EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Monday, November 28, 2005

 
Come ti promuovo il naufragio

Series - Dicembre 2005

La grande forza di Lost è quella di essere allo stesso tempo un fenomeno di culto e un prodotto popolare (la prima puntata delle seconda stagione negli Stati Uniti è stata seguita da 23,4 milioni di spettatori – toh, 23 e 4 sono due numbers - ovvero tre milioni in più del risultato ottenuto dall’ultima della prima stagione). Le due cose raramente vanno di pari passo.
Gli alti ascolti, i premi (Emmy per la miglior serie drammatica e per la regia della puntata pilota) e il consenso dell’opinione pubblica si conquistano attraverso una trama avvincente, personaggi affascinanti, buona scrittura e un sapiente mix di mistero e avventura. Per creare il culto, però, è necessario che si attivino altri meccanismi in cui lo spettatore non rimane tale, ma viene coinvolto in prima persona e chiamato a rintracciare e decifrare segnali e collegamenti. Il trucco sta nell’innescare un corto circuito tra fiction e realtà.
La trovata degli autori è stata quella di aver fatto vivere alcuni personaggi e simboli della serie anche al di fuori del set dell’isola: in questo modo, attraverso l’utilizzo di quello che in gergo marketing viene definita cross-promotion o promozione incrociata, gli autori hanno attivato uno strumento di comunicazione che incuriosisce e fidelizza ancora di più gli appassionati della serie.

Oceanic Airlines è il nome della compagnia dell’aereo che si schianta sull’isola. In più di un’occasione il nome della linea compare nella serie Alias - non a caso anch’essa ideata da J.J. Abrams - durante i trasferimenti transoceanici di Sydney Bristow (Jennifer Garner). Gli ideatori della serie hanno pensato poi di creare anche il sito della Oceanic Airlines (http://www.oceanic-air.com) come fosse una compagnia aerea realmente esistente e che ha ovviamente cessato l’attività a causa delle difficoltà finanziarie provocate dalla sparizione dell’aereo 404 (volo 815… altri numbers, ché non si sa mai).
Entrando nelle pagine relative all’aeromobile che compare nella serie e cliccando sui numeri (quei numeri) delle poltrone dei sopravvissuti, si possono scoprire una serie di “easter eggs”, anticipazioni e depistaggi sul passato degli scampati al disastro aereo.

La stessa cosa succede con i Driveshaft, la rockband formata da Charlie, il biondino tossico inglese interpretato da Dominic Monaghan. Anche in questo caso gli autori del serial hanno creato un sito, aggiornato e completo (http://www.driveshaftband.com), sulla band virtuale - che compare anch’essa in un paio di occasioni in Alias - con tanto di recensioni di dischi e concerti prima della scomparsa del cantante, nonchè il diario day by day degli altri componenti del gruppo (da non perdere la recensione del Live8 inglese). Non ci sorprenderemmo quindi se in futuro nascesse uno spin off, reale o virtuale, sui Driveshaft.
Sebbene Lost fosse un prodotto nuovo e sostanzialmente sconosciuto, la casa di produzione Touchstone per il lancio della serie su Channel 4 inglese ha giocato con i generi in puro stile postmoderno: ha affidato la regia e la creatività del promo al fotografo di moda David LaChapelle che ha interpretato a modo suo i personaggi della serie. Il risultato è una surreale e sensuale danza dei naufraghi sulle note dei Portishead così lontana dalle atmosfere del serial che alla fine non è stata mai messa in onda da Channel 4.
In compenso il culto di Lost è cresciuto.

Wednesday, November 23, 2005

 
Un Foglin Sportivo

L'ABC dello show


IlFoglio - 23 Novembre 2005

Il risultato, alla fine, conta relativamente. Poco importa se a portarsi a casa il titolo di campione della National Football League saranno i Chicago Bears, i New York Jets o gli outsiders Cincinnati Bengals. Il Super Bowl 2005 ha già un vincitore: si chiama ABC, il network americano che quest’anno si è aggiudicato i diritti di trasmissione dell’evento sportivo e mediatico più importante negli Stati Uniti.
A poco meno di tre mesi dall’incontro - che quest’anno si svolgerà il 5 Febbraio al Ford Field di Detroit - il network tv ha già venduto oltre l’80% degli spazi pubblicitari (64 spot sugli 80 previsti) contenuti all’interno della diretta. Un risultato più che soddisfacente se si pensa che ogni spazio di trenta secondi è stato venduto agli inserzionisti per una cifra che si aggira tra i 2,4 e i 2,6 milioni di dollari, a seconda del posizionamento all’interno della partita. Nel 2002 la ABC, che anche allora deteneva i diritti televisivi, a due giorni dalla partita aveva ancora qualche spazio libero in vendita (i 61 break di 30" valevano circa 2,1 milioni di dollari ciascuno). Nelle due precedenti edizioni né la CBS nel 2003 né la Fox nel 2004 riuscirono a vendere gli spazi pubblicitari con tale anticipo.

