EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Friday, March 31, 2006

 
CONSIGLI A LAPO

L'arte del packaging ovvero come fare della confezione l'elemento (più) importante del prodotto.


Il Foglio - 31 Marzo 2006


Da qualche settimana circola su internet uno strepitoso filmato. Nel video s’inscena la bizzarra ipotesi che l’ideazione del packaging dell’iPod Apple venga affidata al marketing della rivale Microsoft. Così, in mano agli uomini di Bill Gates, la confezione dell’iPod - dominata dal bianco candido, da poche essenziali informazioni, da foto in bianco e nero e da nessun’altro marchio che non sia la mela morsicata - viene letteralmente invasa da simboli di copyright, da mille brand e istruzioni superflue, trasformandola in un delirio semantico.
Questo breve filmato - peraltro creato da un dipendente Microsoft - spiega, meglio di qualsiasi altra analisi comparata di management, la differenza sostanziale nel modo di intendere il marketing delle due aziende principali dell’informatica. Del resto il package non rappresenta più il semplice imballaggio del prodotto, ma è diventato un vero e proprio ‘media’ di fondamentale importanza: l’unico che comunica direttamente dallo scaffale, cioè il luogo dove realmente il consumatore sceglie cosa acquistare. Se prima l’involucro serviva semplicemente a far arrivare un oggetto nel modo più pratico e comodo fino alle mani dell'acquirente, oggi la “scatola” diventa fondamentale nell'acquisto, quasi quanto l'oggetto e addirittura può diventare essa stessa il vero e proprio oggetto, l’essenza del brand. I casi sono molti e coinvolgono ogni categoria merceologica: dalla sensuale bottiglietta di vetro della Coca-Cola alle scatole di latta dei biscotti Mellin (usati poi intelligentemente da Elio Fiorucci negli anni Ottanta come confezione per le proprie t-shirts), dall’involucro “testuale” dei Baci Perugina all’utile manico dell’appretto Merito.
Oltre all’aspetto funzionale il package deve privilegiare anche l’aspetto simbolico, estetico e, soprattutto, polisensoriale che permette di coinvolgere non solo la dimensione visiva ma anche quella tattile, uditiva e olfattiva. In questo senso le confezioni dei profumi riescono perfettamente a comunicare, attraverso le forme e i materiali usati, l’essenza e l’immaginario che il produttore del profumo ha voluto evocare.
Da qualche tempo, assieme alla componente estetica del packaging, sta emergendo anche quella etica, legata cioè a concetti di sicurezza, responsabilità e sensibilità nei confronti dell’ambiente e della salute: con il crescere della consapevolezza dei problemi ambientali, sono risultate inutili le enormi confezioni di materiale non riciclabile, e così le aziende hanno preferito utilizzare package più piccoli, biodegradabili, riciclabili o riutilizzabili. La tendenza al riutilizzo non è nuova - basti pensare alle sopraccitate scatole di latta oppure ai bicchieri della Nutella - ma, accanto a questa, per un’esasperazione del concetto del “packaging no frills” (confezione senza fronzoli) è presente oggi sul mercato anche una sorta di sottovalutazione del pack stesso e di un ritorno al passato, quando esso era ridotto a pura funzione: per esempio gli imballi della catena giapponese Muji importati in occidente sono scritti volutamente con gli ideogrammi, quasi a negare anche la minima componente di comunicazione.

Dall’ultima conferenza sul packaging organizzata da Somedia è infine emersa una nuova direzione evolutiva sostanzialmente contraria a quella del “no frills”, ovvero la tendenza ad una esasperata “materializzazione del pack”. Nell’ambito dei servizi immateriali e dell’economia digitale, per esempio, esistono prodotti che hanno richiesto un packaging al di là del bisogno funzionale, basti pensare ai grossi pack cubici - volutamente inutili - degli abbonamenti Adsl (Telecom Alice su tutti) che contengono solo un cd, una presa telefonica e uno scarno libretto delle istruzioni. Dall’altra parte esistono dei pack che offrono un ulteriore valore aggiunto al prodotto, si pensi alla rivista letteraria McSweeney, ideata da un gruppo di intellettuali che ruotano intorno allo scrittore Dave Eggers, che ogni bimestre esce sempre in formati creativi, improbabili ma desiderabili (carta da imbalaggio, gomma gonfiabile ecc..). Si pensa che nel futuro il packaging dovrà sempre più mantenere una propria autonomia rispetto al prodotto, e puntare ad un allungamento del suo ciclo di vita attraverso l’impiego in utilizzi alternativi e nel rispetto dell’ambiente.
Un esempio-limite: la eco-bara, radicale prototipo di packaging - il nostro ultimo e definitivo packaging - costruito con materiali biodegradabili che scompare non appena svolta la sua funzione primaria.

