EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Saturday, January 21, 2006

 
Il proporzionale cambia la pubblicità politica

Il Cav. fa da sé, Mastella fa rima con Nutella, Fini e Casini s'attardano

Il Foglio - 21 Gennaio 2006

“When the going gets tough, the tough get going” dicono gli americani, ed è in queste settimane che precedono l’apertura della campagna elettorale politica italiana che i duri cominciano a giocare. In assenza di vincoli di legge e di limiti dettati dalla par condicio si riesce a capire meglio quelle che saranno le tattiche, gli approcci, e le strategie di comunicazione delle coalizioni, o meglio, dei partiti.
Con la nuova legge elettorale proporzionale non si voterà più la coalizione, né esprimeremo alcuna preferenza per il candidato ma, semplicemente, apporremo una croce sul simbolo del partito. Cose risapute, ormai. Ma neanche poi così scontate se il Presidente della Camera, nonché leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, si stupisce ancora, indispettendosi, di fronte alla condotta a tutto campo di Berlusconi che “è andato avanti come se gli alleati non ci fossero”. E’ semplicemente l’effetto della proporzionale, dove la tattica “tutti contro tutti” ha la meglio sui giochi di coalizione.
Il marketing politico sta subendo una rivoluzione in progress rispetto a ciò a cui siamo stati abituati in questi ultimi dodici anni, laddove era la personalizzazione di campagne elettorali verso i leader delle coalizioni a risultare prioritari. Questa volta le campagne elettorali privilegeranno il partito, quindi il simbolo, avranno una copertura nazionale e non locale e, soprattutto, assumeranno l’aspetto di una vera e propria comunicazione pubblicitaria: il partito da votare altro non è che un brand da vendere che racchiude in sé valori e princìpi, che vengono sintetizzati da slogan (claim) efficaci e di forte impatto.
A vedere i primi simboli che i partiti stanno presentando in questi giorni, si nota però l’adozione di una tattica che guarda ancora al passato: il simbolo elettorale di An, quello dell’Udc e dell’Udeur riportano, insieme al logo del partito, anche il nome del proprio leader, soluzione che adottarono i Radicali con la Lista Pannella nei primi anni Novanta.
Da un punto di vista marketing il fenomeno è piuttosto interessante perché, facendo un parallelo con i marchi commerciali, è come se all’interno del brand ci fosse anche la firma del testimonial, come successe negli anni Settanta nell’abbigliamento sportivo con marchi come i completi per il tennis Fila - Bjorn Borg o le scarpe Adidas - Stan Smith. L’accostamento tra brand e simboli di partito non deve sembrare azzardato se lo stesso Clemente Mastella durante la presentazione del simbolo dell’Udeur ha dichiarato di aver inserito il proprio nome “perché fa rima con Nutella, una cosa usuale per gli italiani”. Fini e Casini dovranno quindi trovare altri appetitosi prodotti di largo consumo da spartirsi (grissini?, Pavesini?, Sofficini?).
Se nelle scorse elezioni i capi delle coalizioni chiamarono dagli Stati Uniti dei consulenti specializzati nelle campagne dei candidati americani per capire le strategie di comunicazione sui leader, questa volta i partiti potranno trovare delle valide indicazioni su come “vendere” il proprio simbolo direttamente dalle agenzie pubblicitarie che in genere operano sui prodotti di largo consumo. L’obiettivo, in questo caso, sta nel fidelizzare l’elettore: in questi dodici anni di maggioritario il senso di appartenenza ai partiti, tranne rare eccezioni - come ad esempio nella Lega o in Rifondazione Comunista – si è molto indebolito tra l’elettorato, saranno perciò necessarie delle campagne di impatto e fortemente persuasive.

Il successo della comunicazione di un partito si giocherà in buona parte sugli spot, sui messaggi, sui linguaggi usati e sulle metafore che meglio sapranno descrivere la realtà ma, ovviamente, tutto ciò non basta. Come sta accadendo per molti prodotti, i casi di successo sono quelli che hanno avuto campagne pubblicitarie così originali e d’impatto da aver scatenato un meccanismo virtuoso di passaparola all’interno di alcune categorie di consumatori. Anche nel caso delle campagne elettorali lo scambio di opinioni tra le persone e la formazione di reti fisiche o virtuali (attraverso ad esempio i blog o la creazione di mailing list ad argomento politico) possono essere dei validi strumenti per amplificare l'invito all'acquisto del prodotto "lista elettorale".

