dettagli, all’estetica, ma che guardano alla sostanza delle cose. Per molti il termine nerd ha una valenza negativa, mentre per altri è un complimento. Perciò per me è neutrale. Personalmente mi sento al confine”.
Ogni risposta di Andrea Arcangeli è seguita da una fragorosa e contagiosa risata. Il DNA romagnolo vince su qualsiasi ruvidezza e chiusura tipica degli informatici. E poi Andrea Arcangeli ha tutti i motivi per esser contento. Ha 30 anni ed è il programmatore di Linux (“preferisco il termine sviluppatore”) più quotato e pagato in Europa. Linux è un sistema operativo informatico “open source” basato cioè sulla collaborazione libera e spontanea degli sviluppatori che rendono pubblici sulla rete i codici di programmazione, a differenza dei “concorrenti” Windows di Microsoft o OS X di Apple che sono invece software proprietari. Il sistema Linux è utilizzato sui server piuttosto che sui pc domestici: per fare un esempio, i più potenti web server come quelli di Google, Wikipedia e YouTube “girano” su Linux.
Andrea Arcangeli ci accoglie nell’appartamento in cui si è appena trasferito, sempre a Imola, città da cui non si è mai allontanato. L’appartamento è rigorosamente bianco, pulito e hi tech. Tutte le camere sono cablate e in cucina c’è un piccolo robottino che pulisce il pavimento.
I computer e i server, quelli potenti e rumorosi, li tiene giù in cantina: in casa sono presenti solo due pc connessi con il server. L’intervista si svolge nella sala dove domina un enorme plasma collegato ad un computer (“è il computer per l’entertainment”) che funziona anche da antifurto per la casa e da videoregistratore. Arcangeli videoregistra continuamente qualsiasi cosa: adesso su una delle tante finestre sullo schermo c’è una partita di tennis trasmessa dalla BBC.

Se dovesse spiegare a un bambino di 6 anni (o a un anziano di 70) qual è il suo lavoro, cosa direbbe
?
Io sviluppo il kernel di Linux, che è il cuore, la parte principale del sistema operativo Linux, quello che non si vede, non l’interfaccia grafica visibile a tutti. Per dire, se nel kernel qualcosa non funziona, il computer va in tilt. Io cerco di renderlo più veloce e più stabile, correggo gli errori e risolvo i problemi. In particolare mi occupo della gestione della memoria del sistema.
Come ha iniziato?
Sono sempre stato appassionato di computer. Grazie all’università - che poi ho abbandonato - nel 1997 sono entrato in contatto con internet e Linux e sono rimasto attratto dalle potenzialità dell’open source. Nel tempo libero provavo a modificare e correggere gli errori che erano nei codici sorgenti del sistema, contribuendo a migliorarli.
A quel tempo non esistevano aziende che gestivano il business?
No. Solo negli Stati Uniti c’era già chi lavorava a tempo pieno, come Linus Torvalds, lo sviluppatore principale di Linux. Poi man mano sono arrivate anche le aziende di software che hanno acquisito alcune versioni (“distribuzioni”) di Linux, come la Novell che è la società per cui ora lavoro.
E’ vero che la pagano a minuto?
A dir la verità al secondo. Ogni volta che inizio a lavorare sui codici, si attiva un contatore. Ho iniziato così dal 1999 e non ho più cambiato. Poi ogni fine mese sommo tutti i secondi e li converto in ore.
La pagano bene?
Non mi lamento. Non ho nessun tipo di problema economico.
Ha vissuto il periodo euforico della new economy?
Uh, se l’ho vissuto…. (ride). Per noi dipendenti è stato molto divertente: si viaggiava e si guadagnava molto. Nel 2000 le aziende non dovevano trarre profitti per crescere in borsa. L’importante per i venture capitalist era che le aziende di IT spendessero. Non importava se poi erano tutte in perdita.
Meglio prima o meglio ora?
Sinceramente è meglio ora. Girano meno soldi, ma almeno si lavora su progetti concreti. Prima era una situazione surreale.
Qual è la sua giornata tipo?
La mattina mi sveglio, lavoro quattro ore, poi spesso vado a mangiare dai miei. Il pomeriggio lavoro ancora e poi la sera un po’ di svago. Cose normali. Amo il cinema, ascoltare musica, suonare la chitarra e andare con lo snowboard.
Ma lei lavora da casa?
Ho sempre lavorato da casa, anche perché il punto di sviluppo più vicino sarebbe a Norimberga. La maggior parte degli sviluppatori di Linux lavora da casa, chi da Portland, chi da New York, chi dall’Australia. Poi ogni tanto capita di andare in giro per convention.
Invece della piadina romagnola le piacerebbe mangiare il pollo tandoori a Bangalore, o un hamburger alla Silicon Valley?
Non credo mi convenga andare a Bangalore (risata).
Perché?
Le grosse multinazionali si insediano in India o in Cina non perché trovano competenze specifiche, ma perché là il costo della vita è più basso e lo stipendio dieci volte più basso. A loro conviene. A me no.
E invece con Linux questo non succede?
Linux è un sistema open source, i file sorgenti su cui lavorare risiedono in rete: questo mi permette di stare dove voglio, mi basta avere una connessione internet veloce e un server potente. Tutto viene condiviso in rete, grazie a delle particolari licenze gratuite. Le grosse aziende come Google, Cisco o Sun richiedono invece di stare in loco. Il motivo principale è perché il software su cui lavorano è un sistema proprietario e non vogliano certo correre il rischio di mettere in rete un programma la cui licenza costa milioni di dollari.
Meglio Bill Gates o Steve Jobs?
Personalmente preferisco Jobs.
Perchè?
Perché è quello che ha copiato di meno, e poi ha fatto le scelte giuste al momento giusto. Per dire, a livello entertainment, iTunes era una cosa che Microsoft poteva progettare molto tempo prima e non l’ha fatto. Stessa cosa per l’iPod.