Thursday, March 23, 2006

 
"No Coffee, no party"
George fa uno spot, ma è meglio non dirlo a casa


Vanity Fair - 30 marzo 2006


George Clooney: attore, regista, ma, soprattutto, testimonial pubblicitario. Dopo gli spot di Martini e di Fiat Idea sarà, nei prossimi mesi, il nuovo volto per Nespresso, il marchio Nestlè delle macchine da caffè a capsule. Il minifilm sarà on air nei cinema e in televisione a partire da maggio, mentre la campagna stampa è pianificata a partire da metà aprile. La regia di “The Boutique” - questo il nome del mini film (50 secondi - agenzia McCann World Group) - è stata affidata a Michel Gondry, premio Oscar lo scorso anno per la miglior sceneggiatura con “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”.
Girato in bianco e nero come una commedia sofisticata, lo spot riprende il classico gioco degli equivoci: Clooney si ritrova nei pasticci per via di due affascinanti signore incontrate al bar.
Negli Stati Uniti George Clooney ha ormai un’immagine da artista “impegnato”, e per nascondere la sua anima commerciale ha siglato con Nespresso un contratto valido solo per il mercato europeo, che esclude categoricamente la diffusione della campagna negli States. In patria invece ha drasticamente ridotto l’attività di testimonial commerciale: per un recente spot della birra Budweiser, per esempio, ha prestato solo la voce.
Inoltre Clooney, sempre solo per il mercato europeo, ha da poco terminato in Messico le riprese blindatissime del nuovo spot Martini: l’unica notizia trapelata è che dopo un lungo casting è stata scelta come partner dello spot la modella e attrice norvegese Natassia Malthe, in sostituzione della sua ex (nella vita e nel precedente spot) Lisa Snowdon.

Friday, March 17, 2006

 
CONSIGLI A LAPO

L'acqua "solidale" può arrivare dove i forum mondiali non arrivano? Un brand ci prova.

Il Foglio - Venerdì 17 Marzo 2006


Capita sempre più spesso di considerare il marketing come una sorta di cancro della società dei consumi. Ogni volta che ci troviamo di fronte a prodotti o servizi senza qualità specifiche, inutili, costruiti a tavolino e venduti solo per confondere le idee al rimbecillito consumatore, si tende definire l’iniziativa con un secco “è un’operazione di marketing”, perlopiù associando aggettivi quali squallida, misera o bieca. La funzione del marketing, al contrario, dovrebbe essere quella di aiutare a vendere un prodotto predisponendo strumenti che vadano incontro al potenziale cliente e che lo aiutino a soddisfare i propri bisogni, anche quelli latenti.
Ad esser sinceri “quelli-del-marketing” sono riusciti negli ultimi decenni a creare differenziazioni e variazioni fittizie su alcune categorie merceologiche che sono, per loro natura, indistinte. Un esempio su tutti: l’acqua (oggetto di un forum mondiale da ieri in Messico).
L’acqua minerale è senza dubbio uno dei prodotti di largo consumo con la più alta percentuale di margine di guadagno: è evidente quindi come sia le grosse multinazionali sia le piccole aziende che gestiscono fonti e acquedotti abbiano tentato di allargare il mercato delle acque minerali creando sempre nuovi segmenti o nicchie d’offerta più fruttuose. In questo caso la pubblicità ha avuto il suo ruolo fondamentale.
I produttori di acque minerali in Italia sono tra i maggiori investitori pubblicitari e, nel corso di questi anni, i creativi hanno inventato di tutto per garantire riconoscibilità ai vari brand.
In principio fu buona: “Buona veramente” recitava lo slogan intorno alla metà degli anni Ottanta di uno dei marchi leader di mercato. E qui potremmo iniziare a discutere sull’opportunità di abbinare l’aggettivo “buono” ad una sostanza come l’acqua notoriamente inodore, incolore e insapore. Ma non lo faremo perché, in verità, c’è stato anche di peggio. Negli anni Novanta, passato il periodo edonista, la strategia di marketing prevalente fu quella di legare l’acqua all’ambiente e all’ecologia: gli spot privilegiano le inquadrature di cascate e ruscelli dal corso impetuoso, montagne altissime per acque purissime e, perfino, orsi o canguri - a seconda dell’ambientazione - che preferiscono l’acqua in bottiglia a quella della fonte. Altre differenziazioni create da alcuni marchi nella loro pubblicità sono state - e lo sono tuttora – l’aiuto della digestione, l’efficacia nel combattere la ritenzione idrica e il favorire la diuresi.

