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Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Friday, March 26, 2010

 
Gattini e quattrini
Aerei, fumetti e persino musical. Così Hello Kitty è diventata l'icona pop nel mondo del business. 

Il Foglio - 19 marzo 2010

Un tempo c'erano gli UFO avvistati in cielo, poi vennero i cerchi sui campi di grano, i coccodrilli che vivevano nelle fogne di New York e una serie di altre bizzarre leggende metropolitane. Eventi misteriosi per i quali non si riusciva a dare delle spiegazioni plausibili o razionali. Oggi il loro posto è preso dai cosiddetti fenomeni della sottocultura pop: icone e personaggi che hanno un largo e incomprensibile seguito, ma che, a differenza dei fenomeni di allucinazioni collettive, macinano fatturati a nove zeri e sono gestiti da manager scaltri e abilissimi. Uno dei più popolari è sicuramente Hello Kitty.
Hello Kitty è una gattina disegnata nel 1974 da Yuko Shimizu per la Sanrio, una società giapponese che opera nel business dei “personaggi di fantasia” le cui creazioni, a differenza di Walt Disney o Marvel, non nascono per un fumetto o un film, bensì per essere raffigurate su prodotti e merchandising. Oggi la figura di Hello Kitty compare su circa 10.000 categorie merceologiche diverse, dai capi di abbigliamento agli articoli di cartoleria, ma anche hi-tech, prodotti di lusso, carte di credito platinum, linee aeree e perfino un ospedale. Un fenomeno ormai consolidato anche nel più disincantato occidente: dal 17 marzo il Teatro Olimpico di Roma ospiterà il primo musical sulla storia della gattina, una produzione italiana partita da Milano e che, dopo aver girato i teatri delle principali città della penisola, approderà a Londra. Il motivo del successo planetario di HK continua per molti ad essere un mistero. Se provate a liquidare in fretta il tutto, convinti che si tratti esclusivamente di un fenomeno per bambine, ecco, vi sbagliate di grosso. Sappiate infatti che un terzo degli acquirenti (e dei consumatori) di prodotti HK sono persone di età superiore ai 18 anni.

Rob Walker, giornalista del New York Times Magazine tenutario della rubrica “Consumed”, sul suo ultimo libro “Murketing – La rivoluzione del marketing ambiguo” (Etas) ha cercato di analizzare in profondità il fenomeno.
Sicuramente la gattina è adorabile e tenera - checccarina è il commento spontaneo più ricorrente da parte di grandi e piccini - ma c'è qualcosa di più.
Indizio numero uno: Hello Kitty non ha la bocca. Alcuni dicono che sia un omaggio alla figlia sordomuta della boss Sanrio, altri che il disegnatore non era riuscito a disegnarla bene, decidendo quindi di non metterla affatto. Comunque l'assenza della bocca è un elemento importante che la rende ambiguamente inespressiva e neutra. HK non è un personaggio, non è impegnata in avventure memorabili come Snoopy o Topolino e non ha una particolare personalità. E proprio qui sta la forza del personaggio. Quelli della Sanro infatti fanno di tutto per evitare qualsiasi elemento per definire il personaggio. E' la sua sostanziale “inutilità” e assenza di carattere dominante a farne un simbolo desiderabile e “proiettabile”. Non rappresentando nulla, HK è in attesa di essere interpretata, e chiunque quindi può proiettarci quel che vuole: la nostalgia per l'infanzia, l'essere alla moda, una vaga sovversività. Un'icona vuota e quindi vincente, un archetipo simbolico di questi tempi confusi.
Al di là delle facile battute, il caso Hello Kitty segna un interessante sviluppo del mondo dei loghi il cui significato non solo si può costruire, ma può essere inventato anche dalle persone. Come analizza lo stesso Rob Walker “In sostanza un simbolo culturale di successo non viene quasi mai semplicemente imposto, ma viene creato e poi tacitamente accettato da coloro che decidono di condividerne il significato, dovunque esso abbia avuto origine.” Ecco che cos'è Hello Kitty: un simbolo (sotto?) culturale. E anche un brand di successo. Molto tenero.

