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Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Wednesday, December 29, 2010

 
I grandi brand pensano a come proteggersi dall'effetto Wikileaks 

Il Foglio - 29 dicembre 2010

Libertà, trasparenza, accesso indiscriminato alle informazioni. Nell'era post Wikileaks sono questi i mantra che ricorrono nelle conversazioni tra commentatori o esperti di comunicazione e negli editoriali di mezzo mondo. Julian Assange con il suo sito ha fornito un nuovo paradigma al quale tutti oggi devono iniziare a sottostare.
E' la cultura della rete, bellezza. E tu non ci puoi fare niente.
Come ha scritto John Naughton sul Guardian, a conclusione di un suo citatissimo articolo “I nostri governanti devono fare una scelta: imparare a vivere nel mondo di Wikileaks, con tutto quello che comporta per il futuro, o chiudere internet. La decisione spetta a loro”.
A Naughton hanno fatto eco molti altri opinionisti, spesso anche di mondi e appartenenze diverse, rincarando le dose, tessendo le lodi alla riforma Wikileaks e salendo nel carro del cambiamento. Non ultimo, anche qui in Italia, Lorenzo Sassoli De Bianchi, presidente dell'azienda alimentare Valsoia e di UPA, l'Associazione degli Utenti Pubblicitari, ovvero coloro che tengono in piedi il sistema pubblicitario – e quindi dei media – in Italia. Nel suo recente editoriale sul Corriere, Sassoli De Bianchi parla di una rivoluzione che sta cambiando la natura della nostra società, parla di era della partecipazione, di mondo digitale che mette a nudo i re e il mito della segretezza delle istituzioni.
Nonostante il ruolo che ricopre, Sassoli De Bianchi nel suo editoriale continua a far riferimento a istituzioni e governi e non prova a ipotizzare una Wikileaks che coinvolga il mondo delle aziende e dei brand.
Se non lo fa lui, allora proviamo noi a porci delle domande.
Cosa succederebbe se le “perdite di informazioni” colpissero le multinazionali che gestiscono i brand di largo consumo?
Le aziende e i brand dovranno assumere una posizione nei confronti di questo nuovo scenario che si sta affacciando. La trasparenza ha un costo anche per loro, non solo per i governi.
Che accadrebbe se il mercato – che è fatto di persone, consumatori, ma anche di concorrenza – venisse a conoscenza dei segretissimi budget pubblicitari, dei brevetti industriali, nomi degli effettivi fornitori o i rapporti preferenziali con gli editori?
Come faranno le aziende a controllare i loro dipendenti?
Sappiamo che la chiusura e la scarsa comunicazione all'esterno in passato è stato fonte di molte polemiche e boicottaggi per alcuni brand, ma siamo sicuri che la trasparenza assoluta e radicale fornisca solo un vantaggio competitivo?
Mentre la domanda di Naughton era retorica - i governi degli stati occidentali non possono certo “chiudere internet” - le aziende e le multinazionali possono bloccare l'accesso e l'utilizzo dei social media; tutto questo con eventuali ripercussioni sulla parte del loro commercio online, ma possono farlo.

Monday, December 13, 2010

 
KOTLER E' MORTO

Campagne a pioggia che colpiscono comunità indistinte. Target tanto specifici da avvicinarsi all'insieme vuoto. Banner che sovrastano le informazioni utili. Virali che incuriosiscono al primo ascolto, annoiano al secondo e indispettiscono di lì in avanti.
Consumatori sempre più decisi a farsi a farsi sentire. Prosumer, consum-attori e altri mostri mitologici. Se già prima il marketing era una un casino, ora si rischia davvero la paralisi.
Allora meglio fermarsi, mettere in fila i puntini, e magari andare in direzione opposta al senso comune.



LINK MONO - Dicembre 2010 (qui in pdf)



Tesi #20 Le aziende devono capire che i loro mercati ridono spesso. Di loro.
Gli anni Zero del marketing iniziano in realtà nel 1999 con la pubblicazione - prima online poi su libro - del Cluetrain Manifesto (1), 95 tesi che annunciavano e analizzavano l'onda anomala di cambiamenti che avrebbe investito il “mondo connesso”.
Sulle prime sembrarono solo una serie di irriverenti e provocatorie affermazioni enunciate da ispirati e radicali economisti e futurologi sul futuro di internet e su come il web avrebbe cambiato il linguaggio e la comunicazione delle aziende e dei mercati. Con il passare del tempo si è capito che quelle tesi avevano in realtà tracciato il percorso verso la trasformazione e la morte del marketing tradizionale as we know it.
Nel corso degli anni ci siamo accorti che le radicali riforme non riguardavano solo internet e i mercati in rete, ma si estendevano anche al mondo offline, al funzionamento delle aziende, al loro rapporto con le persone (consumatori “evoluti”, cittadini, dipendenti ma, sopratutto, nuovi comunicatori), all'advertising classico e all’ottusità di un certo management incapace di sviluppare rapporti più aperti e democratici fra impresa e società. Del resto è anche vero che in questi dieci anni internet si è sempre più infiltrato all'interno dei processi decisionali e operativi delle organizzazioni e delle persone, al punto da cambiare i paradigmi dell'economia reale, anche quella non direttamente correlata alla rete.
Le radicali tesi del Cluetrain Manifesto ci guideranno in questa breve analisi per capire come il marketing tradizionale si sia piegato - o comunque sia profondamente mutato - di fronte a una nuova complessità.

#71Le vostre vecchie idee di "mercato" ci fanno alzare gli occhi al cielo. Non ci riconosciamo nelle vostre previsioni – forse perché sappiamo di stare già da un’altra parte.
#72 Questo nuovo mercato ci piace molto di più. In effetti, lo stiamo creando noi.
#73 Siete invitati, ma è il nostro mondo. Levatevi le scarpe sulla soglia. Se volete trattare con noi, scendete dal cammello.
In questi dieci anni il cambiamento più interessante è stato forse quello che si è sviluppato dal lato della domanda. Quello che un tempo si chiamava “consumatore”, e sul quale il marketing ha basato gran parte dei propri successi, supposti teorici e applicazioni pratiche, si è in realtà evoluto, potenziato, si è svincolato dalla passività in cui era relegato, si è fatto più intelligente e ha iniziato ad avere un ruolo attivo nella catena del valore. Il consumatore è diventato persona: multidimensionale, sfaccettato, informato, coscienzioso, spesso indipendente, critico, mutante e connesso. Più che maturo, complesso. In pratica, difficile da inquadrare. Magari non è diventato (ancora) il “prosumer” - come aveva preconizzato già negli anni 70 il futurologo Alvin Toffler nel suo Future Shock (2), ovvero un utente/cliente che assume un ruolo attivo nel processo che coinvolge le fasi di creazione, produzione e distribuzione e consumo - oppure il consumAttore, consumatoRe, consumAutore o altre nomi inventati da sociologi ed economisti con la passione per la Settimana Enigmistica e per i giochi di parole. Comunque qualcosa è cambiato. La collaborazione tra produttore e consumatore di cui tanto in questi anni abbiamo sentito parlare, solo in pochi e rari casi ha creato qualcosa di nuovo e duraturo, funzionale e profondo. Anzi, a posteriori possiamo dire che certi fenomeni come il crowdsourcing o il citizen journalism sono stati spesso utilizzati dal management come marketing tool per ribadire ancora una volta, paradossalmente, l'egemonia delle piramidi aziendali e delle dinamiche top down. Una sorta di “contentino” per i clienti più affezionati. “Non abituatevi, però. Il pallino continuiamo a tenerlo noi”.


#77 Siete troppo occupati nel vostro business per rispondere a un’email? Oh, spiacenti, torneremo. Forse.
#78 Volete i nostri soldi? Noi vogliamo la vostra attenzione.
Quello che è chiaro è che, grazie alla rete, si è creata una forte connessione tra le persone. Senza bisogno di alcuna sovrastruttura (associazioni di consumatori e simili), ma solo attraverso le conversazioni in rete (#1 I mercati sono conversazioni), gruppi di persone/utenti di internet/consumatori sono riuscite a incidere sul mercato, prestando attenzione e rispondendo direttamente, chiedendo direttamente alle aziende di modificare i prodotti, denunciando le ingiustizie, premiando le aziende dai comportamenti virtuosi o dai prodotti eccellenti. (#83 Vogliamo che prendiate sul serio 50 milioni di noi almeno quanto prendete sul serio un solo reporter del Wall Street Journal).

#2 I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici.
#86 Quando non siamo occupati a fare il vostro "mercato target", abbiamo anche una vita.

Ma il vero cambiamento in questo senso è stata la sostanziale perdita di valore strategico e operativo del Target, uno delle leve cardine del vecchio marketing mix su cui si basavano gran parte delle strategie e delle pianificazioni aziendali. Possiamo dire che questo retaggio di strategia militare applicata al mercato che mira a raggiungere e centrare un bersaglio ben preciso, di fronte a uno scenario e a una domanda così complessa e stratificata, ha ormai i giorni contati. “Il raggiungimento del target, in sostanza altro non è che il suo isolamento, attraverso la privazione del suo capitale sociale, al di fuori del suo contesto di vita, e sopratutto al di là del suo carattere che non può certo essere ricondotto ad un profilo standard” scrive il sociologo Francesco Morace nel suo blog PreVisioni e PreSentimenti “Ciò che interessava al marketing tradizionale era lavorare in un’economia di scala, attraverso l’annullamento del carattere personale, sostituito da individui singoli e isolati: target pronti per una strategia one-to-one, nel senso di una guerra chirurgica con ogni singolo consumatore, che in realtà è impossibile adottare per evidenti asimmetrie e dispendi di energie. La rete ha permesso la rivolta dei target e ha reso inutilizzabili i vecchi strumenti. In questa ottica il consumatore diventerà un nemico: sarà un re, e rimarrà al centro delle preoccupazioni aziendali, fino a quando ci si accorgerà che è un re che comanda in un paese nemico”.
E' evidente che in questa situazione i rischi sono maggiori delle opportunità.
Ecco che per il marketing aziendale diventa necessario abbandonare strumenti prescrittivi e di analisi passivi dei soggetti-consumatori. Anche perché, come si è visto, il pubblico è già più avanti e, in gran parte, ha ampiamente superato il rischio di passività.
Le persone scelgono, lo fanno a ragion veduta, redistribuendo le proprie risorse in alcuni consumi e non su altri, seguendo le proprie vocazioni e le proprie passioni, preferenze e priorità personali: anche il disinvestimento, in periodi di recessione, è avvenuto in modo non omogeneo sul proprio standard di consumo - certi prodotti del cosiddetto “lusso” o comunque premium price non hanno affatto subito il periodo di crisi - sfuggendo alle logiche tradizionali a cui non siamo abituati e che quindi non vengono comprese.
Tutto questo porta a un'altra serie di considerazioni e riflessioni sull'inefficacia e sulla sostanziale inutilità delle segmentazioni e delle canoniche ricerche di mercato, elementi di un armamentario marketing polveroso e obsoleto che, di fatto, banalizzano le persone e le loro scelte.
Un esempio, per capirci. Oggi il low cost non rappresenta più la bassa qualità del prodotto e del servizio e, come logica conseguenza, anche un consumatore di basso profilo socio-economico: i casi sono sotto gli occhi di tutti, dall'abbigliamento (Zara, H&M, ma anche gli outlet) ai viaggi (Ryan Air e le altre compagnie no-frills) per passare attraverso il retail alimentare (gli hard discount non hanno più quell'aspetto neopauperistico degli esordi). Insomma, è completamente saltato quel rapporto costo/prezzo/beneficio/valore sul target sul quale si basavano le consuete equazioni del marketing classico.
Tutto questi elementi portano a un punto di arrivo sostanziale, ovvero l'impossibilità oggi da parte dei marketers di controllare perfettamente i propri marchi e i propri prodotti. E quando diciamo controllare, intendiamo anche misurare con una certa precisione le performance sul mercato. I mercati oggi sono così complessi, ibridi, multifaccia e connessi con mille altre inaspettate realtà, da essere difficilmente analizzabili. Prendiamo ad esempio la tv: oggi il successo di un programma tv che aspira a diventare brand non si può valutare solo dall'analisi della curva d'ascolto tv o dello share. E' necessario invece verificare il buzz che si sta creando intorno al programma, le conversazioni online, i downloading - anche quelli illegali - , i frammenti video su YouTube, l'evoluzione del ciclo di vita del prodotto. E non sempre questi dati sono facili da valutare e, sopratutto, sintetizzare, aggregare e inserire nelle presentazioni in Power Point.


#17 Se le aziende pensano che i loro mercati siano gli stessi che guardavano le loro pubblicità in televisione, si stanno prendendo in giro da sole.
#74 Siamo immuni dalla pubblicità. Semplicemente dimenticatela.
Non è questa la sede per poter mostrare mille tabelle e numeri e ricerche (e poi, con quello che è stato scritto prima, sarebbe come darsi la zappa sui piedi), però è indubbio che il modello di comunicazione di massa rappresentato dalla pubblicità classica, fortemente basata su evocazioni e su consumi aspirazionali, si stia esaurendo. E non è un caso che alcuni settori che basavano su questo modello gran parte del loro successo (quello dei marchi fashion, in primis) siano alla fine quelli che hanno maggiormente accusato il clima di recessione. E non è solo un problema di marketing convenzionale e non convenzionale: in realtà il cambiamento di paradigma è più profondo. In questi dieci anni il passaggio è stato da “parlare al target” a “trovare modi di generare conversazioni”. Non è tanto il cosa, ma il come comunicare.

#68 Il linguaggio tronfio e gonfio con cui parlate in giro – nella stampa, ai congressi – cosa ha a che fare con noi?
#69 Forse fate una certa impressione sugli investitori. Forse fate una certa impressione in Borsa. Ma su di noi non fa alcuna impressione.
#70 Se non fate alcuna impressione su di noi, i vostri investitori possono andare a fare un bagno. Non lo capiscono? Se lo capissero, non vi lascerebbero parlare così.
Il tono di voce, il modo di parlare delle aziende attraverso le loro comunicazioni, corporate o advertising, è stato uno dei punti su cui gli autori Cluetrain Manifesto hanno particolarmente insistito. Uno dei motivi per cui la collaborazione tra aziende e clienti non è andato a buon fine è anche dipeso dall'alfabeto usato nella comunicazione, dal tone of voice, appunto. Spesso ridondante, autoriferito e autocelebrativo, un soliloquio più che un dialogo. In fondo, se guardiamo anche nel passato, il marketing ha sempre chiesto e preteso molto, ascoltando poco.
Oggi invece l'ascolto diventa il valore fondante del marketing e, in un certo senso, anche dell'advertising. Se il marketing riesce davvero a dialogare in modo naturale con il proprio pubblico, allora si può iniziare a parlare davvero di co-creazione. Ma prima di questo c'è da risolvere un'ultima cosa.


#28 Molti programmi di marketing si basano sulla paura che il mercato possa vedere cosa succede realmente all'interno delle aziende
#82 Il vostro prodotto si è rotto. Perché? Vorremmo parlare col tipo che l'ha fatto. La vostra strategia aziendale non significa niente. Vorremmo scambiare due parole con l'amministrazione delegato. Che vuol dire che “non c'è”?
Bernard Cova e Olivier Badot nel 1992 sul loro libro “Le neo-marketing” preconizzarono che nei prossimi decenni il marketing si sarebbe trasformato in societing, prevedendo che il mercato non avrebbe rappresentato più l'aspetto focale per le aziende, ma un marketing sempre più consapevole si sarebbe rivolto alla società nel suo complesso.
Per far si che questo accada è necessario che le aziende si aprano al mondo, diventino trasparenti, costruiscano modelli che rafforzino le verità dei prodotti e dei processi, sia nel loro comportamento sia nelle loro comunicazioni. Ed è evidente che con la rete le persone riescono subito a riconoscere un modello e un approccio autentico, aperto e trasparente.
(#95 Ci stiamo svegliano e ci stiamo linkando. Stiamo a guardare, ma non ad aspettare)

La morte (naturale) del marketing vecchio stile, quello delle ricette con un nome ben specifico, una confezione e una sequenza ben precisa di azioni, la si è intuita a metà degli anni Zero, con l'uscita di un libro che ha evidenziato perfettamente la difficoltà di reazione e di approccio di fronte al cambiamento.
Il libro si intitola “Chaotics. Gestione e marketing nell'era della turbolenza” ed è stato scritto da Philip Kotler, autore di quel Marketing Management che è stata la bibbia teorica e pratica dell'approccio al mercato. Nel libro Kotler (insieme a John A. Caslione) cerca di affrontare il tema del caos e della discontinuità, ma alla fine il tutto si risolve nella vecchia e banale ricetta che viene dal passato, con ingredienti molto comuni, usati e ovvi (Chaotics Management System). Insomma, un metodo. E non è certo con un metodo che si può affrontare il caos o le situazioni di grande complessità, non è trattando temi come la sostenibilità o responsabilità alla stregua di opzioni tattiche e operative (#80 Niente paura, potete ancora fare soldi. A patto che non sia l'unica cosa che avete in mente) che riesci ad affrontare le nuove sfide, e non è nemmeno considerando l'ascesa di giganti come Cina, India e Brasile come delle semplici variabili di turbolenza dell'economia che analizzi il quadro generale. Insomma, da quel libro si evidenzia una forte miopia del marketing che per anni ha sostenuto una semplificazione che non corrispondeva alla realtà. E che di fronte alla complessità e al caos si è trovato spiazzato e disarmato.

Il marketing as we knew it, in fondo, è stato costretto a morire e rinascere, proprio perché ha sbagliato le proprie previsioni. Ha preconizzato l'egemonia dell'one-to-one e invece ha vinto il many-to-many; ha puntato tutto sulla visibilità del brand ma il mercato ha risposto preferendo la reputazione; ha indicato la comunicazione virale come modalità più efficace per coinvolgere i consumatori più evoluti che invece hanno reagito difendendosi dal contagio.
Il marketing ha voluto farci credere che i brand di culto nascono dall'amore nei confronti dei consumatori o solo coinvolgendo le comunità raccolte attorno ad essi (è il caso di Lovemarks, teoria e libro di Kevin Roberts (5) ceo worldwide dell'agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi). Invece il successo di Apple, Google ma anche, pescando dal passato, della Nutella o delle scarpe Camper, è dato solo dall'ingegno e dalla creatività applicata al prodotto, insieme alla capacità di guardare al di là del consumatore. L'amore è quello per l'idea, per il sogno innovativo. Il consumatore viene dopo.
Mistificazioni e omologazioni come queste oggi non sono più ammesse.
(#26 Le aziende hanno una paura tremenda dei loro mercati)


(1) Cluetrain Manifesto. The end of business as usual – Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls, David Weinberger - Curato e tradotto da Antonio Tombolini – Fazi Editore (2001)
(2) Lo choc del futuro – Alvin Toffler – Sperling & Kupfer (1998)
(3) http://francescomorace.nova100.ilsole24ore.com/
(4) Chaotics. Gestione e marketing nell'era della turbolenza - Philip Kotler, John A. Caslione – Sperling & Kupfer (2008)
(5) Lovemarks. Il futuro oltre il brand - Kevin Roberts – Mondadori - 2005

Sunday, December 12, 2010

 
CAMBIAR VITA SI PUO'

E' la teoria di due giovani sociologi americani che sul tema hanno appena scritto un libro: decidere di cambiare radicalmente vita è un po' come trovarsi a pilotare con razionalità un pachiderma decisamente emotivo.

GQ – Dicembre 2010


Di cambiamento si discute parecchio negli ultimi tempi e in ogni ambito.
L'idea che serpeggia è questa che se vogliamo che il mondo cambi, allora prima bisogna essere in grado di cambiare noi stessi, la nostra vita. Dobbiamo essere, insomma, pronti al cambiamento, non aver paura, ma viverlo positivamente, convinti che questo possa darci nuovi stimoli.
Sulla base di questo assunto sono usciti, specialmente negli States, una serie di saggi e di manuali di auto-aiuto, in cui guru o presunti tali impartiscono regole e su come affrontare il cambiamento; libri che vorrebbero essere pratici, ma che alla fine si rivelano estremamente fumosi e teorici.
Tra i tanti volumi usciti si differenza dagli altri questo “Switch – How To Change When Change Is Hard” di Chip e Don Heath (Random House - uscita prevista nei primi mesi del 2011 per Rizzoli). I due giovani sociologi americani raccontano una serie di storie di cambiamento di persone vere e comuni, che si trovano in situazioni difficili, spesso senza via d'uscita. Eppure queste riescono a operare grandi trasformazioni osservando il problema secondo prospettive meno scontate, attraverso un pensiero divergente. Da qui i due autori tentano, in modo molto naturale, di trovare dei comuni denominatori a tutte queste storie.
Nel libro si sostiene che il processo decisionale dell'essere umano è come un pilota in sella ad un elefante. Il pilota pensa di essere il responsabile, ma alla fine è l'elefante che vince. Entrambi sono imperfetti: il pilota pensa e analizza troppo, l'elefante agisce per passione ed emozione. Sulla base di questa metafora gli autori danno una serie di dritte, basate su esperienze concrete per dirigere il pilota, motivare l'elefante e tracciare il percorso.
Il libro, nonostante sia un saggio, lo si può leggere anche come una serie di racconti, scritti con stile, leggerezza e passione, ma da cui si possono trarre utili ispirazioni.

Wednesday, December 08, 2010

 
C'è una rivoluzione pubblicitaria nascosta dietro il caso Julia Roberts


Il Foglio - 8 dicembre 2010

L'avrete sicuramente vista anche voi in questi giorni nei break pubblicitari la Juliaroberts nel ruolo della venere botticelliana: silenziosa, impassibile prima, sorridente dopo aver bevuto una tazza di caffè. Forse avrete anche letto in giro la notizia del cachet da 1 milione e 200 mila euri che l'attrice hollywoodiana avrebbe ricevuto per lo spot. Ma non focalizziamoci su questo.
E' interessante invece concentrarci su quel sorriso e, sopratutto, su quel silenzio: un'istantanea che è la perfetta metafora della comunicazione mainstream e dei super testimonial, mondo della pubblicità e star system.
L'uso del testimonial in pubblicità è una pratica che risale all'era del Carosello. L'obiettivo è sempre stato quello di fornire un garante da emulare, una sponda di proiezione e d’identificazione per il consumatore che, nel corso del tempo, si è lascia sempre meno abbindolare da questa “scorciatoia psicologica”. Oggi in realtà sono altre le leve che funzionano sui consumi (il prezzo, i consigli degli amici, la notorietà del brand e, per i più sofisticati, anche l'eticità dell'azienda) e altre ancora le dinamiche che muovono le pubblicità migliori: una certa autenticità, la serialità della narrazione, un'empatia con lo spettatore. Alcuni di questi elementi sono stati utilizzati anche dal brand in questione, ma l'uso dell'attorone celebre e riconoscibile è una scappatoia facile e allettante, che non richiede neanche troppa creatività da parte dell'agenzia che realizza lo spot.
C'è da dire che il testimonal pubblicitario ha una sua funzione ben specifica all'interno della società dello spettacolo: è infatti l'ultimo ritrovato per alimentare lo star system cinematografico da anni fiacco, spompato e sempre meno redditizio per chi lo popola.
Ecco che l'Italia, il Giappone e altri paesi “esotici”, diventano paradisi per gli attori che vogliono fare cassa in modo facile e indolore (e non finiremo mai di ringraziare Bill Murray e Sofia Coppola per l'efficace affresco in “Lost in Translation”). Alcuni di questi si affrettano a inserire nel contratto la clausola di non diffusione della campagna negli States, anche se con YouTube oggi è tutto molto più difficile: in questi giorni i blogger e i siti di gossip USA hanno fatto a gara nel commentare lo spot di Juliaroberts e il suo cachet (titolo migliore, quello di un commentatore del sito Gawker: ”Drink, smile, cash on”, parodiando l'ultimo film della Roberts ”Eat, pray, love”, un discreto flop globale).
Non che la concorrenza sia migliore. Anche qui la fantasia latita: stessa dinamica narrativa, stesso uso dei supertestimonial, stessa ambientazione paradisiaca. Almeno gli attori non sono solo dei corpi sorridenti, ma fanno quello che sanno fare. Recitare.

Monday, December 06, 2010

 
La TeleVisione della Mela
Un paio di volte l'anno, il boss della Apple spiega dove sta conducendo la sua azienda. A sentirlo, a Londra, c'eravamo anche noi. Che cosa abbiamo capito? Che telefoni, televisori e computer devono parlarsi di più.

GQ - Dicembre 2010


Sono in molti a considerare Apple qualcosa di più di un semplice marchio tecnologico. Qualcuno azzarda anche l'accostamento a una sorta di culto, di religione. Idea neanche troppo astrusa: in effetti, gli elementi ci sono tutti.
Sono stato invitato da Apple ad assistere al keynote di Steve Jobs, la presentazione dei nuovi prodotti della mela morsicata (primo elemento: il peccato originale) ad opera di un resuscitato Steve Jobs (secondo elemento: il boss di Apple ha subito un trapianto di fegato a seguito di una rara forma di tumore al pancreas. E' notevolmente dimagrito, ma sul palco ha lucidità e una capacità di coinvolgimento invidiabili). I keynote, che si svolgono due-tre volte all'anno dal 1997, anno del ritorno di Jobs (e del rilancio di Apple), sono una sorta di messa cantata (terzo elemento) in cui il nostro sciorina i dati delle performance Apple e presenta le nuove creazioni. Numeri come sempre strabilianti: oltre 300 negozi Apple nel mondo, 140 milioni di iPhone, iPad e iPod Touch venduti, oltre 7 miliardi di app scaricate dall' Apple Store, al ritmo di 200 al secondo.
Il keynote fisicamente si svolge a San Francisco, ma tutti i giornalisti europei e gli evangelizzati Apple (qualcosa di più di semplici fans; questo quarto elemento rappresenta il più efficace strumento di divulgazione gratuita per Jobs e soci e che sostituisce milionarie campagne di advertising) vengono invitati in un grande teatro di Londra dove potranno assistere alla presentazione di Jobs in un mega schermo e provare direttamente i prodotti che sono stati presentati. E io a Londra c'ero.
Oltre ai nuovi modelli di iPod e del nuovo social network (Ping) legato ad iTunes di cui si è già molto parlato in giro, dal keynote sono venute fuori un paio di cose che segneranno la vita futura dell'azienda. E anche la nostra (quinto e ultimo elemento). Questa volta Apple non ha solo presentato alcuni prodotti cool , ma anche l'idea di un sistema complesso, in cui gli oggetti comunicano tra loro e diventano interscambiabili.
Il nuovo sistema operativo iOS 4.2 per iPod Touch, iPhone e iPad (già disponibile) permette, ad esempio, di poter stampare in modalità wireless da iPad con una stampante connessa in rete. Inoltre, grazie alla nuova tecnologia AirPlay, sarà possibile trasferire e riprodurre canzoni, immagini e film dal computer di casa verso tutti gli altri device Apple (iPad, iPhone e viceversa) rapidamente, tramite la rete wi-fi, senza più bisogno di cavi, anche sul televisore di casa. Jobs ha infatti presentato il nuovo modello di AppleTv, una piccola scatola che, collegata al televisore di salotto, si connette con gli altri prodotti Apple presenti nei paraggi per trasferire video e immagini e per noleggiare film in prima visione o episodi di serie tv. Tutto in wi-fi e in streaming hd. Questo accade negli USA e in molti altri paesi europei. In Italia solo da qualche settimana iTunes ha iniziato a noleggiare alcuni film nuovi (3,99€) e titoli di catalogo (2,99€). Una volta scaricato, il film (che può essere anche acquistato, da 7,99€ a 13,99€) è a disposizione per 30 giorni per una visione.

Thursday, December 02, 2010

 
SUPERCLASSIFICA SHOW

LINK MONO - Ripartire da Zero - Dicembre 2010

Negli anni Zero, il reparto marketing dei principali broadcaster ha influito, spesso in modo determinante, sulla creazione dei palinsesti e sulla nascita di molti programmi. Quindi l'associazione tra brand e tv show non è poi così peregrina.
Ricordiamoci però che il brand è qualcosa che nasce e si sviluppa nella mente delle persone e, in questo caso, dei telespettatori. Un brand si può definir tale se possiede caratteristiche (più percepite che effettivamente reali e conclamate) di unicità, originalità e riconoscibilità, indipendentemente dalla presenza di loghi o di una forte immagine coordinata. Non sempre poi i brand relativi agli show televisivi sono i programmi con l'audience più alta. E' certo però che anche lo share alto aiuta. Anche il coinvolgimento attivo dello spettatore televisivo rappresenta un'altra importante prerogativa che caratterizza i brand tv degli anni Zero.
Ogni programma tv inserito in questa personalissima classifica sarà accompagnato da un breve testo in cui si cerca di identificare ciò che lo ha trasformato in brand.

#1 GRANDE FRATELLO (Canale 5) 
- Reality killed the tv star - 
Per quarant'anni la citazione del “Grande Fratello” rimandava all'onnipotente leader invisibile di 1984, il romanzo di George Orwell; dal 2000, invece, il pensiero corre immediatamente verso il reality show prodotto da Endemol. E già l'avere influito così profondamente sull'immaginario e sui riferimenti iconici della cultura pop lo porta di diritto ad essere un brand. Oltre a questo, il Grande Fratello è stato il primo reality show della televisione italiana, il più longevo e popolare. Un brand mass-market, che ha portato la gente comune ad essere, per la prima volta, protagonista assoluta di uno show, senza troppe mediazione. Un brand che è uscito dalla tv e si è presentato su altri media e piattaforme con la stessa forza dirompente. Un brand, infine, che ha profondamente mutato il modo di fare tv e di costruire i palinsesti. Ma questa è un'altra storia.


#2 LOST (Fox, RaiDue) 
- Transmedia Storytelling -
Gli anni Zero sono stati il decennio delle serie tv. Lost, il prodotto televisivo più riuscito di J.J. Abrams, è il grande racconto che ha superato i confini televisivi e creato narrazioni parallele. Fenomeno di culto e, allo stesso tempo, un successo popolare.
Il culto è stato alimentato da meccanismi in cui lo spettatore viene coinvolto in prima persona e chiamato a rintracciare e decifrare segnali e collegamenti, innescando così un corto circuito tra fiction e realtà. Ad esempio, tramite alcune cross-promotion che hanno fatto vivere alcuni personaggi e simboli della serie (l'Oceanic Airlines, i numeri misteriosi, la rock band Driveshaft...) al di fuori del set dell'isola, gli autori hanno attivato uno strumento di comunicazione che ha incuriosito, coinvolto e fidelizzato gli appassionati della serie.
In Italia il successo popolare va ricondotto più ai buzz generati dai giornali e ai download sulla rete piuttosto che agli ascolti tv.

#3 AMICI (Italia 1 - Canale 5) 
- Rebranding e glocal brand -
Inizialmente il talent show, nato nel 2001 e ispirato al format originario inglese Pop Idol (ITV1), andava in onda su Italia 1 con il titolo “Saranno Famosi”. In seguito, per questioni legali legate ai diritti d'autore della serie tv omonima, il nome è stato cambiato in “Amici di Maria De Filippi” (conosciuto meglio però come Amici), mantenendo il font e il lettering dell'originale. Il rebranding ha coinciso con una forte differenziazione rispetto al format originale e globale, aprendosi ad una maggiore interdisciplinarità (anche ballo e recitazione oltre alla musica), a una minore invasività nella vita e una focalizzazione sulla vita scolastica dei ragazzi. Oltre all'originale stile di conduzione della De Filippi.
Tutto questo ha portato al grande successo popolare dello show che, oltre a lanciare nel music business italiano i vincitori del talent show, è diventato un'importante piattaforma per la promozione di molti brand di abbigliamento sportivo.

#4 ZELIG (Italia 1 / Canale 5) 
– L'industria della risata -
 Lo Zelig è un locale milanese, nato nella metà degli anni '80, che ha lanciato gran parte dei comici e cabarettisti degli ultimi due decenni. Alla fine degli anni '90 è diventato anche un varietà televisivo - prima su Italia 1 e poi su Canale 5 – che, anno dopo anno, cambiando varie location (dal locale di Via Monza fino al Teatro degli Arcimboldi) è cresciuto al punto tale da creare extension line tv (Zelig Circus e Zelig Off) e “invadendo” pacificamente le librerie (gli anni zero sono stati caratterizzati dal grande successo commerciale dei libri scritti dai comici), i teatri, le sagre e le feste di mezza Italia.
Come scrisse Aldo Grasso sul Corriere della Sera lo scorso gennaio “In «Zelig» non è il singolo comico che strappa la risata (succede anche questo), ma è la bottega che fa spettacolo, è il brand.”.

#5 HANNAH MONTANA (Disney Channel) 
- Teen Star - 
Hannah Montana e le altre teen fictions Disney hanno sostituito negli anni Zero i cartoni animati per il pubblico dei teen e pre-teen: l'obiettivo era quello di dare loro l'opportunità di essere essi stessi i veri protagonisti della storia, per soddisfare il loro bisogno di vivere in contesti reali, indipendenti dal mondo adulto.
Hannah Montana con il suo plot – il racconto della doppia vita della quattordicenne Miley Stewart che vive la vita di tutti i giorni a scuola senza svelare il proprio talento e la sua second life da artista – ne rappresenta l'archetipo perfetto. Un personaggio di fantasia, quasi trattato come una persona reale, una vera pop star che ha poi lanciato la carriera musicale di Miley Cyrus, l'attrice che interpreta la protagonista principale. Intorno alla serie tv sono stati organizzati decine e decine di concorsi per coinvolgere gli spettatori nello show e diventare protagonisti della sigla di apertura.
Da non dimenticare poi l'infinito merchandising generato dalla serie, ennesimo segnale che conferma la consacrazione della teen star.

#6 LA PROVA DEL CUOCO (RaiUno) 
- Fast moving consumer show(food) -
Durante gli anni Zero la cucina è stato uno dei temi più caldi delle televisioni di mezzo mondo. Negli States, come in Giappone o nel Regno Unito, i cuochi sono diventati le vere star dei palinsesti e i canali tematici per gastrofanatici sono spuntati come funghi nei bouquet digitali. “La Prova del Cuoco” è la versione italiana del format “Ready Steady Cook” trasmesso dalla BBC2, una competizione tra cuochi che devono preparare un menù completo con limiti di tempo e budget.
Il popolare successo della versione italiana è in parte anche dovuto all'allargamento del target ai bambini, grazie a canzoni e a codici estetici stile cartoon. La prova del Cuoco è uno dei casi commerciale più di successo per il licensing di Rai Trade: iniziative editoriali, operazioni di co-marketing con marchi alimentari e una linea di attrezzi da cucina sono alcune delle operazioni di successo implementate in questi anni.


#7 CHI VUOL ESSERE MILIONARIO (Canale 5) 
- The real Global tv brand – 
E' forse il quiz format più popolare di tutti i tempi: venduto in più di 100 paesi, trasformato in gioco da tavola e in videogame blockbuster. Sicuramente l'unico ad essere diventato protagonista (e non solo semplice placement) in un film da Oscar (The Millionaire di Danny Boyle, 2008). In Italia la conduzione rassicurante e amichevole di Gerry Scotti ha reso il già popolare format un importante traino per il tg della sera. Le frasi “L'accendiamo” e “Chiedo l'aiuto da casa/del pubblico” sono i nuovi “Lascia o Raddoppia”.
Per tutte queste caratteristiche risulta difficile trovare dei benchmark contemporanei di tale portata e notorietà, per cui siamo costretti a citare qui solo esempi del passato

#8 SANTORO (Raidue) 
- Star Strategy -
Santoro (il brand che corrisponde al giornalista Michele Santoro) rappresenta al tempo stesso il ribaltamento e la sublimazione della teoria ideata da Jacques Sèguèla all'inizio degli anni '80, secondo cui il brand per essere ben comunicato deve trasformarsi in una star, con un suo carattere, un suo modo di presentarsi, una sua identità.
In questo caso specifico è la persona a trasformarsi in brand: Santoro con la sua conduzione appassionata e volutamente “di parte” è stato capace in questi anni di mobilitare milioni di persone, di far passar in secondo piano il nome dei suoi programmi (qualcuno forse riesce a ricordarsi le differenze tra Il Raggio Verde, Sciuscià e AnnoZero?) e di creare il primo programma (Rai Per Una Notte) in streaming web grazie alle sottoscrizioni dei suoi sostenitori. Inoltre Santoro è riuscito anche a far parlare di sé e a creare awareness perfino con la sua assenza in tv.

#9 ROMANZO CRIMINALE (Sky Cinema) 
- La serie cinematografica – 
 Romanzo Criminale è la serie tv ispirata al romanzo di Giancarlo De Cataldo e al film omonimo diretto da Michele Placido che narra le vicende della Banda della Magliana nell'Italia degli anni 70. La serie diretta da Stefano Sollima è stata trasmessa su un canale tematico di cinema e preceduta da un battage pubblicitario unico nel suo genere, attraverso anche trailer, anticipazioni e altri strumenti tipici più del marketing cinematografico che televisivo.

#10 LE IENE (Italia Uno) 
– I viral che portano bene –
Tra i vari show di infotainment irriverenti e satirici trasmessi in Italia, Le Iene si è distinto, anno dopo anno, per la sua capacità di uscire dallo schermo televisivo. Ad esempio con l'operazione virale e di guerrilla marketing “le Iene portano bene”, ovvero magliette portafortuna da offrire ai giocatori di calcio per riti propiziatori, diventando una sorta di piccolo culto tra il difficile pubblico degli stadi.
Come se il riferimento del titolo dell'esordio di Tarantino o il look stile Blues Brothers dei suoi conduttori non fossero elementi sufficientemente di culto, per creare un brand tv pop e di successo.

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