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Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Friday, May 13, 2011

 
Romanzi su carta e racconti su ebook. Così cambierà il modo di leggere.

Il Foglio - 13 Maggio 2011

Se è vero che negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a importanti rivoluzioni nel settore dei consumi culturali, è altresì corretto dire che tutti questi cambiamenti alla fine convergono verso un “format” unico: il digitale. Il solido che diventa liquido, il supporto singolo e chiuso che si trasforma in flusso connesso, il passaggio dal possesso all'accesso. L'editoria quindi, ultima dopo l'industria discografica e quella degli audiovisivi a subire queste mutazione, può trarre una lezione dai precedenti casi per affrontare i cambiamenti in positivo, traendone profitto e non con strenuo arroccamento verso posizioni conservative.
L'ebook - che negli Stati Uniti è già oggi il formato più venduto superando in unità gli hardback e i paperback - non sostituirà in tutto e per tutto il libro cartaceo, che continuerà a far bella mostra di sé nelle nostre librerie, ma di certo modificherà il nostro approccio con la lettura e, sopratutto, le dinamiche di mercato.
Kevin Kelly, autore e studioso di nuove tecnologie - che già nel 1994 aveva previsto i social network e il dominio dei motori di ricerca su internet - nel suo ultimo libro “Quello che vuole la tecnologia” (Edizioni Codice) fa una dichiarazione tranciante “Tra cinque anni tutti i libri elettronici costeranno 0,99$”. Oggi, come sappiamo, gli ebook costano mediamente tra il 30% e il 50% in meno del corrispettivo cartaceo: un prezzo decisamente fuori mercato considerato che non influiscono gli alti costi di carta, stampa e rilegatura e di distribuzione. Così come è accaduto per la musica, oggi il prezzo di un mp3 è fondamentalmente deciso dall'incontro della domanda e dell'offerta. Certo è che canzoni e libri sono difficilmente comparabili, quantomeno per l'investimento di tempo e attenzione che richiedono al fruitore. Ma ecco che qui Kelly traccia la discontinuità: se è vero infatti che oggi YouTube ci ha insegnato che i brevi filmati possono essere molto significativi (basti pensare al fenomeno della snack tv) anche se poi continuiamo a pagare per film lunghi, lo stesso può accadere per testi brevi. Gli ebook quindi rilanceranno testi più corti, quelli che l'editoria cartacea fino ad oggi trovava poco remunerativi. I romanzi e i saggi corposi troveranno quindi nel libro cartaceo il supporto ideale, ma nei prossimi anni si svilupperà molto l'area dei libri brevi ed economici.
E l'industria editoriale come si deve comportare quindi? Kelly anche in questo è molto diretto. Le case editrici devono “ascoltare la tecnologia”. Dietro a questo criptica sinestesia c'è un messaggio chiaro, osservare cosa fanno le persone in rete: condividono foto, recnesioni di libri, indirizzi, pubblicano racconti o ricette, e lo fanno in modo del tutto gratuito, con il solo scopo della condivisione. Le case editrici devono sempre più seguire e capire le tendenze del paradigma free, anche perché dietro a questi comportamenti ci sono aziende che sviluppano fatturato e profitti (avete presente Facebook?). L'editoria, secondo Kelly, dovrà essere meno legata alla distribuzione e più alla cura dei contenuti, guidando l'attenzione dei lettori quei temi e autori che sono più condivisi.
Segnatevelo, raramente le previsioni di Kevin Kelly non si verificano.

Friday, May 06, 2011

 
IL SOCIAL FUORI DAL NETWORK
L'applicazione alle aziende, al brand, al commercio, al sociale

LINK10 - Maggio 2011


Altro che amicizie, status, commenti. I social network - reti sociali, come dice la parola stessa - possono diventare lo spazio in cui la società non soltanto si rappresenta, ma si rafforza. Le comunità di acquisto collettivo, i brand che coinvolgono i propri clienti, le forme di dialogo tra consumatori e con le aziende, l'integrazione della tv con la chiacchiera (non più del giorno dopo) e i social impegnati nel sociale sono solo alcune delle forme possibili. Giochi di società, o qualcosa di più?



