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Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Wednesday, March 14, 2007

 
IL MIO NOME E' ROSSO

Il perchè del flop di "RED", la campagna di marketing umanitario per le cure anti Aids.


Il Foglio - Mercoledì 14 marzo 2007

L’idea pareva innovativa, la causa nobile e la task force di aziende e celebrities messa in campo di primissima scelta. L’iniziativa era stata presa lo scorso anno da Bono Vox - un tempo conosciuto come carismatico cantante degli U2, ora noto per essere (o credersi) salvatore dell’umanità e professionista delle cause solidali - che, dopo aver occupato le poltrone della Banca Mondiale, del WTO e del G8 per convincere le nazioni più potenti del mondo a cancellare il debito verso i paesi poveri, aveva deciso di unire, per la prima volta, il “consumo cool” alla beneficenza.
Così nel gennaio scorso era nata (RED), un’iniziativa globale di charity ma, soprattutto, un nuovo modello di business, che coinvolgeva alcune tra le più importanti aziende “iconiche” di questi anni (Apple, Motorola, Gap, Giorgio Armani, American Express, Converse): queste aziende si impegnavano a produrre edizioni speciali colorate di rosso dei loro prodotti di punta – iPod per Apple, t-shirt Gap, il cellulare Motorazr – e a donare una parte di proventi ad un fondo per combattere la lotta contro l’aids in Africa (per ogni iPod nano (RED) venduto a 199$, 10$ andavano a finanziare il progetto).
“Come consumatori privilegiati tutti noi abbia un enorme potere: con le nostre scelte collettive di consumo possiamo cambiare il corso della vita e della storia” recita il “manifesto” dell’iniziativa, e che prosegue. “Adesso abbiamo la possibilità di farlo. Noi crediamo che quando ai consumatori sarà offerta questa opportunità, se i prodotti soddisferanno i loro bisogni, allora sceglieranno i prodotti (RED)”.
La campagna quest’anno ha avuto una visibilità globale senza precedenti, anche perché, oltre alle aziende, sono state coinvolte decine di celebrità dell’entertainment: Oprah Winfrey ha offerto se stessa e il proprio programma come cassa di risonanza per promuovere l’iniziativa, l’attore Chris Rock in ogni apparizione mostrava il suo cellulare rosso e poi le foto di Ann Leibovitz che ritraevano Spielberg, Penelope Cruz e Jennifer Garner con le magliette rosse su tutti i principali magazine hanno fatto il resto (anche un noto femminile italiano regalava in allegato la borsa (RED) alle proprie lettrici).
Insomma, prodotti e testimonial desiderati, grandi visibilità, causa nobile e il culmine della campagna nel periodo natalizio, tutti prerequisiti per un successo annunciato. E invece.
Il settimanale americano Advertising Age ha fatto i conti della serva e ha dichiarato che a fronte di una spesa di cento milioni di dollari (cifra un po’ sovrastimata che include anche gli spazi offerti gratuitamente dal programma di Oprah), l’iniziativa (RED) ha ricavato solo 18 milioni di dollari. Bottino magro, magrissimo, nonostante lo spiegamento di forze. La sproporzione tra spese ed entrate in realtà, non rappresenta una minaccia tanto per l’iniziativa umanitaria che, in fondo, ha una finalità più ampia, quella cioè di cambiare il modello di business legato al marketing umanitario, traendo profitto dalla beneficenza, quanto per le aziende coinvolte.

L’articolo di AdAge, assai caustico e critico nei confronti dell’operazione, fa anche riferimento alle iniziative “contro” che (RED) ha scatenato in rete, come ad esempio quella del sito www.buylesscrap.org (compra meno merda) e che raccoglie una serie di iniziative di charity che non coinvolgono l’acquisto e il consumo. “Lo shopping non è la soluzione. Compra di meno. Dona di più.” è lo slogan che guida la loro campagna.

I responsabili delle aziende coinvolte, interpellate dal giornale, rispondono di non essere preoccupati perché (RED) non è la classica opera di beneficenza con un fine quantitativo ben definito da raggiungere: l’operazione ha, al contrario, un obiettivo a lungo termine di sostenibilità, termine che vuol dire tutto e nulla, ma che, in questo caso, significa introdurre nella testa delle persone una forma di coscienza e di consumo solidale “cool”, lontana dai vecchi stereotipi.
La causa dell’insuccesso a breve scadenza dell’operazione è forse da imputare alle persone che, bombardate continuamente da operazioni solidarietà e Telethon vari – rivelatesi spesso grandi truffe – sono sempre più scettiche e non riescono più a discernere.
L’impressione che si ricava è che, sempre più spesso, alcune aziende si approfittino di queste situazioni solo per proprie operazioni di “maquillage” e di immagine, magari nei momenti di crisi. Gap, i magazzini di abbigliamento casual, da alcuni anni stanno soffrendo la concorrenza e, non a caso, sono stati quelli che hanno investito di più nella campagna (RED) (circa 10 milioni). Più che di etica aziendale vale la pena parlare di rappresentazione dell’etica, che finisce per diventare un “prodotto” da comunicare, e che ha bisogno di un packaging per essere pronta all’uso. Sostanzialmente, un’etica da scaffale.

Saturday, March 10, 2007

 
La scatole di Eleven e il bazar brandizzato della città fuori moda

Il Foglio - 10 Marzo 2007


C’era un tempo in cui si andava in discoteca o in qualsiasi altra sala da ballo, appunto, per ballare. Un tempo in cui le gallerie d'arte si limitavano a mettere in mostra opere di artisti più o meno talentosi, in cui le librerie svolgevano il loro compito istituzionale, ossia vendere libri, e i saloni di bellezza avevano l’obiettivo dichiarato di trasformare il cliente in un essere umano esteticamente più gradevole e piacevole alla vista.
Quel tempo che tentava di darti delle piccole certezze nella vita di tutti i giorni, tranne rare eccezioni, non esiste più.
Vero è che il tempo libero a nostra disposizione si è drasticamente ridotto e quindi siamo obbligati a vivere in modalità multitasking, facendo cioè più cose allo stesso tempo e nello stesso luogo. Di conseguenza anche gli spazi si sono adeguati a questa nuova tendenza. Perciò capita di ritrovarci a prendere l’aperitivo dentro a un museo, comprare libri in una boutique e rischiamo pure di farci a tagliare i capelli mentre un celebre dj “suona” la sua musica.
Ma il consumatore ha sempre più bisogno di “nuove esperienze totalizzanti”, dicono quelli che si autoproclamano guru della comunicazione, e quindi siamo costretti a adattarsi a questi spazi ibridi e a queste situazioni che ormai sono comuni in tutte le città europee e italiane. Del resto, di questi tempi non c'è nessuna attività commerciale che possa prescindere da un'adeguata moltiplicazione dell'offerta: chi vuole essere sicuro di aver successo deve aver cura di proporsi con una veste primaria ben precisa, ma anche di sviluppare al suo interno una serie di altre attività, meglio se contrastanti e "spiazzanti". Polifunzionalità è la parola d’ordine. E in questo Milano non arriva seconda a nessuno.
Milano è da circa vent’anni che è alla ricerca di una propria distintiva identità. Città della moda o dell’arte? Del design o della tradizione borghese? Dell’happy hour o della creatività? A dire il vero, Milano oggi è un po’ tutto questo, ma nessuna peculiarità svetta sulle altre. Ecco che questa mancanza di personalità o di tratto caratterizzante trova il suo luogo eletto nella “location” e nello spazio polifunzionale.
Scatole vuote, ma flessibili, che si adattano perfettamente a qualsiasi evenienza. Una sorta di non luogo, un ambiente zelig pronto a trasformarsi per qualsiasi workshop, open day, show room, summit, shooting, dinner party, exhibition o qualsiasi altra cosa che abbia un nome in inglese.
Ad esempio uno degli ultimi nati in questo senso è “11” (da leggere ovviamente “eleven”) ubicato in Via Tocqueville nella zona di Corso Como. Lo spazio si dipana su tre piani: il pianterreno e il seminterrato sono un enorme show room messo a disposizione delle aziende che vogliono mostrare i loro prodotti. Un bazar fighetto in cui sono esposti dai capi d’abbigliamento fashion ai libri di design, dalle bottiglie di vino ai televisori al plasma. Le aziende che vogliono esporre la propria mercanzia nello show room, perfezionano una specie di contratto di affitto mensile o bimestrale per l’occupazione di un certo numero di metri quadri , decidendo se vendere il prodotto o esporlo solamente. Ovviamente nella vetrina, considerato il posto in cui si trova (praticamente di fronte alla discoteca Hollywood), non può mai mancare il macchinone o la moto di grande cilindrata, anche se si possono trovare esposti quadri di artisti emergenti. Al piano di sopra invece si trova il locale che fa sia da aperitif bar che da music bar dopo cena. Anche in questo caso il locale si presta ad essere trasformato, plasmato, “brandizzato” (ebbene sì!) a seconda dell’evenienza e del cliente che lo affitta.
La location, con il suo forte senso di precarietà ma, allo stesso tempo, di efficienza formale, con la sue essenza di ambiente in continuo mutamento e trasformazione per seguire l’ultima moda, rappresenta la metafora perfetta di questa Milano alla ricerca di sé stessa.