Il Super Bowl non è solo l’incontro tra le squadre vincitrici dei playoff dell'American Football Conference e della National Football Conference che assegna il titolo di campione della NFL, il Super Bowl è un rito collettivo, una sorta di festa nazionale che raduna oltre 140 milioni di americani di fronte alla tv e dove tutto quanto fa spettacolo, dalla cerimonia d’apertura alle esibizioni canore nell’intervallo (tra cui quella “scandalosa” della
Tetta scoperta di Janet Jackson nel febbraio 2004), dagli hype che si creano prima, durante e dopo la partita fino alla pubblicità.
Paradossalmente sono proprio gli spot pubblicitari inseriti nei breaks dell’incontro quella parte dello spettacolo televisivo più seguita da casa: trattasi nella maggior parte dei casi di commercials in prima visione, il più delle volte prodotti appositamente per il Super Bowl: così un evento sportivo ogni anno si trasforma nella passerella dei più creativi e originali spot pubblicitari. Addirittura vengono prodotti degli spot costosissimi da trasmettere solo in questa occasione e l’evento è così seguito che il giorno dopo, davanti alla macchinetta del caffè, è più facile trovare persone che discutono dello spot della birra piuttosto che della performance del quarterback. In rete esistono molti siti che raccolgono gli spot pubblicitari trasmessi in ogni edizione, ed è interessante notare come dall’elenco degli inserzionisti si riesca a capire lo stato dell’economia Usa di quel periodo e quali fossero i mercati e i consumi emergenti: negli anni Settanta ad esempio prevalevano auto e bevande, negli anni Ottanta insieme ai beni di largo consumo (alimentari in primis) spiccavano molti prodotti di lusso, mentre la fine dei Novanta fu monopolizzata dagli spot milionari delle dotcom e delle aziende operanti nella new economy. Da un paio di anni destano scandalo alcuni spot di aziende farmaceutiche specializzate nella produzione di viagra, cialis ed altri prodotti che combattono l’impotenza sessuale maschile.

Quest’anno ricorre il 40° anniversario del Super Bowl e, come in tutti gli anniversari importanti, le celebrazioni partono con un certo anticipo privilegiando in termini di comunicazione il “percorso” rispetto alla “destinazione finale”. La NFL per l’occasione ha coinvolto un regista di prestigio come David Fincher (quello di Seven e Fight club) per la direzione di sei spot – “Road to forty”, il titolo - celebrativi del Super Bowl e che sono pianificati sul network tv e su internet fin da ora.
Ma sono le grandi corporation ad essere scese in campo agguerrite più che mai: la Campbell Soup Company ha deciso di lanciare per l’occasione una nuova linea di zuppe: dato che la NFL ha scelto di comunicare questo anniversario con il simbolo XL (40 in numeri romani, ma anche la sigla per definire Extra Large) così anche le pubblicità dell’azienda del New Jersey, da qui alla data del Super Bowl, utilizzerà il claim “XL varieties for XL appetites” e anche il formato gigante dei prodotti seguirà il concetto. Anche Visa Usa, la multinazionale finanziaria americana e la birra Coors hanno sborsato diverse centinaia di milioni di dollari per poter sfruttare il marchio del Super Bowl nel countdown degli ottanta giorni che ci separano dalla data dell’evento, chi attraverso un tour promozionale nelle città americane, chi diventando la birra ufficiale della NFL fino al 2010.

 
CONSIGLI A LAPO - 28

Sbatti la star isterica in tv, la nuova frontiera della pubblicità con testimonial