Le parole sono importanti, diceva qualcuno.
Le parole cambiano la percezione delle cose e degli eventi e, se usate impropriamente, stravolgono anche pensieri, azioni e contesti. Questo accade in maniera più evidente quando si tratta di neologismi o di parole inglesi che, improvvisamente, fanno la loro comparsa nelle nostre conversazioni, negli articoli dei giornali e nei documenti strategici delle aziende. Così, out of the blue. Senza preavviso e, sopratutto, senza darci il tempo di capirne davvero il significato.
Prendiamo “social”, ad esempio.
Guardiamoci in giro, leggiamo sul web, ascoltiamo le dichiarazioni di chi opera nel mercato: l'impressione, sempre più forte, è che il termine social sia ancora molto utilizzato (diciamo pure monopolizzato) nel suo significato di socialità: amicizia, socializzazione, strumento per creare nuove relazioni. Al limite, come aggregatore di interessi intorno a un tema o a un argomento.
I social media quindi come agorà, così tanto amati da certa letteratura di settore; insomma, quella che un tempo veniva chiamata community. Tale associazione di idee suona, da molti punti di vista, come una riduzione delle opportunità che, nella pratica, i social media potrebbero sviluppare sia nel business sia in altri contesti.
Questa, ovviamente, non è solo una questione semantica. Forse varrebbe la pena di considerare e approcciare al termine social, così come usato dagli economisti, cioè come rappresentazione della società. Non pensare quindi al social solo come processo e mezzo di comunicazione, bensì come un ecosistema (ok, l'ho detto) fondante su un sottile equilibrio di economia, politica, ruolo sociale e tecnologia, che ha al suo interno applicazioni e potenzialità ancora inespresse.
Quello del social è un archetipo che oggi vale la pena indagare più da vicino, con le sue luci e ombre, le opportunità ma anche le false chimere che offre.

Si sente parlare sempre più spesso di social commerce, ovvero un sottoinsieme del commercio elettronico che prevede l'uso sociale dei media online, e che quindi supporta l'interazione sociale e i contributi degli utenti alla fine della compravendita di prodotti e servizi online.(1) Nell'interpretazione pratica del social commerce, il lato della domanda sembra sempre più organizzato rispetto a quello dell'offerta, come accade sovente di questi tempi. I gruppi di acquisto sono ormai una realtà piuttosto consolidata e matura, sia quelli nati per finalità solidali o per empatia ai valori di un'azienda, sia per “bieche” motivazioni puramente commerciali - leggi “fare gruppo per strappare al produttore uno sconto maggiore”. Insomma, qualunque sia il mercato di riferimento (alimentare, sopratutto, ma anche tecnologia e servizi) iniziano a nascere nuovi comportamenti d'acquisto: le persone si aggregano, si organizzano su internet, utilizzano in modo intelligente i gruppi di facebook o le vecchie mailing list per creare comportamenti virtuosi, per disintermediare, generando un rapporto diretto con il produttore.
Dall'altra lato, l'offerta sta tentando di sfruttare le peculiarità bottom up della rete, portando i prodotti e i servizi alle persone. Due tra gli strumenti più popolari oggi sono i club d'acquisto online - in Italia, Saldi Privati (www.saldiprivati.it), Privalia (www.privalia.it), BuyVip (www.buyvip.it) -, outlet virtuali che consentono l’accesso a prodotti di marche anche prestigiose con prezzi fortemente scontati, o i cosiddetti social coupon - Groupon (www.groupon.com) è il più celebre a livello globale, ma anche altri siti come Citydeal (www.citydeal.it) o Tuangon (www.tuangon.it) - in cui vengono venduti coupon promozionali per l’acquisto scontato di servizi in ambito lifestyle e benessere, come abbonamenti a palestre, sconti per cene o aperitivi, trattamenti corpo e massaggi. Il problema di queste soluzioni d'offerta è il numero crescente di mail che arrivano all'utente-cliente, piene zeppe di marchi di ogni tipo, mescolati a caso senza una reale connessione tra loro, se non quella del basso prezzo, che inevitabilmente saturano la casella di posta, la pazienza e l'attenzione dell'utente stesso. Ciò che manca è la rilevanza, che nel mondo dell'online rappresenta uno dei valori risolutivi: mancando una segmentazione per interesse, il tutto rischia di banalizzarsi molto rapidamente sia agli occhi dei consumatori che non si “affezionano” al prodotto/brand sia per i marketer che trattano tali attività come vendite temporanee, tattiche e non strategiche, svalorizzando il brand.
Il social commerce ha valori e regole di funzionamento piuttosto chiare: la reputazione e l'autoprofilazione sono alla base dell'aggregazione e della condivisione in rete. Per questo motivo tornano comodo anche le vecchie community, i forum e gli altri luoghi virtuali in cui si riunivano persone diverse, ma unite da uno o più interessi comuni. Il social commerce fatto come si deve permette di dare un senso, un fine e un modo di monetarizzare tutte queste pratiche con un approccio win win. La speranza è che il social commerce, una volta diffuso e maturo, potrà finalmente decretare la morte dell'inutile advertising online così come è stata concepito e tuttora praticato: banner e pop-up che appaiono agli occhi dell'utente in modo del tutto inopportuno e casuale. Come si domanda Gianluca Diegoli sul suo blog MiniMarketing “Perché devo andare ora a visitare il tuo sito se posso trovarlo (solo) quando mi serve?”. (2)