Wednesday, January 18, 2006

 
Nuovi dilemmi metropolitani - Gli Yindie

Comma 22. Se vuoi essere alla moda non devi seguire troppo le mode.


Il Foglio - 18 Gennaio 2006

In principio erano gli yuppies. Negli anni Ottanta erano i nuovi emergenti della borghesia d'assalto, con tutti gli stereotipi del caso: rampanti, edonisti, esibizionisti e schiavi degli status symbol. Poi, nei tardi Novanta arrivarono i Bobos (crasi linguistica per bourgeois bohemiens, ideati dall’editorialista del New York Times David Brooks): alternativi, impegnati in professioni creative molto remunerative, idealmente ecologisti, indifferenti al denaro ma che si circondavano di cose belle e costose legate alla tecnologia e alla casa, generalmente casali di campagna restaurati o loft ubicati in zone urbane emergenti. In sintesi una versione rivista e corretta dei radical chic.
Questa volta i sociologi, gli uomini di marketing o, più semplicemente, i giornalisti di costume che devono riempire le ultime di cronaca dei quotidiani, hanno trovato una nuova categoria urban-metropolitana da raccontare, quella degli Yindie.
Yindie è appunto un mix tra yuppie e indie (da independent, così vengono chiamati gli amanti di musica, film, luoghi e consumi alternativi, solitamente anticipatori di fenomeni modaioli) e rispondono alle seguenti caratteristiche: 20-35 anni, benestanti, che vivono in caotici centri urbani e sono sempre vestiti all’ultima moda, quel trasandato casual chic arricchito da esosi accessori come la borsa per la donna o la scarpa da ginnastica firmata dallo stilista di grido in edizione limitata per lui.
Gli “alternativi fighetti”, perché in fondo di questo si parla, non sono certo una novità, anzi vengono da molto lontano. Chi in adolescenza non ha mai incontrato il figlio di papà che, per essere accettato dal gruppo dominante del liceo, uscendo di casa nascondeva il maglione di cachemire o le College per indossare il jeans strappato o l’anfibio, e che alternava le partite di tennis con gli amici di famiglia alle occupazioni con i cani al centro sociale? Una doppia identità non sempre ben celata - non è facile essere degli Zelig – e che ha generato una o più generazioni di insicuri.
Nel frattempo gli yindie sono cresciuti, il cotè ideologico, se c’era, si è perso per strada, il conto in banca è cresciuto ed è rimasta la voglia di essere alternativi e cool e di avere gusti, consumi e comportamenti differenti ma, soprattutto anticipatori, rispetto alla massa.

Il senso di appartenenza alla categoria degli yindie rappresenta un elemento di criticità: chi fa parte di questo gruppo, infatti, non vuole ammettere di farne parte, perche' appartenere ad una classe codificata da altri non è cosa di cui vantarsi. Quindi essere yindie è cool, ma non devi essere yindie se vuoi essere cool. La scorsa settimana l’Independent ha pubblicato un ironico test per capire quanto di “alternativo fighetto” alberga nei propri lettori. In Inghilterra c’è quello che chiede al cameriere un “un tramezzino senza pane" desiderando ordinare un’insalata e c’è chi preferisce non andare a vedere un film se prima non ha letto tutte le recensioni dei propri giornali di riferimento per farsi un’opinione e anche quelli popolari, per poi pensarne il contrario. In Italia ci sono quelli che hanno ascoltato ed osannato band come i Kaiser Chief o i Franz Ferdinand fino a quando non sono stati notati dai LuzzatoFegiz di turno o invitati al programma dalla Ventura: le stesse persone, da quel momento in poi, hanno cominciato un con disprezzo. E la stessa cosa avviene per i gusti cinematografici (con gli amatissimi Sofia Coppola e gli Anderson), nei libri (Eggers, Ellis) o nella moda.