Tutto ciò accade mentre l’acqua sta diventando a livello globale una risorsa scarsa e, quindi, anche strategica per le politiche internazionali e ambientali. In Italia il settore delle acque minerali è oggetto di discussioni sempre più accese: dall’impatto ambientale (centinaia di camion che quotidianamente scaricano migliaia di bottiglie nei supermercati, lo smaltimento del PET) alle accuse di scarsi controlli delle acque confezionate rispetto a quelli operati per gli acquedotti municipali. Di conseguenza gli italiani vanno riducendo il consumo di acqua in bottiglia. Una recente ricerca commissionata da Acqua Italia - l’associazione che riunisce i produttori d’impianti per il trattamento delle acque primarie - rivela che il 70,4 per cento degli italiani dichiara di aver bevuto negli ultimi 12 mesi acqua del rubinetto e il 43 per cento lo fa abitualmente. Un segno dei tempi che cambiano.

Dagli Stati Uniti registriamo invece un caso positivo ed interessante.
Si tratta dell’acqua Ethos, un marchio nato appena tre anni fa e che si è distinto sul mercato senza alcun posizionamento bizzarro o qualità miracolosa, ma per un’idea semplice ed efficace: per ogni bottiglia venduta a circa $1,80, 5 cent vengono donati ad associazioni che si occupano di programmi di sostegno per l’acqua nei paesi in via di sviluppo come Bangladesh, Etiopia o India (costruzione acquedotti, impianti per la purificazione). “Il nostro target di riferimento,” dice Jonathan Greenblatt, uno dei due fondatori “è semplicemente composto da quei consumatori che hanno un minimo di coscienza”. Greenblatt, che aveva lavorato per cinque anni nel settore istruzione infantile durante l’amministrazione Clinton, e il suo socio Peter Thum, ex-consulente di McKinsey in Sudafrica, nel 2002 decisero di intraprendere un’attività di business che fosse anche d’aiuto nel risolvere la crisi mondiale dell’acqua. Iniziarono a vendere le bottigliette Ethos in negozi trendy di abbigliamento e poi di seguito nella catena dei supermercati Whole Foods. Nel 2005 Starbucks, interessata a questo esempio di brand socialmente responsabile, decide di acquistare l’azienda, rendendo le bottiglie disponibili in migliaia di punti vendita. Le vendite di Ethos sono cresciute vertiginosamente, il marchio è diventato di culto e l’obiettivo prefissato è quello di raggiungere entro cinque anni 10 milioni di dollari da devolvere per la costruzione di acquedotti nei paesi africani.

Saturday, March 11, 2006

 
LA SETTIMANA INCOM

BEAUTIFUL LOSERS


Graffitisti, skater e maghi del video uniti dall'arte di arrangiarsi. Una mostra li celebra a Milano.