La partita di tennis è finita. Ora c’è la pubblicità. “Su questo computer gira un software che permette di non registrare la pubblicità. Non perché capta un segnale nella linea, ma perché, con l’esperienza, riconosce i break pubblicitari e riesci a saltarli. Lo ha programmato un amico americano con Linux”.

Come si immagina lei tra dieci anni?

Ah, non saprei. Intanto devo ancora finire di arredare la casa (ride). Mah, per il momento non intendo avviare un’attività imprenditoriale, preferisco continuare a fare quello che faccio e lavorare sui codici.

Cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato internet?

Davvero difficile dirlo. Sicuramente avrei guadagnato molto meno.

Friday, June 08, 2007

 
Los Republicones

Giuliani è come i Levi's, McCain un pick up e Romney una camicia Brooks Brothers. In attesa di Fred.

Il Foglio - 8 luglio 2007

Le presidenziali USA del 2008 si preannunciano come le elezioni più visibili e movimentate di sempre, quelle più influenzate dal marketing, con un alto tasso prospettico di partecipazione e a rischio saturazione dei media. Fin da ora si è venuto a creare un circolo virtuoso (o vizioso, dipende dei punti di vista) tra candidati e finanziatori, comunicatori e media: la visibilità ed il riconoscimento portano finanziamenti, i quali provocano l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica che, a loro volta, attraggono ancora più soldi.
In realtà quando parliamo di brand non facciamo riferimento a loghi, campagne pubblicitarie o a slogan particolarmente riconoscibili o intelligenti. I brand esistono nelle menti delle persone, rappresentano un sistema fiduciario. E poiché i candidati hanno capito molto bene la lezione, tutti i loro sforzi sono tesi a realizzare operazioni d’immagine per trasformarsi in icone, in loghi di sè stessì che possano contenere le speranze, le aspirazioni e l’identificazione dei loro sostenitori. E come un qualunque brand sono sottoposti alle cicliche fasi di restyling, compresi i piccoli interventi di chirurgia plastica, i cambi di pettinatura e le foto modificate nelle pubblicità.
Per tutti questi motivi la ricerca sperimentale - condotta dagli istituti Market Search Corporation e Chernoff Newman - che associa i candidati alle elezioni presidenziali ad alcuni brand presenti sul mercato, non solo non è un’operazione provocatoria ma, anzi, profetizza ciò che accadrà in futuro, ed è un buon indicatore per capire il vissuto dei candidati sugli elettori meno informati sui programmi politici.
Dopo aver passato in rassegna i tre candidati liberal, la ricerca ha analizzato il “posizionamento” nella mente degli elettori dei tre repubblicani – Rudolph Giuliani, John Mc Cain e Mitt Romney – tenendo conto di alcune dimensioni valoriali: familiarità, reputazione, personalità, performance e “connettività”, cioè la capacità di entrare in relazione con il proprio elettorato.
Il brand Rudy Giuliani è sostanzialmente costruito sulla reputazione e sulla personalità: simpatia, fiducia, calore e fascino sono le parole chiave che gli sono state maggiormente attribuite. Memori della sua gestione da sindaco di New York - prima con la politica “zero tolerance” contro la criminalità e, successivamente, per il suo intervento post 11 settembre – gli elettori considerano Giuliani un “American Icon”: se fosse un capo di abbigliamento sarebbe un paio di jeans Levi’s, un tipico prodotto americano ma che ha bisogno di tempo perché sia realmente comodo e confortevole. Giuliani viene inoltre associato alla Toyota Rav4, un auto “crossover” adatta ad ogni terreno ed esigenza, e alla popolare compagnia di assicurazioni Allstate, che ha come claim pubblicitario “Sei in buone mani”.
John McCain è un “American Hero” per la sua esperienza e competenza nel saper guidare il paese nei momenti difficili ma, allo stesso tempo, con uno scarso calore umano e fascino. Reputazione e performance sono i valori che primeggiano sugli altri: McCain è visto come un pickup della Ford resistente a tutto, come un jeans rude e maschio Wrangler o un orologio senza tanti fronzoli come il Timex. Forte ma poco attraente.
Mitt Romney rimane un mistero per molti, e ciò può rappresentare un punto di forza nella costruzione di un brand. Dalla ricerca emerge infatti come il candidato mormone abbia tutte le caratteristiche umane e caratteriali - calore, fascino e empatia - per diventare il candidato repubblicano alla Presidenza degli Stati Uniti, sebbene la maggior parte dell’elettorato intervistato conosca poco la sua storia e le sue performance del passato. Per questo mix di apparenza e mistero, la ricerca lo definisce come un “American Idol”. Se si dovesse paragonare ad un marchio automobilistico, Romney sarebbe un Dodge Viper, universalmente riconosciuta come un auto veloce, ma che solo pochi hanno realmente guidato. I vari volti del brand Romney lo portano ad essere paragonato a una camicia dallo stile inimitabile Brooks Brothers o alla catena Starbucks, dove l’atmosfera conta più della qualità del caffè.
Nonostante la ricerca avesse come obiettivo ultimo quello di capire la percezione dei candidati dal punto di vista degli elettori-consumatori, e non di verificarne le preferenze, riesce ugualmente a fare una stima previsiva delle intenzioni di voto: Giuliani vince di due punti su McCain (36 per cento contro il 34 per cento) mentre Romney rimane piuttosto distaccato al 21 per cento. Ma è chiaro che tali percentuali sono suscettibili di molte variazioni con lo svolgimento della campagna elettorale e magari con l'arrivo di nuovi concorrenti come Fred Thompson.

Sunday, June 03, 2007

 
Tutti al mare (ma connessi)

Style Magazine - Giugno 2007


Una volta si diceva “Stacco la spina. Vado in vacanza”.
Erano altri tempi, anche se si parla solo di pochi anni fa. Erano tempi in cui potevamo permetterci il lusso di tagliare i contatti col mondo esterno, concederci un periodo di distacco totale dalle comunicazioni di lavoro, dai monitor e dalle tastiere, per godersi pienamente mari azzurri o montagne verdi.
Oggi la maggior parte di noi, al contrario, rimane legata a doppio filo ai propri giocattoli tecnologici e alla rete internet. E’ come se una parte del nostro corpo vivesse ancorata al portatile e alla rete, bramosa di comunicazione virtuale. Modificando il proprio stile di vita.
“Io cerco di essere sempre connesso. Se non ho modo di leggere la mail, mi viene l’ansia.” ha dichiarato a Style il pianista e compositore Giovanni Allevi. “La rete, attraverso le mail, è da alcuni anni il mio principale feedback con il pubblico. All’inizio erano poche, quindi avevo preso l’abitudine a rispondere a tutte. Adesso ne arrivano centinaia e bellissime. E passo le notti sveglio per rispondere. In questo caso è la vita in tour, e non la vacanza, che mi ha fatto “staccare la spina”, anche perché qui ho il contatto reale con il pubblico. Rimango però sempre schiavo del cellulare che tengo sempre in mano”.
La tecnologia ci permette di essere, come dicono gli americani, "always on", in perenne connessione. E lo siamo in genere dappertutto, tranne in aereo che, per il momento, è rimasto l'ultimo luogo tabù per i network di comunicazione.
“Il rapporto con la tecnologia, per quanto mi riguarda, è binario ed è regolato sempre da una scelta on/off. E' buona cosa che ci sia sempre la possibilità di connettersi e comunicare, perchè in molti momenti significa sicurezza e qualità della vita. Ma rimane sempre la libertà di spegnere i terminali e disconnettersi” è il parere di Giuseppe Granieri, studioso del web e autore del libro “La società digitale” (Laterza). “Questa possibilità mi fa vedere la tecnologia legata ai network come una porta aperta e non necessariamente come un obbligo ad entrare”.
Intanto i luoghi di vacanza si stanno organizzando: da quest’estate, ad esempio, tutti gli stabilimenti balneari di Forte dei Marmi avranno una copertura radio di tipo wi-fi per poter far navigare i bagnanti su internet senza fili anche sotto l’ombrellone.
Sta lentamente prendendo corpo quello che 15 anni fa Mark Weiser chiamò Ubiquitous Computing, un mondo in cui le persone sono circondate da dispositivi informativi, collegati attraverso reti, che le assistano in ogni attività.
Perciò in vacanza si può anche decidere di staccare la spina… assicurandoci però che la batteria sia ben carica.

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