Gli Yindie, italiani e non, sono perennemente ossessionati dal pensiero che i loro comportamenti e atteggiamenti siano o non siano abbastanza cool o anticipatori, in una sorta di versione aggiornata e modaiola della smorfiosa insicurezza morettiana del “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Ma la tecnologia in questo caso viene loro incontro: grazie al cielo ci sono i blog che rappresentano per la generazione fighetta indipendente un territorio ideale: un media autoreferenziale e ombelicale all’interno del quale si creano delle comunità legate a gusti e affinità che continuamente si autoalimentano e si autocelebrano. O forse anche il blog è diventato troppo popolare?

Monday, January 16, 2006

 
Un nuovo mito: navigare bene

Oggetto del desiderio del 2006, tipicamente maschile, il GPS va a ruba. Sarà grazie alla voce sensuale o all'effettiva necessità di possederlo?

Style Magazine - Gennaio/Febbraio 2006


Il mondo si divide tra chi possiede il navigatore satellitare e chi non ce l’ha.
Come dire: la tecnologia è riuscita a dare una risposta alle tare e ai nostri problemi quotidiani: la paura dell’ignoto, la preoccupazione di perder tempo e l’atavico odio per le mappe stradali, sconfitte in un colpo solo da un piccolo schermo collegato ad un satellite ancorato tra le stelle.
Se l’appuntamento con gli amici è al ristorante fuori porta o in una casa situata nella via privata seminascosta nel centro città, si capisce immediatamente chi sarà colui che non si perderà o sbaglierà strada. Per chi possiede il GPS (acronimo di Global Positioning System) basterà inserire il nome della via e il numero civico nel navigatore ed una voce, che con il passare degli anni si è fatta sempre più dolce e suadente (i primi modelli in commercio sette anni fa sembravano realizzati da una nazista tedesca con tendenze sado-maso), lo guiderà alla destinazione prescelta. Del resto, si sa, il GPS è oggetto tipicamente maschile, anche se solitamente è la donna la navigatrice della coppia, colei che sfoglia cartine e chiede indicazioni ad ignari passanti.

Passata la fase dello status symbol, il navigatore satellitare è diventato ora un indispensabile strumento per chi è costretto a muoversi in luoghi sconosciuti, ma lo comprano anche coloro che hanno come unico tragitto casa-ufficio quasi fosse una rassicurante "coperta di Linus". Per questo è il nuovo oggetto del desiderio, specialmente adessoche è integrato al cellulare e quindi utile anche per chi si sposta a piedi o con i mezzi a due ruote.

Update: il mondo si divide tra chi ha il GPS, chi non ce l’ha e chi ce l’ha ma non è aggiornato: i piani urbanistici delle città cambiano e si alternano come le stagioni e può capitare che una via, fino a pochi mesi fa a doppio senso di marcia, si sia trasformata in senso unico: ecco che i “navigati” da GPS non aggiornati, guidati dalla sensuale voce femminile e, il più delle volte, incuranti dei cartelli stradali, possono trasformarsi nel pericolo pubblico numero uno del traffico cittadino.