Il Foglio - 11 Marzo 2006


La storiella della vita e dell’arte che procedono di pari passo è solo una magnifica illusione. Ecco un esempio: Milano, Marzo 2006, grande successo di pubblico e critica alla Triennale per la rassegna “Beautiful Losers”. La mostra, che si apre con la statua di un ragazzo che disegna sul muro con una bomboletta spray, è dedicata a graffitisti, skater, fotografi e videoartisti: esponenti di una scena creativa nata sulla strada e che oggi viene celebrata dal sistema dall’arte contemporanea e dal grande pubblico.
Sempre Milano, sempre Marzo 2006: grandissimo successo per l’operazione anti-graffiti organizzata dal Comune di Milano e dall’Amsa (Azienda Milanese per i Servizi Ambientali). In meno di cinque ore si sono esaurite le domande accettabili per la pulizia gratuita delle facciate imbrattate dai graffiti per 800 edifici. L’operazione, costata un milione di euro, è stata finanziata grazie ad un emendamento della Finanziaria.
Non stiamo certo qui a far la morale, ma ci limitiamo a mostrare la doppia faccia della realtà e a segnalare la bella esposizione ospitata dalla Triennale.
Ciò che affascina di questo “Beautiful Losers” è l’apparente mancanza di un comune denominatore tra gli artisti e le opere esposte: una disomogeneità apparente perché, a ben vedere, gli artisti condividono tra loro un’etica del fai-da-te, un’arte di arrangiarsi che li ha obbligati a rinnovarsi continuamente.
E’ questo che accomuna i teschi stilizzati di Brian Donnelly disegnati sopra i manifesti pubblicitari nelle pensiline dei bus, alle grandi foto della Lower East Side di Ryan McGinley e ai i cortometraggi sulle bycicle gang di Cheryl Dunn. La testimonianza di uno stile di vita, prima ancora della consapevolezza di aver creato opere d’arte che sarebbero poi state esposte in prestigiose gallerie d’arte.
Un altro punto in comune tra i Beautiful Losers è il ricorso massiccio all’iconografia pop. Non a caso, nella prima sezione della mostra intitolata Roots & Influences, vengono presentate alcune opere degli influenzatori principali di questa gruppo di artisti come Warhol e Haring. Ed è proprio dalla cultura pop che sono nate negli anni Novanta gran parte di queste opere: copertine di dischi, fanzine, stampe ma anche prodotti come giocattoli (ad esempio l’orsetto Be@rbrick usato come “tela d’artista” e che è oggetto di una sezione della mostra) e scarpe da ginnastica sono i principali formati ad aver “ospitato” questi lavori. Ma è l’universo degli skaters a rappresentare una delle fonti di ispirazione e di riferimento per buona parte di questi artisti: talenti come Craig Stecyk III (l’autore del documentario “DogTown”), Mark Gonzales o Ed Tempelton, nati come campioni di skate, si sono poi trasformati in stimati artisti continuamente alla ricerca di un rinnovamento dell’immaginario visivo legato a questo mondo.
Per questa generazione di artisti il materiale documentaristico è stato parte integrante della loro opera: molti lavori di writer corrono il rischio di sopravvivere solo nella memoria dei pochi presenti durante la realizzazione. Una sezione della mostra è quindi dedicata ai film e video che testimoniano il fermento creativo degli artisti legati a queste sottoculture: insieme ai documentari anche una selezione di videoclip e spot pubblicitari di filmmaker quali Spike Jonze, Mike Mills e Larry Clark che testimoniano la crescente popolarità e la visibilità commerciale della street culture.
La musica ha, ovviamente, un ruolo fondamentale nel processo creativo e nella fruizione di queste opere: ma tanto ovvio forse non è per i curatori della mostra, considerato che solo un ambiente è stata sonorizzato con le musiche di Tommy Guerrero, ex skater ma anche compositore di riferimento di questo “scena”. Unico neo di una mostra originale che, dopo aver attraversato gli Stati Uniti, passerà per le principali capitali europee per poi traghettare in Asia.

Beautiful Losers – Contemporary Art and Street Culture – Triennale di Milano fino al 19 Marzo 2006

Friday, March 10, 2006

 
Chi è il candidato sotto Berlusconi? Un surgelato.
Quando la pubblicità si fa gioco della politica

Vanity Fair - 16 Marzo 2006


Mentre la politica si appropria ogni giorno di più del linguaggio pubblicitario, la pubblicità si prende una piccola rivincita. In periodo di elezioni anche le aziende hanno iniziato a scimmiottare le campagne politiche.
Prendiamo il caso della Bocon, una piccola azienda produttrice di piatti pronti surgelati che ha deciso di ritrarre il proprio presidente come fosse un candidato elettorale. Tale scelta non è frutto di una lungimirante strategia, ma semplicemente suggerita da un’occasione: una forza politica aveva rinunciato all’ultimo minuto all’acquisto di spazi pubblicitari (i manifesti giganti 6*3 mt) che quindi venivano venduti dalla concessionaria pubblicitaria ad una tariffa scontatissima. “Non votate per me, ma per le mie ricette pronte” suggerisce il presidente, mentre sopra di lui Berlusconi chiede di “andare avanti”.