Social significa anche condivisione: nella definizione di sharing è contenuto anche il concetto di dono e questo fa sempre molto paura alla gran parte delle aziende, piccoli e grandi che siano. Badate bene però, il dono in questo caso non è inteso nel senso disinteressato del termine, ma rientra in quella logica dello scambio simbolico che permette di far funzionare l'intero sistema. Ci sono esempi ormai classici per spiegare questa pratica: Skype eroga efficientemente e gratuitamente un servizio che ha un valore per noi utenti e, mentre lo fa, apprende qualcosa. Skype infatti è studiato in modo tale da usare e condividere le risorse dei computer connessi al network VOIP, perciò tenendo aperto il programma di Skype nel nostro computer, anche se non lo utilizziamo, contribuiamo a far funzionare meglio il suo network. Anche Google in fondo funziona così: la ricerca che effettuiamo è un dono che noi facciamo all'azienda Google in quanto questa, grazie alla nostra ricerca, può apprendere qualcosa ma, allo stesso tempo, è un servizio che Google ci regala fornendoci i risultati della ricerca.
Questi modelli di sharing commerce elaborati nell'ambiente web attraverso spazi comunitari e collaborativi, e quindi social, indicano le nuove regole di quello che viene chiamato commercio ibrido, che riesce cioè a intervenire su due mondi paralleli, quello commerciale e quello dello scambio gratuito e del dono. Per fare in modo però che tutto funzioni, è necessario che le persone che operano all'interno delle strutture aziendali sviluppino istinti e sensibilità al fine di creare un clima di lealtà e rispetto nel rapporto con gli altri: questi valori stanno alla base delle economie social, assai lontani dalla manipolazione che spesso era l'elemento fondante del modello del commercio tradizionale. Tutto questo per dire che l'approccio social non dipende solo da infrastrutture, ma anche dai valori e dall'approccio al business.
E dall'organizzazione.
Se è vero che la socializzazione del business può rappresentare una nuova rivoluzione industriale, come sostiene Brian Solis, a capo della società di consulenza Future Works nella Silicon Valley e autore del libro “Engage”, la condizione perché tutto questo si realizzi è che le aziende siano necessariamente connesse e integrate. Mai però come in questi tempi le varie funzioni aziendali sono tra di loro sconnesse e autonome. Ecco cosa sta accadendo nelle aziende in questi anni: il marketing organizza un concorso su Facebook, ma il resto dell'attività non ne sa niente, il customer care risponde ai problemi dei clienti, ma chi si occupa di sviluppare i prodotti non è a conoscenza delle problematiche; i responsabili delle risorse umane sono ignari di come gli uomini che lavorano in azienda comunicano l'azienda all'esterno, fuori dall'intranet aziendale, e così via.
In realtà, nella gran parte delle aziende piccole e grandi, il web sociale non solo non è considerato strategico, ma spesso non viene nemmeno internalizzato, bensì dato in outsourcing ad agenzie esterne. E' evidente che senza una figura o struttura interna che permetta da una parte di coordinare tutte le funzioni in un'ottica social, e dall'altra di comunicare all'esterno in modo univoco l'identità e il progetto sociale dell'azienda, le evoluzioni in questo campo non possono che essere scarse.
Nonostante tutte queste problematiche, alcuni brand - Ikea, Lego, Dell per citarne alcuni - stanno in realtà tentando di affermare una dimensione social al proprio brand, coinvolgendo attivamente le persone, creando attraverso la rete una piattaforma di relazione con i propri clienti, facendoli contribuire alla catena del valore. Ma trattasi ancora di pochi casi felici.