Tuesday, January 10, 2006

 
Lost, il serial più seguito d'America

Ha fatto ricca la ABC,l'ha comprato Rai2, lo trasmette la tv svizzera


Il Foglio - Martedi 10 Gennaio 2006

C’è del genio - o forse è solo casualità - nell’aver messo in palinsesto proprio l’8 gennaio, al ritorno dalle vacanze degli italiani, una serie tv che inizia con un catastrofico incidente aereo: per lo spettatore medio non esiste maggior soddisfazione che assistere allo scampato pericolo e, nello stesso tempo, far riemergere quel sottile piacere di fronte alle disgrazie altrui, specialmente se raccontate in una fiction tv. Lost, che ha fatto della ABC la rete più seguita d’America, comincia proprio con la sequenza di uno spettacolare e terrificante incidente aereo del volo Sidney - Los Angeles. Non si sa quali siano le cause dell’incidente: neppure chi è arrivato strenuamente alla nona puntata della seconda stagione, ora in programmazione negli Stati Uniti, ne ha un’idea molto chiara. Quel che si capirà nel corso delle puntate è che ognuno dei 48 superstiti non si trova su quell’isola sperduta e misteriosa per puro caso: ognuno di loro ha un motivo ben preciso per cui è lì e ha a che fare con i fantasmi del passato o con le macchie della propria anima. I superstiti peraltro non hanno molto tempo per congratularsi tra loro per essere scampati alla morte, perché l’isola riserva continuamente sorprese e minacce di ogni tipo, dagli orsi polari a strani messaggi radio, da galeoni piazzati in mezzo all’isola a tribù di misteriosi abitanti. Ma, soprattutto, nessuno nel mondo reale sa che i dispersi si trovano davvero lì: la radio di bordo si è rotta mentre l’aereo stava per compiere un atterraggio d'emergenza alle isole Fiji, ma una perturbazione lo ha portato almeno 1000 miglia fuori rotta e i soccorsi probabilmente lo stanno cercando altrove.

C’è del genio - o forse è solo mestiere - in J.J. Abrams, creatore e autore della serie, nell’aver usato congiuntamente due tipici archetipi narrativi del giallo e del thriller, tanto cari ad Agatha Christie, ovvero quello del viaggio e dell’isola sperduta. Il risultato è un format a metà tra “Assassinio sull’Orient Express” e “Dieci Piccoli Indiani” con l’aggiunta dei misteri soprannaturali di “X-Files”, il tutto trasportato nell’isola di “Cast Away”. Il cast è ricco di personaggi e ognuno avrà sicuramente il suo preferito: c’è il medico coraggioso e leader del gruppo, la ladra affascinante, la rockstar tossica, il bel tenebroso, la ragazzina viziata, l’ex soldato iracheno e la giovane donna incinta, nessuno manca all’appello. Ad ogni personaggio è dedicata una puntata (venticinque nella prima stagione) dove si alternano le vicende sull’isola e i flashback per far capire al pubblico come e perchè il destino lo ha portato fino a lì.

C’è del genio nella squadra che si occupa del marketing e della promozione della serie. L’obiettivo era quello di far vivere la serie anche fuori dal contesto televisivo ed è stato perfettamente raggiunto. Negli Stati Uniti ogni puntata di Lost può essere visibile con il proprio iPod Video scaricandola dal sito di iTunes oppure sul proprio computer attraverso il podcast della ABC, inoltre chi possiede un cellulare Verizon può accedere a dei contenuti speciali non presenti nella serie tv.

Ci sarebbe del genio, questa volta tutto italiano, nell’aver inserito Lost nel palinsesto della stessa rete che, fino a poco tempo fa, trasmetteva “L’isola dei famosi”: anche i partecipanti del reality campione d’ascolti, come i protagonisti della fiction americana, si trovano in un’isola per un unico motivo che gli accomuna e cioè quello di salvarsi dal reale naufragio delle loro carriere.
Ci sarebbe del genio, ma dopo molti tira-e-molla Rai2 ancora non si decide a trasmettere la serie acquistata ormai da un anno e mezzo. Domenica scorsa Lost è quindi finalmente arrivato sui televisori del pubblico italiano, almeno quello del nord: lo trasmette la TSI, la televisione della Svizzera italiana.

Thursday, January 05, 2006

 

LIBRI
DOUGLAS COUPLAND - ELEANOR RIGBY

277 pp – Frassinelli , euro 17,00

Il Foglio - 5 Gennaio 2006


"All the lonely people, where do they all come from?" si chiedeva Paul McCartney in Eleanor Rigby. Eleanor Rigby è anche l’indirizzo email di Liz, la protagonista dell’ultimo romanzo di Douglas Coupland.
Liz Dunn ha quarantadue anni, è grassa, antipatica e infelice, ma soprattutto è sola: “La gente mi guarda e si dimentica della mia presenza”. Sola lo è da sempre. "Gli anni Novanta sono stati un periodo fantastico perché finalmente i solitari avevano un posto dove sentirsi soli tutti insieme fingendo di stare benissimo". La cosa più entusiasmante che le è capitata nella vita fu quando, passeggiando da bambina, trovò un cadavere di un travestito sulle rotaie della ferrovia. La sua esistenza procede tristemente fino a quando un giorno, quello del passaggio della cometa Hale-Bopp sopra il cielo del Canada, Liz ritrova Jeremy, il figlio che aveva concepito a sedici anni dopo una sbronza colossale durante una gita scolastica a Roma e poi abbandonato ad un destino fatto d’istituti e famiglie di affido. Jeremy – bello, simpatico e brillante - soffre però di sclerosi multipla primaria progressiva e, tra visioni apocalittiche e crisi narcolettiche, non gli rimane molto da vivere, ma ecco che la vita di Liz inizia ad avere un senso, anche perché nel frattempo arrivano strane comunicazioni da Vienna.
Il romanzo è strutturato in prima persona, su vari livelli temporali – il presente, la scoperta del figlio abbandonato e il ricordo della gita a Roma - e raccolti in una sorta di diario tenuto dalla protagonista. Coupland, nonostante la materia melodrammatica, è molto abile a non cadere nel patetico grazie all’attenzione ai dialoghi, alla caratterizzazione dei personaggi e alla tendenza a sdrammatizzare anche le situazioni più terribili senza finire mai nel retorico e banale.
Douglas Coupland è uno scrittore di culto. Il titolo del suo primo romanzo (“Generazione X”) è diventato una categoria sociologica per identificare quei giovani americani nati troppo tardi per fare la contestazione, e troppo presto per la rivoluzione digitale, iperinformati ma indifferenti, e destinati a nascondersi nel deserto per continuare a sopravvivere. Tutti i suoi romanzi e racconti hanno sempre avuto, anche indirettamente, un elemento d’analisi "antropologica" dei nati verso la fine degli anni Sessanta alla perenne ricerca di colmare un “vuoto di senso” nella propria esistenza: attraverso il lavoro nella grande multinazionale o l’attività svolta in proprio in “Shampoo Planet” e in “Microservi”, seguendo il carrozzone mediatico hollywoodiano in “Miss Wyoming” o in qualche forma di spiritualità in “La vita dopo Dio” o nell’inedito in Italia “Hey, Nostradamus”. In questo romanzo il vuoto da riempire è quello della solitudine che, secondo Coupland, resta uno dei grandi mali della cultura americana e di cui poco si parla.
A differenza degli altri lavori, Eleanor Rigby è forse il primo vero e proprio romanzo dell’autore canadese in cui sono ridotte al minimo le lunghe digressioni senza forma narrativa o la creazione di brillanti neologismi postmoderni che finora avevano caratterizzato il suo stile.

Monday, January 02, 2006

 
Jack is back

Series - Gennaio 2006

Un tempo c’erano le spy story, i telefilm d’azione e i thriller polizieschi, tutti generi rispettabili e seguiti dal pubblico. Poi è arrivato Jack Bauer. E le cose sono cambiate. Di molto.
Secondo il parere di alcuni, tra cui anche chi vi scrive, la serie “24” rappresenta per il mondo degli action movie quello che “2001: Odissea nello Spazio” è stato per i film di fantascienza. Una piccola grande rivoluzione.
Innanzitutto il formato: ventiquattro puntate di poco meno di un’ora che raccontano, in tempo reale, un’intera giornata dell’agente federale Jack Bauer (Kiefer Sutherland, in formissima) e di un’ipotetica Unità Antiterrorismo (CTU - Counter Terrorism Unit) con sede a Los Angeles, alle prese con minacce terroristiche internazionali.
Il tempo che scorre, quindi. Inesorabile, incalzante, senza tregua. Il lavoro di editing è senza dubbio uno dei maggiori punti di forza della serie trasmessa dalla Fox: l’uso dello split screen che permette di seguire contemporaneamente più azioni, il suono del battito cardiaco e la visualizzazione dell’orologio che scandisce impietosamente le ore trascorse, riescono a coinvolgere lo spettatore come se stesse vivendo le vicende in tempo reale, specialmente se le puntate vengono viste una di seguito all’altra.
Questo ormai si sa. Ma c’è di più.

“24” è una serie che spiazza: anche lo spettatore più “scafato”, quello che si è cibato per anni degli intrighi raccontati da Robert Ludhlum o delle lucide preconizzazioni di Frederic Forsyth, viene continuamente sorpreso dai colpi di scena e dai rovesciamenti di fronte che si succedono in numero industriale in ogni episodio della serie.
La formula della fiction co-prodotta dalla Imagine Entertainment di Ron Howard è così innovativa da poter essere declinata in molti formati: in Inghilterra la Vodafone ha distribuito ai propri clienti la prima miniserie ispirata alla fiction e prodotta appositamente per i telefoni cellulari. 24: Conspiracy (questo il titolo), creata in partnership con la Fox, è formato da ventiquattro mobisode (mobile episod, episodi per telefono mobile) della durata ciascuno di un minuto, con tanto di struttura a climax che rimanda alla puntata seguente: gli episodi sono realizzati sulla falsariga della serie tv e raccontano, in un'atmosfera di sospetto ed imminente pericolo, le avventure di un team di agenti della Cia impegnati nell'unità antiterrorismo.
La serie inoltre si presta molto bene a quella che oggi, al tempo del TiVo (il videoregistratore digitale in commercio negli Stati Uniti che permette di crearsi un proprio palinsesto e di registrare un programma saltando i breaks), si presenta come la forma pubblicitaria più efficace e d’impatto per la televisione, ovvero il product placement. Il buon Kiefer Sutherland, anch’egli tra i produttori del serial, non si è certo tirato indietro quando la Ford gli ha offerto un centinaio di migliaia di dollari per guidare i suv della casa di Dearborn, Michigan. Ma è nel campo dell’informatica e dell’hi-tech che il posizionamento di prodotto ha dato il meglio: tutti i computer dei terroristi e dei loro complici sono pc che hanno Windows come sistema operativo mentre, all’interno del Ctu, vengono utilizzati i “buoni” mac. Nella quarta stagione della serie i sistemi di protezione della rete Cisco sono diventati una specie di protagonista principale all’interno del Ctu bombardato da una serie di virus letali: il nome Cisco era continuamente citato all’interno della serie e, in alcune puntate, associato anche agli spot contenuti nei break.

Ma il grande successo della serie è da ricondurre principalmente al protagonista Jack Bauer, una sorta di supereroe senza super poteri, ma che ha la capacità di focalizzare il target e raggiungere l’obiettivo prefissato violando qualsiasi regola o procedura federale che gli viene imposta. Poco importa se si trova in crisi d’astinenza o se il suo collega sta per essere torturato da terroristi serbo-croati, la missione deve essere compiuta, il presidente e gli Stati Uniti portati in salvo, by any means necessary: tagliando la testa ad un interrogato (“Procuratemi una sega” una frase difficile da dimenticare) per proteggere la propria strategia doppiogiochista, improvvisando una rapina per fare in modo che il complice dei terroristi si possa trattenere all’interno del negozio e dare il tempo al Ctu di coprire la zona con il satellite e, soprattutto, mettendo in gioco sempre la propria vita.
Insomma “24” crea dipendenza, questo va detto. Sono molti i fans sparsi in tutto il mondo, alcuni dei quali piuttosto prestigiosi, come ad esempio Stephen King che, alcuni mesi fa durante la programmazione della quarta stagione, scriveva per Entertainment Weekly alcuni articoli di critica, ironici ma decisamente positivi, sulla serie trasmessa dalla Fox.
E infine la notizia. La serie è ripresa, su tutti i fronti e a tutti i livelli, per grandi e piccini: Rete 4 da dicembre ha iniziato a trasmettere la terza stagione, sul satellite (Fox Italia) sarà possibile vedere presto in anteprima italiana la quarta stagione e, da Gennaio, Fox Usa manderà in onda la quinta. E per chi se le fosse perse, ci sono le prime due stagioni disponibili in DVD.
Jack is back.

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