Il Foglio - 23 Novembre 2005


Mentre in Italia la novità pubblicitaria del momento è il ritorno del pupazzo Carmencita della Lavazza o Giovanni Rana che va in casa delle famiglie portando i propri prodotti confezionati, in Inghilterra un mese fa i network televisivi trasmettevano questo spot (qui in versione corta): una stanza anonima e grigia, un serie di sedie disposte in cerchio, una lavagnetta su un angolo, la tipica situazione da gruppo per la riabilitazione psicologica da qualche disturbo o dipendenza. Da un intervento si capisce che si parla di gestione della rabbia. Ad un certo punto si alza una bella donna nera vestita casual ma con stile. E’ Naomi Campbell. Non appena si presenta agli altri componenti del gruppo, ecco che compare alla sua destra un cartello con il prezzo del vestito che indossa. Naomi viene presa da un attacco d’ira ed inizia ad urlare e a sfasciare il cartello e, mentre la moderatrice del gruppo tenta di calmarla, compare in sovrimpressione il logo del marchio Cherokee, la linea di abbigliamento del grandi magazzini Tesco. Questo è solo il primo di una serie di spot che utilizza, con registro ironico, il celebre e scomodo carattere rissoso della celebrity Naomi per pubblicizzare un prodotto: in altri episodi la Campbell, continuamente tempestata dai cartelli, dopo aver sfasciato hall di albergo e discoteche, viene arrestata.
L’uso del testimonial e la percezione del pubblico in questi ultimi anni sono mutati radicalmente, ma una buona parte delle aziende e dei pubblicitari non se ne sono ancora accorti. Molti addetti ai lavori - nella moda, specialmente - sono ancora legati al vecchio ruolo del testimonial visto come un garante da emulare, come una sponda di proiezione e d’identificazione per il consumatore che - nel frattempo, invece - si lascia sempre meno abbindolare da questa “scorciatoia psicologica”. Da una recente ricerca condotta on-line da Phatagnat e Key Comments tra i giovani di lingua inglese tra gli 11 e i 25 anni, è risultato che la presenza di una celebrità come testimonial è l’ultimo motivo che li spinge a comprare un prodotto o a scegliere un particolare brand, privilegiando nella decisione altri fattori chiave quali il prezzo, il nome del brand, il consiglio di un amico o l’eticità dell’azienda. La stessa ricerca fatta otto anni fa aveva rivelato un’influenza ben più alta del testimonial o della pubblicità vista in tv.
Insomma, il re è nudo e il consumatore è sicuramente più furbo e intelligente di quello che credono molti direttori marketing o amministratori delegati di qualche agenzia pubblicitaria: di certo nessuno ha mai creduto ad una parola della dichiarazione fatta da Stefan Persson, presidente della catena H&M, all’indomani delle famigerate foto di Kate Moss colta con le dita nel naso, sulle centinaia di lettere e telefonate ricevute dai clienti che non volevano la modella libertina come testimone dei loro vestiti preferiti.

Le aziende radicalmente più moderne, quelle che sono seriamente inserite nel tessuto e nel contesto sociale, trattano oggi il proprio brand come se si trattasse della biografia di una persona con il suo carattere e le sue incompatibilità. Di conseguenza anche il testimonial viene scelto secondo una logica di affinità e di sensibilità, e non soltanto per criteri estetici o di notorietà. L’uso del testimonial in pubblicità è da sempre una “Croce e Delizia” (come il titolo di un libro scritto da Viviana Musumeci e uscito per Ediforum lo scorso anno): delizia per i manager d’azienda che preferiscono scegliere una celebrity per "massaggiare il proprio ego" o emulare competitor e concorrenti; croce per i pubblicitari perché l’uso del testimonial non viene considerato particolarmente creativo. Con questa nuova concezione è invece possibile sperimentare e lavorare anche sui difetti e sul carattere del testimone, come ad esempio nello spot della Campbell, lasciando da parte la celebrità e puntando più sul suo modo di essere nella quotidianità e sulla personalità. In questa logica un personaggio così forte e complesso come la stessa Kate Moss può diventare una testimonial affascinante e rivoluzionaria per un’azienda o per una causa, e non soltanto un corpo o l’identificazione di un ideale estetico. E l’esempio vale per molti altri.

Da questo punto di vista le novità più interessanti si trovano nella cosiddetta “pubblicità no profit”: l’impegno delle star al servizio di cause sociali non è oggi più circoscritto ad alcuni sporadici esempi, ma sta diventando un comportamento diffuso. Sempre più lo star system si sta affermando come uno dei più straordinari mezzi di “evoluzione sociale”, promotore di vere e proprie azioni allargate di sensibilizzazione: esempio mirabile è stata la campagna One dell’associazione Make Poverty History, a favore dell’annullamento del debito verso i paesi dell’Africa, in cui celebrità come Al Pacino, Cameron Diaz o Brad Pitt si mostravano alla telecamera senza trucchi di scena: una campagna semplice ma così forte ed efficace da essere stata bandita dall’autorità inglese in quanto “mirava a cambiamenti importanti nelle politiche del governo e in quelle di altri governi occidentali” e quindi contro le regole della pubblicità in tv.

Saturday, November 12, 2005

 
Questione di memoria (esterna)

StyleMagazine - Novembre 2005

Ricordi Migliaia di dati, numeri, immagini e parole da custodire
Incubi Perdere le cose conservate nel tempo
Tecnologie Supporti esterni che si misurano in gigabyte e centimetri

Il nostro hard disk, quello che risiede nella corteccia cerebrale, si sta riempiendo. Anzi, è già pieno. Non è più in grado di contenere le migliaia d’informazioni che giornalmente accumuliamo e assorbiamo. Pensieri, ricordi, appuntamenti da metabolizzare e fare proprie. Ma non ce la facciamo. Abbiamo l’inevitabile bisogno di circondarci di memorie esterne, supporti capaci di immagazzinare e archiviare i dati. E la tecnologia ci viene incontro. Per esempio, i numeri di telefono: difficile ricordarne più di cinque o sei, gli altri sono tacitamente custoditi nella sim card del telefonino. