EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Thursday, October 20, 2005

 
I gemelli 892? Si son fatti le ossa con John Travolta
Uno ballava nella Febbre del Sabato Sera, l'altro è campione italiano di boogie woogie

Vanity Fair - 27 Ottobre 2005

Un mix tra Sergio Japino ed Enzo Paolo Turchi, lo stereotipo del ballerino nei programmi tv dei primi anni Ottanta: zazzera bionda, baffi neri, denti a castoro e tutina rossa attillata. Ma chi sono i due ballerini della campagna 892 892, il tormentone che da luglio occupa i break televisivi, le pagine dei giornali e i muri delle città?
Dietro i trucchi di scena si celano in realtà due ballerini professionisti. Marco Bebbu (28 anni) e Filippo Buccomino (32 anni). Il primo è un veterano del musical made in Italy. Ha partecipato sia in veste di ballerino che di cantante a Jesus Christ Superstar, Sette Spose per Sette Fratelli e La Febbre del Sabato Sera. Il secondo è stato campione italiano di Boogie Woogie e di Swing Dance, ha partecipato come ballerino a diversi programmi tv in Rai e Mediaset e insegna danza Latino-Americana in una scuola di ballo milanese.
Nessuno dei due si aspettava un successo così clamoroso ma, grazie al trucco scenico e ai cloni che hanno girato questa estate per la promozione del servizio nelle spiagge italiane e adesso nelle principali città, non vengono fortunatamente riconosciuti per strada.
Il format della campagna (creatività Red Cell) riprende lo spot del 118 118 di The Number Uk (il servizio di informazione telefonico inglese che è gestito sempre dalla società americana InfoXXX la stessa dell’892 892). Nello spot inglese i due gemelli erano dei corridori. In Italia hanno preferito farli ballare.

Saturday, October 08, 2005

 
La Settimana Incom - Graffiti ad arte

La forza del segno nella mano di Keith Haring, icona pop alla Triennale di Milano

Il Foglio - Sabato 8 Ottobre 2005

Metropolitana di New York, inverno 1983. Keith Haring sta dipingendo un graffito sul muro. Una severa signora sessantenne lo guarda in modo sospettoso. Si avvicina e gli chiede “Giovanotto, ma per chi lo fa?” E lui, con sorprendente candore “Lo faccio per la gente. Vede, ci sono tanti colori. Dà allegria.” La signora guarda il graffito e cambia espressione. Lui le regala la sua spilletta, e lei se l’attacca al soprabito. Poco dopo arrivano dei poliziotti per arrestare Haring e si vede la signora prodigarsi a convincerli che, in fondo, un po’ di colore alla grigia subway newyorkese fa bene.
Questa breve scena estratta da uno dei documentari mostrati alla personale di Keith Haring a Milano - alla Triennale fino al 29 Gennaio - racconta meglio di mille dotte analisi, la semplice filosofia della “popular art” di Haring e la sua innegabile carica comunicativa. Traspare qui anche il suo modus operandi nel business dell’arte: per i suoi interventi negli spazi pubblici - tanti, dai bambini che si tengono per mano sul muro di Berlino, al grande graffito sulla East Harlem Drive di NYC intitolato "Il crack è una porcheria”, qui alla mostra ben documentati da fotografie e video - si prestava a titolo gratuito; i soldi arrivavano invece dalla vendite delle sue tele ai collezionisti e ai mercanti d’arte o dalle royalties sul merchandising.

La retrospettiva ripercorre attraverso cento dipinti, quaranta disegni, numerose sculture e opere su carta di grande formato la
sua decennale (dal 1980 al 1990) attività artistica. E’ interessante notare come ogni sua piccola manifestazione figurativa sia fortemente influenzata dall’arte occidentale medievale, dalla cultura africana e dalle icone precolombiane (Maya in particolare), ma ovviamente anche da Duchamp e dalla lezione pop di Warhol. A Haring non interessa spiegare il suo lavoro – le sue opere sono tutte “untitled” – ma la forza comunicativa del suo segno usato come scrittura non lascia spazio a dubbi: dalla gioia di vivere del suo “albero della vita” alle opere dove traspare una forte sfiducia e denuncia verso i mali del secolo (aids, minaccia nucleare) fino al divertissement puro come i tatuaggi sul corpo di Grace Jones o le statue in gesso del David di Michelangelo.
L’impressione che si ha vedendo questa personale è che il suo forte approccio pop, la frenesia instancabile e l'immediatezza della sua espressione se da una parte l’hanno incoronato come un’importante icona del suo tempo, dall’altra sono state un ostacolo per valutare appieno il suo talento. Questa retrospettiva gli rende giustizia.

Chi scrive ha avuto la fortuna e l’onore di vedere all’opera l’artista newyorkese. Era il Giugno del 1989 quando Keith Haring realizzò il murales intitolato “TuttoMondo” sulla parete posteriore della Chiesa di S. Antonio di Pisa (performance presente tra i filmati della personale). Spesso l’atto di esecuzione di un’opera può essere più interessante del prodotto finito. E’ questo forse il caso di Haring. La sua tecnica di performance era unica: partiva dai contorni in nero dei “bambini raggianti”, omini, cani ed altre figure frutto della sua fantasia, eseguiti con un pennellone nero. Linee precise, tonde e senza sbavature, ma con quel senso del movimento dato anche dalla musica hip-hop trasmessa dal ghetto blaster, lo stereo portatile suo fedele compagno creativo. Poi, quand’era il momento di colorare, la musica cambiava: al beat di Grandmaster Flash e alle rime dei Public Enemy si sostituivano le melodie suadenti delle colonne sonore di Walt Disney, così gli spray e le vernici colorate si alternavano come in una danza sognante. Saremo stati un migliaio di persone vocianti con la testa all’insù a vederlo, ma lui come in uno stato di trance creativa, continuava imperterrito la sua opera, salvo poi alla fine dedicare oltre un’ora a siglare con le sue icone gli oggetti più disparati, dalle banconote, alle t-shirt e ai gessi di gambe fratturate.
Otto mesi dopo ci lasciò.

The Keith Haring Show – Palazzo della Triennale, Milano – fino al 29 Gennaio.

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