 
ARTI COLLATERALI

Sedici creativi spiegano perchè, nell'ultimo decennio, cinema e televisione si sono trasformati in una visione a cui non serve più neanche una cinepresa


IlFoglio - 10 Marzo 2007


Collateral è il titolo di una delle pellicole più belle degli ultimi anni. Il film del 2004 di Michael Mann racconta la notte di un tassista di colore (interpretato da Jamie Foxx) che viene ingaggiato da un misterioso passeggero, Vincent (Tom Cruise, al suo meglio) perché lo porti in giro tutta la notte, in cambio di un lauto compenso. Max diventa involontariamente complice di un killer professionista, che lo costringerà ad accompagnarlo nel suo giro di omicidi - sei testimoni collegati ad una inchiesta su un gruppo di narcotrafficanti - e con il quale dovrà collaborare quando la situazione si farà critica. Michael Mann descrive magnificamente questi due personaggi “collaterali” – il tassista buono e fifone e il killer freddo e spietato– due facce della stessa medaglia che vogliono raggiungere lo stesso obiettivo, quello di finire la nottata e la missione, evitando “effetti collaterali” come la morte di innocenti o altri incidenti.
Un film che grazie alla splendida fotografia notturna di Los Angeles, ai dialoghi asciutti e alle interpretazioni superlative è già diventato un culto.
Ed è proprio sull’immaginario da cult movie che si muove “Collateral - Quando l’Arte guarda il Cinema” la mostra che è rappresentata in questi giorni (e fino al 15 marzo) all’Hangar Bicocca di Milano. Collateral è la prima mostra italiana - ma dalle ambizioni internazionali - che si propone di sondare in modo approfondito gli aspetti che legano il cinema all’arte: sedici artisti attraverso le loro videoinstallazioni sono intervenuti su alcune sequenze di film cult, su alcune star o sui loro gesti per proporre una rilettura originale e, appunto, collaterale o intervenendo direttamente sull’essenza della materia cinematografica e su tutti i processi connessi (la rappresentazione, la proiezione ecc..).
La mostra è “collaterale” anche perché non è impresa semplice dare un’univoca e precisa collocazione agli artisti presenti, i quali si pongono in una zona di confine tra due sistemi: per la modalità di esposizione, partecipano a quello delle arti figurative, mentre per il linguaggio utilizzato a quello dell’arte cinematografica.


La mostra è sostanzialmente una riflessione sul cinema e, soprattutto, su come quest’arte viene oggi percepita dalle nuove generazioni artistiche. Gli artisti presenti in Collateral – nati tra la fine anni Sessanta e i Settanta - appartengono alla generazione dei tv kids, vissuta e allevata con la televisione e il videoregistratore a portata di mano (così come quella di oggi con la playstation e il pc): per loro smontare e rimontare le immagini cine-televisive è sempre stato un gioco semplice e affascinante. La televisione ha segnato in modo decisivo il loro immaginario e il cinema se da una parte con il suo linguaggio ha fortemente influenzato la formazione visiva ed estetica di questi artisti, dall’altra non è stato mai vissuto come intrattenimento narrativo bensì come un elemento da desacralizzare, come un mezzo artistico d’espressione personale, un colore di una virtuale tavolozza comunicativa. “Il cinema, in effetti, si presta per sua natura a essere frantumato” spiega Adelina von Fürstenberg, curatrice della mostra “Un film consiste nel montaggio delle singole immagini che, accostate in sequenze, danno un senso al racconto. Procedendo al contrario, le sequenze possono essere smontate e riassemblate in un altro contesto. Attraverso questa operazione di decontestualizzazione gli artisti video presenti in Collateral passano all’esame i film come se avessero dinanzi una sorta di linguaggio e intervengono su di essi destrutturandolo con vari mezzi retorici: lo spostamento, lo slittamento, l’accostamento e la giustapposizione, il rovesciamento, il misunderstanding ironico, la serialità ecc. Il risultato è la trasposizione dell’immagine filmica su di un piano in cui opera uno sguardo astratto, spassionato, non emotivo.”
Una mostra che qualche anno fa avremmo definito “post moderna”, ma evidentemente questa parola – chiave fino a ieri per definire la contemporaneità – deve essere tremendamente fuori moda considerato che sia alla presentazione stampa con gli artisti sia nel catalogo si evita accuratamente di citarla o menzionarla.
Le opere di found footage - così viene definita la tecnica di reimpiego di sequenze altrui provenienti da filmografie o da qualsiasi altro repertorio di riprese – si possono considerare un filone del cinema d’avanguardia che nasce negli anni Trenta negli USA con il film “Rose Hobart” (1936) di Joseph Cornell. Da allora, le pratiche del film e dei video di montaggio, cioè quelle opere che nascono collegando spezzoni provenienti da diversi film, si sono diffuse creando molteplici approcci progettuali e teorici. Negli anni Sessanta la tendenza si massifica con il cinema underground e sperimentale con autori come Bruce Conner (“A Movie”) e negli anni Settanta con il cinema “a larga distribuzione “ con “F come Falso” (F is for Fake) di Orson Welles. Negli anni Ottanta il found footage trova nei video e nella televisione il mezzo ideale di espressione: ecco che arrivano le trasmissioni indipendenti (“10 vor 11/10 to 11” ) di Alexander Kluge alla tv tedesca che mescolano interviste di real tv, immagini repertorio della Germania Nazista, documentari e film hollywoodiani, pubblicità e aggiornamenti giornalistici fuori-sincrono scanditi da un ritmo irrefrenabile, sottolineate costantemente dall’icona di un orologio le cui lancette corrono all’impazzata. Anche in Italia le puntate più sperimentali di Blob, il programma di RaiTre ideato da Enrico Grezzi e Marco Giusti, si rifanno alle tecniche del found footage e agli insegnamenti teorici di Walter Benjamin sull’immagine riproducibile e alla déconstruction di Jacques Derrida.

Ma è attraverso la visione e l’analisi delle singole opere esposte in Collateral che si riesce meglio a capire le intenzioni degli artisti i quali, potendo accedere direttamente ai materiali cinematografici manipolandoli più o meno liberamente, hanno avuto la possibilità di misurarsi con il mito e la tradizione cinematografica reinventandone le suggestioni, le finalità e l’orizzonte espressivo.
Le tecniche della combinazione e la sovrapposizione sono forse quelle che riescono più visibilmente nell’intento, come ad esempio nelle opere di Thomas G e di Carola Spadoni. Nella prima - “Inches” (2005) - le immagini silenziose di soldati americani – tratte da “La Sottile linea rossa” di Terence Malick – sui quali incombe la sconfitta della guerra in Vietnam, sono sovrapposte con il monologo di incitamento alla vittoria recitato da Al Pacino, allenatore di football in “Ogni maledetta Domenica”: i soldati pensosi e chiusi in loro stessi vengono così trasformati in ascoltatori di un ode all’obbedienza e al coraggio, in tal modo viene chiaramente rappresentata la dialettica tra la violenza sociale imposta e la fragilità umana. In “Live through this” (2006) le intense immagini della scena d’amore di “Zabrinskie Point” di Michelangelo Antonioni riprese ad una proiezione cinematografica con una videocamera (e che quindi simula lo sguardo dello spettatore) sono alternate ad immagini della folla di spettatori a un concerto che pare incantata di fronte alla liveness sudata e giocosa della coppia. Oppure come in “The Jungle Book Project” (2002) di Pierre Bismuth dove ciascun animale del celebre film di animazione Disney è doppiato in un lingua diversa, rappresentando così la metafora di globalizzazione e multiculturalità e, al tempo stesso, una riflessione sulle convenzioni percettive del cinema.

Altre opere esposte in Collateral sono collage (sullo stile del blob ghezziano) di sequenze di cult movie montate in modo tale da generare un nuovo significato, come “Star Tricks” (1996), un video composto da circa quattrocento spezzoni tratti da sessanta film di fantascienza, spot, documentari e cartoni animati che rappresentano lo stereotipo del viaggio nello spazio come “fuga della realtà” o come il premiatissimo Kristall, il video di Christoph Grardet e Matthias Muller basato su un assemblaggio di sequenze di film degli anni Quaranta-Sessanta in cui sono ripresi uomini e donne riflessi allo specchio.
Ma forse le opere più interessanti sia artisticamente che concettualmente, sono quelle in cui si viene a creare un cortocircuito tra realtà, rappresentazione e memoria, tra storia e messinscena, tra i protagonisti reali e gli attori del video.
“Quel pomeriggio di un giorno da cani” il film di Sidney Lumet del 1975, racconta la storia realmente accaduta a John Wojtowicz (che nel film diventa Sonny Wortzik, interpretato da Al Pacino) che rapinò una banca per pagare il cambiamento di sesso al proprio compagno gay. In The Third Memory (1999) di Pierre Huyghe, il vero protagonista della rapina ricostruisce i fatti negli ambienti della finzione dove Lumet girò il proprio film: in questo modo l’autore del fatto reale prende la parola e, nel luogo della messa in scena, diventa l’attore della propria storia e memoria. Più o meno lo stesso meccanismo accade anche in “Spielberg’s List” (2003) di Omer Fast, un video composto dai ricordi delle persone che hanno partecipato come comparse alla produzione del film “Schindler’s List”: le comparse raccontano l’esperienza vissuta durante il film, quasi come se questo fosse l’evento storico e non una rappresentazione.
La videoinstallazione è composta da due schermi su cui passano immagini identiche e le stesse voci ma che differiscono dai sottotitoli che richiamano da un lato il film e dall’altro i fatti accaduti. Il film (e, quindi, il cinema) viene visto come un’estensione dei fatti storici rappresentati, una sorta di protesi che attualizza e corregge il passato in vista dell’uso e consumo contemporaneo.

Come il Dia Beacon di New York e la Tate Modern di Londra anche lo spazio dell’Hangar Bicocca è un tipico esempio di stabilimento industriale (appartenuto al Gruppo Ansaldo per la produzione di bobine per motori elettrici ferroviari) riconvertito a centro d’arte contemporanea internazionale, con i suoi spazi ampi e suggestivi da officina produttiva delle arti, si presta particolarmente bene a questo tipo di esposizioni.


Le videoinstallazioni sono state allestite dall’architetto greco Andreas Angelidakis in una sorta di caverna di Platone - uno spazio dove, secondo la tradizione filosofica greca, una luce magica proiettava ombre di idee creando oggetti fisici: sono delle stanze che assomigliano a televisori e monitor dei computer dove è possibile visionare i filmati senza creare quelle fastidiose code o resse che di solito si formano in questo tipo di mostre. Tale allestimento ci fa ancora una volta apprezzare quella “magia” che si crea all’interno della sala cinematografica e che rende unica l’esperienza della visione di un film.
Il tema dell’invisibilità, delle ombre che vagano nella sala oscura e dei fantasmi che si liberano durante la proiezione di un film sono suggestioni sempre presenti nelle opere di Collateral. “The Invisibile film” in questo senso è, forse, il video più rappresentativo dell’intera mostra – non per niente è anche il manifesto e la copertina del catologo: l’opera di Melik Ohanian del 2005 consiste nella proiezione nel deserto di “Punishment Park”, cult movie di Peter Watkins censurato per venticinque anni negli USA. Il film in questione era una dura allegoria dell’America di Nixon, un road movie – tra documentario e fiction - che narra la fuga nel deserto di tre obiettori di coscienza inseguiti dalla polizia. L’opera di Ohanian è sostanzialmente basata sull’inquadratura fissa della macchina che proietta il film nel deserto: l’audio metallico del film, la polvere sollevata dagli strali di vento e l’ambiente che progressivamente diventa sempre più buio sono gli unici eventi di un film del tutto invisibile. La visione che si perde nel nulla sta quindi a significare l’indifferenza per la denuncia contenuta nel film. Il segno di una fine, ma anche di un nuovo inizio.

Thursday, March 08, 2007

 
PUBBLICITA' E CENSURA ALLA STAZIONE TERMINI

Una mostra per tutti i casi "D&G" che scuotono il mondo degli spot


Il Foglio - 8 marzo 2007


Si dice che le pubblicità che vediamo in tv o sui giornali riescono a rappresentare in modo strumentalmente veritiero i valori e le “modalità espressive dominanti” della società (e l’ultima – “scandalosa” per i più - campagna stampa di Dolce&Gabbana, quella criticata per “poco rispetto” verso le donne non è che l’u non è che l’ultimo esempio). Cosa dovremmo dire allora delle pubblicità che non vediamo, quelle bloccate o bocciate dalle autorità competenti per difendere la sensibilità del pubblico e del consumatore?
E se le campagne campagne non approvate dalla “giustizia pubblicitaria”, paradossalmente, riuscissero ancor meglio a raccontare la storia del costume italiano e del comune senso del pudore?
A questo devono aver pensato quelli dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) che in occasione dei 40 anni di attività hanno deciso di esibire quello che fino ad ora non era stato mostrato o era apparso solo per un breve periodo di tempo: una cinquantina di manifesti e spot esaminati dal Giurì e ritenuti indecenti o bugiardi o fastidiosamente ammiccanti e, quindi, non idonei a essere mostrati in pubblico.
La mostra (“Pubblicità con Giudizio” da oggi fino al 31 marzo all’interno della Stazione Termini di Roma) evidenzia l’evoluzione della sensibilità, della creatività e dei mutamenti della società italiana dal 1966 ad oggi. “In tutti questi anni” commenta Vincenzo Guggino, segretario generale dell’IAP, “l’attenzione si è spostata dalla cosiddetta indecenza, dall’uso della sessualità alla difesa del consumatore e della dignità della persona. Nel tempo il sesso e il nudo sono stati sempre più accettati, è cresciuto invece il lavoro in difesa dei minori e della persona”.

Vediamole, queste campagne. Il sesso innanzitutto, o meglio, l’ “erotizzazione” della merce attraverso il corpo femminile: burrose mozzarelle, ammiccanti gelati al lampone e altri derivati del latte rappresentati da invitanti forme di seni femminili, oppure la bottiglia di birra posta tra le gambe di una procace bellezza latina affiancata dalla slogan “Fatti una cubana”.
Ma guai a parlare di censura, dal momento che - dicono gli esponenti dello IAP - i limiti sono tracciati da chi questo messaggio lo produce (lo IAP è composto sia dalle aziende che investono sia dai pubblicitari). L’obiettivo è quello di difendere l’utente dalla proliferazione di modelli devianti: non solo immagini scabrose, ma anche vere e proprie truffe. La sezione “Credere o non credere” è una fantastica rassegna di trappole, inganni e falsità (“non indurre in errore i consumatori” recita come un comandamento il codice del Giurì) che non tendono a diminuire, anzi, con l’avvento della pubblicità che permette di comparare più prodotti dello stesso genere, i casi di annunci che “denigrano attività, imprese e prodotti altrui” sono moltiplicati (come quelli di Ryanair che, in più occasioni, mettono in ridicolo il competitor Alitalia). Per non parlare dei miracoli tricologici e delle comunicazioni sulle tariffe telefoniche. Altre sezioni sono dedicate alla cattiva pubblicità delle bevande alcoliche non propriamente ispirata dalla misura e dalla responsabilità e agli eccessi blasfemi. In quest’ultima sezione (“Scherza coi fanti”) dedicata al rispetto della sensibilità religiosa, Oliviero Toscani la fa da padrone con il sedere sexy dei jeans Jesus (“Chi mi ama mi segua” - 1974) e con la foto del bacio in bocca tra la suora e il prete scattata per Benetton. Poi c’è il puro trash, la voglia di stupire e di farsi notare (“Colpire l’occhio”); qui la creatività italiana diventa insuperabile, roba da massacrare il Moige in un colpo solo. Dal corriere del Varesotto che per comunicare l’affidabilità del servizio (“il pacco è in buone mani”) mostra in primo piano il gesto scaramantico, alle immagini pulp per pubblicizzare le console dei videogiochi.
Ad ogni annuncio esposto nella mostra sono associati gli estratti delle motivazioni dell’accusa, della difesa e del Giurì. In alcuni casi le agenzie pubblicitarie, dopo il parere negativo dello IAP, tentano di correggere il messaggio bocciato, come nel caso della pubblicità di Ciao Crem (la crema al cacao spalmabile che negli anni ‘70 cercò di fare concorrenza alla Nutella). Nell’ultima sezione della mostra, quella dedicata ai bambini, viene esposta sia la prima versione della pubblicità con il bimbo imbronciato che ricatta “O mi dai ciao crem o non mangio” sia la seconda (questa volta approvata) con lo stesso bambino che esultante urla “Mamma sei forte, mi hai dato ciao crem”.
Di certo la prima era ben più efficace.

Tuesday, March 06, 2007

 
LA BANDA DEL BUCO / HI-TECH

Style Magazine - Marzo 2007

Ascoltare la musica divide. Due gli schieramenti in campo: chi usa il pc perchè ci sta tutto dentro, e chi non vuole sapere di abbandonare il suono e il "cerimoniale" dell'ellepì. In mezzo? Il giradischi che trasforma le vecchie tracce in mp3. Fruscii compresi.

Keith Richards, il chitarrista dei Rolling Stones, sostiene che la musica sia incorporea, evanescente e che flutti nell’aria. Al contrario, altri musicisti – dal produttore Phil Spector, creatore negli anni 60 del “muro del suono” fino al nuovo talento americano Sufjan Stevens – amano pensare alle sette note come a qualcosa di fisico, che ha una sua consistente materialità. Due modi diversi di concepire la musica che, in realtà, si ritrovano anche tra gli ascoltatori, al punto da formare due differenti “tribù” d’ascolto
Da una parte ci sono quelli che hanno delegato la riproduzione della musica al proprio computer di casa e a quell’immensa discoteca on line che è la rete. Radio on line, podcast o condivisioni di file mp3 con altri utenti internet. Per la tribù digitale ogni supporto fisico (cd, cassetta, vinile) rappresenta un inutile orpello il cui contenuto deve essere immediatamente trasformato in file mp3 per renderlo invisibile, leggero e facilmente catalogabile.
“Dal momento che passo la gran parte del giorno davanti al computer cerco, per comodità, di condensare tutto lì dentro. La musica è stata la prima, succederà presto anche con la tv” racconta Luca Sofri, giornalista e autore di “Playlist” (Rizzoli), una guida sulle migliori canzoni da scaricare “La gestione della musica attraverso il computer è estremamente facilitata, personalizzabile e, soprattutto, ti permette di risparmiar tempo. E per chi, come me, è ormai abituato a fare molte cose insieme, rappresenta un enorme vantaggio”.

Dall’altra parte ci sono quelli che hanno bisogno di avere un rapporto fisico, tattile e, talvolta, “di qualità” con la propria musica preferita. La tribù degli “audiofili feticisti” è composta ad esempio da coloro che non hanno mai abbandonato il rapporto con il proprio piatto e con i dischi in vinile.
Il mercato del vinile che negli ultimi decenni è stato mantenuto in vita esclusivamente dai dj, sta vivendo una seconda giovinezza: le major discografiche hanno ripreso a produrre copie ad edizione limitata di alta qualità (180 grammi) in vinile dei dischi più importanti in uscita e su eBay si possono trovare aste di 45 e 33 giri fino a 1000 euro.
La passione per il vinile non è data solo dalla qualità della musica (“La massima espressione dell’ascolto in vinile è ancora superiore al miglior impianto digitale” sostiene il fotografo Giorgio Colombo, appassionato audiofilo), ma anche dal “cerimoniale” che è andato perduto con l’avvento della tecnologia digitale: l’apertura del disco, i gesti delle mani per evitare di toccare il vinile, il tocco della puntina sul disco e la possibilità concreta di vedere “da dove esce il suono”. Per ricreare quest’atmosfera e ritualità, due storici dj italiani – Luca De Gennaro e Francesco Roccaforte – hanno ideato una serata chiamata “UnPiattoSolo” in giro nei club milanesi (ora alla Triennale Bovisa di Milano) dove suonano un disco alla volta con un piatto Lenco L78 vintage. “L’idea” racconta Roccaforte a Style “era quella di tornare ad una situazione primordiale, domestica, restituendo importanza alle canzoni, valorizzando anche le pause tra un disco e l’altro”. Dal successo delle serare è nato un programma radiofonico cult su RadioDue Rai.
Ma la tecnologia ha l’obiettivo di connettere e non dividere: perciò la ION ha creato un piatto che permette di trasferire i suoni del vinile in mp3, attraverso un attacco usb. E le tribù si uniscono.

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