Oggi la parola social viene sempre più spesso associata alla televisione. Il termine social tv viene solitamente usato per descrivere un nuovo genere di servizi televisivi che integrano altri servizi di comunicazione come la voce, la chat, le valutazioni di altri spettatori e l'integrazione con i social media sul web, al fine di supportare un'esperienza televisiva attiva piuttosto che passiva. (3)
Un tempo la visone della tv era un'esperienza sociale in cui le famiglie si riunivano attorno al focolare catodico; poi, con il passare del tempo, è diventata sempre più una dimensione individuale. Dopo aver vissuto per decenni un'era di anti-social tv, ecco che grazie allo sviluppo tecnologico e al social networking si preannuncia un nuovo tipo di esperienza rivolta all'utente, altamente interattiva, partecipativa e coinvolgente.
Sulla carta i progetti di social tv sono ideali per garantire all'utente la rilevanza, l'interazione e la personalizzazione, ovvero i fattori fondamentali su cui si basa il paradigma social. Ma anche per i brand inserzionisti la social tv può rivelarsi una grande opportunità di marketing che permette di costruire relazioni con i propri consumatori non solo attraverso l'interazione ma sull'affinità, sulla condivisione del lavoro, sulla partecipazione e sullo scambio. Tutto questo sulla carta, appunto. Nella pratica le cose sono un po' diverse.
Attualmente la maggior parte delle applicazioni per la social tv sono focalizzate sia sull'integrazione di widget internet nell'esperienza visiva tradizionale, sia nella creazione di comunità nuove e indipendenti, basate sul web, sulla tv, sulla valutazione degli altri utenti, e su tutte le possibilità della social tv commerce attraverso chat, messaggi e invio di regali. Peccato però che l'esperimento dell'americana Fox di portare Twitter in tv è stato un mezzo fallimento: gli utenti infatti sono stati infastiditi dall'intrusione delle “nuvolette” di Twitter che occupavano spazio prezioso sullo schermo. E anche il portale messo a disposizione da MTV in occasione dei Video Music Award che raccogliesse in maniera estremamente dinamica e graficamente tutti i tweet riguardanti gli artisti in gara e la manifestazione stessa - e a cui una rivista “seria” come Fast Company ha dedicato una strombazzante copertina (4) - sembra ancora un caso talmente unico e di nicchia da poter rappresentare la via da intraprendere.

Per concludere, torniamo al tema semantico affrontato in apertura. Se questo articolo fosse stato pubblicato, ad esempio, sei anni fa, siamo abbastanza certi che il titolo “social” sarebbe stato interpretato nel suo significato “etico”, in riferimento alla Corporate Social Responsability, legato cioè al lato più umanitario delle organizzazioni. In effetti il social social (che qui chiameremo Social ^2 - elevato al quadrato, riuscite graficamente a mettere il numero 2 in alto?), silenziosamente e senza troppo clamore, rappresenta il settore che meglio sta utilizzando gli strumenti social, sfruttandone appieno le potenzialità, rispettandone i valori fondanti.
Due esempi su tutti: Jumo (www.jumo.com), il social network basato sulla stessa piattaforma tecnologica utilizzata da Facebook che unisce persone interessate a impegnarsi a cause umanitarie, restando in contatto diretto con le organizzazioni noprofit. Jumo è stato ideato e viene gestito direttamente da Chris Hughes, uno dei soci iniziali di Facebook e poi coordinatore della campagna online di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti.
Un altro progetto che sta funzionando in quest'ambito è Kiva (www.kiva.org), il sito legato al microcredito nato dall’idea di Matthew e Jessica Flannery che hanno lavorato molti anni in Tanzania in progetti di volontariato. Rendendosi conto del valore relativo del denaro in occidente e nei paesi più poveri, hanno messo insieme le loro competenza professionali creando un progetto basato su un meccanismo semplice quanto funzionale.
Sul sito di Kiva sono disponibili una serie di progetti da finanziare (con carta di credito o PayPal) con una soglia minima di 25 dollari: quando la persona che abbiamo finanziato inizia a guadagnare, rifonderà il suo debito. Al momento il rientro dei prestiti è del 100%.
Le parole sono importanti, ma i fatti pratici lo sono ancora di più.


(1) Definizione tratta dalla presentazione Social Commerce di Paul Marsden, durante il Womma (Word of Mouth Marketing Association) Settembre 2010 – Londra
(2) http://www.minimarketing.it/2008/07/la-teoria-del-banner-sociale.html
(3)dal sito di Richard Kastelein http://www.richardkastelein.com/
(4) Fast Company “Must-see Twitter TV” (December – January 2010-2011)

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