Thursday, March 11, 2010

 
Il caso Red Bull sta facendo impazzire gli esperti di marketing


Il Foglio - 11 marzo 2010

Secondo i responsabili marketing Red Bull ci sono alcuni luoghi che hanno bisogno di “iniezioni di energia”: le scuole, le palestre o dove c'è bisogno di carica per i lavori di fatica, come nelle fabbriche e nei cantieri. Per questo, da qualche giorno è possibile vedere parcheggiata di fronte a questi siti una Mini personalizzata Red Bull con avvenenti ragazze che distribuiscono gratuitamente campioni del popolare energy drink. Nei giorni scorsi la suddetta macchina era parcheggiata di fronte ad alcune scuole medie inferiori e superiori genovesi, e la cosa non è piaciuta a un'associazione genitori che ha sollecitato l’intervento delle forze dell’ordine. Secondo l'associazione, l'energy drink rappresenterebbe per i ragazzi la porta d'ingresso alla cultura dello sballo, porterebbe all'assuefazione, alla dipendenza e magari anche alla presenza in qualche talk show tv pomeridiano o serale. Le dichiarazioni del ministro della gioventù Giorgia Meloni rincarano la dose.
Prima di saltare direttamente alle conclusioni, cerchiamo di capire meglio cosa contiene Red Bull e, sopratutto, come è nata, come è stata lanciata sul mercato e comprendere il motivo di questa percezione così negativa nei confronti di questo energy drink. Perché quello di Red Bull è, prima di tutto, un caso di marketing atipico e illuminante.
Negli anni '80 l'austriaco Dietrich Mateschitz, l'inventore della Red Bull, lavorava come marketing manager in una multinazionale americana e viaggiava spesso in estremo oriente. Qui notò che nei momenti di maggiore stanchezza i lavoratori non si attaccavano alla macchina del caffè, ma consumavano una misteriosa bevanda contenuta in piccole bottigliette di vetro e diluita con acqua ideata da Chaleo Yoovidhya. E poi ripartivano, più carichi. Intuì che un prodotto del genere sarebbe stato perfetto dall'altra parte del mondo, dove correre era la regola. Si associò con Yoovidhya, importò la formula e ne modificò il gusto per incontrare quello dei consumatori occidentali. Il risultato fu non solo una bevanda inedita, ma addirittura una nuova categoria di prodotto, l'energy drink, il soft drink funzionale studiato per i momenti di maggior affaticamento fisico o mentale.
Taurina e caffeina sono i principali ingredienti. La taurina è un aminoacido prodotto dall'organismo in condizioni di stress psicofisico: assumere taurina significa dunque accelerare il processo di eliminazione delle scorie e i tempi di recupero. Sulla caffeina si sa praticamente tutto, in questo caso il contenuto è lo stesso di una tazzina di espresso, il doppio di una lattina di Coca Cola.
Niente di illegale, quindi. Red Bull è innocuo e si vende tranquillamente nei supermercati; in questi casi, invece di tirare in ballo l'assuefazione e lo sballo, varrebbe la pena informare che, se bevuto in dosi massicce, potrebbe essere dannoso per chi ha problemi cardiaci, di ipertensione e diabete, come mille altri prodotti, del resto.
Ah, un'altra cosa. Ha un gusto piuttosto cattivo. Se poi non è ghiacciato, è praticamente imbevibile.
Il fatto è che Red Bull ha giocato tutta la sua comunicazione sul “non detto”, sull' “assenza”, sul non raccontare chiaramente gli ingredienti e le performance della bevanda, generando quindi mille leggende intorno al prodotto (anche negative, come quello dello sballo a buon mercato se mixato con la vodka) e diventando un marchio di culto.
Scrive Rob Walker sul suo libro “Murketing” (Etas) che negli Stati Uniti Red Bull si è fatta conoscere sponsorizzando eventi bizzarri di sport estremi e sconosciuti, gare di breakdance o contest di deejay, tutte caratterizzate dalla quasi assenza del marchio in termini di striscioni, cartelloni, messaggi roboanti. Solo lattine per tutti.
Niente pubblicità, solo queste sponsorizzazioni invisibili a botte di 100 milioni di dollari l'anno: Red Bull produceva questi eventi di nicchia, non li sponsorizzava solamente, quindi l'investimento era alto, ma non si vedeva.
Insomma, il “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente” morettiano applicato al branding.
Ed è proprio la sua ambiguità, il suo esserci, ma dare l'impressione di non investire come una ricca multinazionale, che l'ha fatto diventare un marchio e una bevanda di culto verso la “click generation”, cioè coloro che sono coscienti delle regole del business e non vogliono essere il target di nessun piano di marketing, ma che, allo stesso tempo, hanno uno stile di vita caratterizzato esclusivamente da marchi che, addirittura, costruiscono la loro identità. Nel terzo millennio l'assenza intelligente sarà la strategia vincente del nuovo marketing.

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