La pubblicità di Nuvenia gioca invece sui sondaggi e sull’insoddisfazione delle donne in materia di prodotti intimi, ricordandoci che “ogni mese più di una donna su cinque è insoddisfatta del suo assorbente”. La strategia è stata studiata dall’agenzia inglese Dbh a livello internazionale, ed è quindi una “fortunata coincidenza” che in Italia sia partita proprio durante la campagna elettorale. La palma d’oro del tempismo va però a “Tanner 88” una docu-fiction americana in onda da una settimana sul canale satellitare Cult, dove il protagonista della serie è un finto candidato presidenziale che concorre alle primarie dei democratici. Per promuovere la miniserie, diretta da Robert Altman, la Fox sta distribuendo volantini e spillette come se fosse una reale campagna presidenziale. Lo slogan? “Vota Tanner, un candidato vero”.

Tuesday, March 07, 2006

 
Casse: meglio Davide o Golia?

Style/Corriere della Sera - Marzo 2006


- “Hobby?”
- “Ascolto musica”
Questa risposta poteva andar bene alcuni anni fa. Oggi non basta più.
Negli ultimi tempi il modo in cui la musica viene fruita è decisamente cambiato, al punto che si sono creati due grossi gruppi, o meglio, due tribù, con esigenze e riti differenti.
Gli appartenenti alla prima tribù sono quelli che ascoltano la musica avendo in mente una sola parola: iPod. Il lettore della Apple è ormai diventato sinonimo di prodotto dei player mp3, come fu il Walkman Sony negli anni ‘80 per i lettori portatili di cassette. La comodità di avere sempre con sé l’intera discografia di casa è un tale lusso per gli “iPod Entusiasti” da esser disposti a sacrificare la qualità del suono. La compressione digitale del file mp3 rende il suono piatto, e di certo le casse acustiche - piccole, essenziali e di design - utilizzate in alternativa alle cuffie, non migliorano la situazione.
Per Linus di Radio Deejay, la musica in digitale ha portato ad una crescita culturale “C’è più circolazione di musica in giro e gli mp3 ti permettono di creare una propria libreria musicale personalizzata e indipendente dagli standard imposti dalle stesse radio. Quindi l’”iPod Entusiasta” è sicuramente più aperto musicalmente ma sempre più abituato ad un suono non di qualità”.

La seconda tribù è quella dei “Perfezionisti del Suono”. Per loro la musica deve essere ascoltata solo nelle migliori condizioni. La loro poltrona, il loro impianto stereofonico d’eccellenza ma, soprattutto, i loro diffusori. In questo caso vale la regola del “grosso è meglio” con buona pace delle mogli o fidanzate costrette a convivere in soggiorno con ingombranti totem neri o in legno.
Al suono di qualità non può rinunciare il nostalgico Giampiero Mughini “Pur non essendo un fine musicofilo, nella nuova casa mi sono concesso il lusso di una stanza della musica dove ogni volta che vi entro si svolge un cerimoniale - tempo di riscaldamento dell’impianto, pulizia del disco (vinile, ovviamente) - dal quale non voglio essere disturbato nemmeno da Kate Moss”.

Friday, March 03, 2006

 
ESPORTARE LA MERCE DELLA DEMOCRAZIA IN MEDIO ORIENTE

L'anima del commercio nel mondo musulmano deve rispettare regole precise per essere pure. Il catalogo è questo.


Il Foglio - 3 Marzo 2006

Le cronache di queste ultime settimane ci hanno presentato i paesi musulmani sotto una nuova veste. A seguito dei boicottaggi dei prodotti danesi da parte della comunità islamica sono emerse una serie di rimostranze - ancor più vili dei boicottaggi stessi, se possibile - da parte di importanti multinazionali come Nestlè e Ferrero che, conducendo ottimi affari in quei paesi, si sono precipitate a dichiarare la provenienza “buona e innocente” dei propri prodotti – “Noi non siamo danesi, quelle cose brutte lì mica le facciamo”.
I paesi musulmani si sono quindi rivelati, ai nostri occhi, importanti e strategici mercati di consumo.
L’islam ha più di un miliardo e mezzo di fedeli in tutto il mondo, e un’alta percentuale di questi vive in quella parte di pianeta in forte via di sviluppo. I musulmani che vivono in paesi come Egitto, Malesia e Arabia Saudita hanno un alto potere d’acquisto e sono molto interessanti per quelle aziende costrette a lottare nei paesi occidentali con mercati maturi e consumi stabili. Nel libro di Jeffrey E . Garten, preside della Yale school of management, “The Big Ten: The Big Emerging Markets and How They Will Change Our Lives” tra i dieci mercati emergenti segnalati vi sono due nazioni musulmane (Turchia e Indonesia), e altre due dove vi è una consistente percentuale di fedeli a Maometto (India e Sud Africa). Per non parlare poi della diffusione del Corano nei paesi sviluppati europei e nel nord America: in Francia più di un decimo della popolazione aderisce all’islam, negli Stati Uniti si stima ci sia invece una comunità musulmana di circa otto milioni di persone.
A differenza di quanto si pensi, l’islam considera il business come un’attività socialmente utile: il profeta Maometto, del resto, apparteneva a un importante clan di mercanti, e trascorse buona parte della sua vita portando avanti l'attività della famiglia. Il sistema socio-economico islamico prevede precise linee guida e regole da seguire su questioni economiche quali le tassazioni, la distribuzione della ricchezza, il commercio e il consumo. La legge islamica (shari’ah) deriva dal Corano e dal sunnah, che traccia la linea di condotta applicata sia nella vita familiare e sociale sia nelle relazioni commerciali. Tutte ottime condizioni, queste appena citate, per condurre affari nei paesi levantini a prevalenza musulmana. Per questo, negli ultimi anni, stiamo assistendo ad una rapida crescita della finanza islamica: il grande gruppo bancario inglese Citibank ha aperto una nuova direzione nel Bahrain; Dow Jones ha da qualche anno costituito un nuovo indice di borsa (Dow Jones Islamic Market Index) rivolto agli investitori che seguono le linee guida dell’islam.
Insomma, la religione nei paesi musulmani gioca nella conduzione del business un ruolo decisivo di intraprendenza ed efficienza, sia sui processi e le scelte aziendali sia sulle decisioni di acquisto dei consumatori, specialmente per gli abitanti dei paesi mediorientali. Il rispetto delle leggi coraniche influenza fortemente gli atteggiamenti e i consumi dei devoti a Maometto, ed è quindi necessario che le aziende occidentali, decise a fare affari con questa comunità predispongano una strategia di marketing ad-hoc.
La comunicazione pubblicitaria, in particolar modo, può trasformarsi in un boomerang per l’azienda, qualora offenda la dignità della persona o, direttamente, le leggi del Corano.
Proviamo quindi a tracciare alcune linee guida da seguire per chi si vuole avventurare in questa complicata impresa.

Regola numero uno: dimenticatevi le pubblicità occidentali o, almeno, non pensate alle logiche che si celano dietro ai nostri spot, cartelloni o campagne stampa, ovverosia quella di “farsi notare”, cioè di catturare l’attenzione del potenziale consumatore. Per raggiungere questo scopo i nostri pubblicitari utilizzano copiosamente immagini provocatorie e frasi ad effetto, spesso al limite del buon gusto. La pubblicità nei paesi islamici invece non deve divertire, stimolare o sbalordire ma, soprattutto, informare in modo veritiero, diretto e gentile: in pratica, deve avere l’appeal di un annuncio immobiliare. Del resto, lo strumento pubblicitario è stato, ed è ancora, molto utilizzato per promuovere la religione islamica, perciò questo è lo stile di comunicazione. Anche l’uso di figure retoriche come il paradosso, l’iperbole o l’enfatizzazione, molto utilizzate nella comunicazione pubblicitaria a cui siamo abituati, nei paesi arabi rischia di essere interpretato come falsità o menzogna. A meno che non siano immagini palesi e ovvie, come può essere quella di un bambino che solleva un elefante dopo che ha mangiato dei biscotti energetici. Per non parlare poi dell’ironia: abbiamo quotidianamente davanti agli occhi gli effetti dello scarso senso dell’umorismo di alcune piazze arabe (anche su argomenti diversi dalla religione).
In compenso certa terminologia religiosa viene talvolta utilizzata per rassicurare i consumatori sull’integrità islamica dei prodotti oggetto della pubblicità: frasi come bismillah (“in nome di Dio”, frase usata dai musulmani prima di intraprendere un’azione) o Allahu akbar (“Allah è grande”, motto da noi tristemente noto) si possono tranquillamente trovare nei manifesti che pubblicizzano banche saudite o farmaci.

Perfino l’occidentale Ford nello spot di una propria auto sportiva, faceva recitare ai due protagonisti, entrambi vestiti con tradizionali abiti arabi, l’espressione Ma’ashallah (“sia fatta la volontà di Dio”) ogni qual volta uno dei due faceva notare all’altro le caratteristiche e le sorprendenti qualità della propria auto. E’ anche vero però che spesso il popolo arabo vede dei riferimenti religiosi offensivi, laddove non vi era neppure l’intenzione: esplicativo il caso della ABB (Asea Brown Boveri), multinazionale leader nelle tecnologie per l'energia e l'automazione, che non ha potuto mostrare il proprio logo in una cartellone pubblicitario all’interno dell’aeroporto del Bahrain, perché la linee incrociate bianche su sfondo rosso che si trovano dentro le lettere della sigla, ricordano la croce cristiana (come pure, peraltro, la bandiera danese).

Poi c’è la questione delle donne arabe. La pubblicità, si sa, riflette i valori e i cambiamenti della società e, secondo l’opinione di molti osservatori della comunità musulmana, negli ultimi anni la condizione della donna nei paesi del Golfo, in Marocco e in Iran, è migliorata. Poche settimane fa a Beirut è nato “Heya tv” (“Lei tv”) un nuovo canale televisivo dedicato al volto moderno delle donne arabe che vivono in Medio Oriente e Nord Africa. Trasmette lezione di cucina, soap opera sudamericane, ma anche dibattiti in cui si raccontano storie di donne che si sono distinte per modernità ed emancipazione. Inoltre, in paesi come Oman o Kuwait, le donne ricoprono posizioni di rilievo in campo istituzionale e aziendale; negli Emirati Arabi è più alta la percentuale di donne laureate rispetto agli uomini.
In pubblicità il processo di modernizzazione è più lento. Nei paesi del Golfo viene riproposta la figura stereotipata della donna, come era ad esempio da noi negli anni ‘70: quella che viene rappresentata negli spot è la bella e impossibile (la ballerina egiziana che, nell’immaginario arabo, corrisponde alla nostra Monica Bellucci o a Kate Moss), oppure la casalinga che vive in cucina e passa il tempo a pulire la casa o ad accudire la prole. Non esiste ancora un’immagine moderna e intraprendente della donna: negli spot degli istituti bancari, ad esempio, la donna viene mostrata sempre come la moglie di colui che porta i soldi a casa e al quale viene intestato il conto corrente, le cui rendite potranno essere usate dalla moglie per far fronte all’educazione dei figli. Nelle pubblicità delle auto, la donna musulmana ha invece il ruolo di testare la sicurezza e l’affidabilità della vettura e, quindi, partecipa alla decisione d’acquisto.

In occidente per cercare di differenziare un brand dall’altro, le aziende e le agenzie pubblicitarie puntano su qualità illusorie quali il prestigio o il sex appeal; difficile utilizzare queste modalità in paesi ancora molto conservatori come quelli a prevalenza musulmana. Un manifesto pubblicitario del profumo Cool Water della Davidoff, raffigurante una donna seminuda che emergeva da un lago, è stato preventivamente modificato dall’agenzia pubblicitaria per il mercato arabo: le spalle nude sono state coperte, inserendo con un fotomontaggio una gigantesca roccia, di modo tale che solo il volto femminile rimanesse visibile. Nonostante questa soluzione la pubblicità è stata bloccata in alcuni paesi arabi perchè il volto della donna risultava “troppo sexy e invitante”.

C’è da dire, inoltre, che i processi di decisione per l’acquisto, ad esempio, di un’automobile da parte di un musulmano, sono differenti da quelli di un occidentale cattolico o di un ebreo. Molti teorici moderati dell’islam parlano di “materialismo strumentale” e di “materialismo terminale”: con il primo termine ci si riferisce a quando gli oggetti sono valutati e valorizzati per la loro funzione specifica, mentre si parla di “materialismo terminale” quando un prodotto viene apprezzato solo come oggetto in sé stesso e il fine ultimo è quello di possederlo a tutti i costi. Ovviamente, nella visione e morale islamica, il materialismo strumentale è concesso, il terminale no: Maometto in realtà predicava la moderatezza negli affari - permettendo però ai propri fedeli di soddisfare i bisogni - e quindi descriveva l’islam come “la terza via”.

Uno dei punti centrali della religione musulmana è la sobrietà nei consumi e, sopratutto, il risparmio: questo argomento può essere uno delle chiavi vincenti per poter comunicare in modo efficace al consumatore islamico. Lo devono aver capito quelli della Pepsi-Cola quando se ne uscirono con una campagna stampa in cui si comunicava la possibilità per i consumatori di comprare la bevanda, nell’immediato termine del Ramadan, risparmiando anche sul prezzo. Quindi, rispetto delle tradizioni religiose e opportunità di risparmio per la comunità musulmana: strategia intelligente e vincente.
Nel seguire la strategia del risparmio Coca-Cola ottenne invece l’effetto opposto: per celebrare il suo primo anno di permanenza nel mercato iraniano, la multinazionale americana decise di commercializzare la propria bevanda con un forte sconto, facendo sospettare al governo che la Coca-Cola l’anno precedente avesse lucrato troppo sulle vendite, e quindi fu imposto per gli anni successivi un prezzo inferiore ai costi di produzione sostenuti.
Un altro argomento su cui il popolo musulmano è molto sensibile è quello dell’ambiente e della protezione della propria salute. Il Corano condanna fermamente il comportamento caratterizzato da sprechi e consumi inutili: ne consegue che il consumatore musulmano dovrebbe essere particolarmente reattivo a messaggi e appelli che sostengono un ambiente sicuro e più sano, sebbene molti paesi dell’islam non abbiano ancora adottato le medesime norme ambientali dei paesi occidentali più sviluppati. Nonostante ciò, questo è sicuramente un tema strategico su cui molte aziende possono puntare per comunicare i propri prodotti.

Le ferree regole del Corano hanno imposto a molte aziende europee e nord-americane di modificare i propri prodotti per poterli commercializzare nei paesi musulmani: le catene di fast food come McDonald’s o Burger King hanno dovuto modificare l’offerta delle proprie carni, macellandole secondo il rito musulmano, in base al precetto alimentare islamico halal. Alla fine degli anni ‘90 la celebre azienda di giocattoli Mattel aprì i suoi nuovi uffici a Dubai e fu colpita da una fatwa ordinata dall’Imam del Kuwait per l’effetto dannoso che la bambola Barbie poteva provocare alle menti e alla moralità delle bambine. La Mattel fu così costretta a modificare le caratteristiche fisiche e di abbigliamento della propria bambola.

Nonostante queste barriere ma, soprattutto, grazie all’adeguamento dei costumi da parte dei paesi più moderati, il mercato pubblicitario del Medio Oriente è in rapida crescita. Molte agenzie pubblicitarie per capire meglio e più da vicino le caratteristiche specifiche di questi mercati e delle loro dinamiche, stanno aprendo filiali nei paesi del Medio Oriente: pochi giorni fa, J. Walter Thompson, la quarta agenzia di advertising al mondo per grandezza, ha siglato un accordo con Altai Communications, un'agenzia pubblicitaria con sede a Kabul. Vuole essere la prima agenzia pubblicitaria multinazionale ad investire ed operare in Afghanistan.
La sfida principale per aziende e pubblicitari è quella di conoscere con precisione i target verso i quali i prodotti e la comunicazione sono diretti e identificare i loro valori di riferimento, tenendo sempre presente come la religione può influenzare le scelte, i comportamenti e il loro stile di vita. Grandi trasformazioni, ad esempio, interessano i gruppi di teen ager - da sempre quelli più sensibili e aperti ai cambiamenti che arrivano dall’occidente: in particolar modo nei paesi più integralisti, i nuovi comportamenti e gli stili di vita emergenti stanno lentamente mettendo in crisi la struttura conservatrice musulmana.

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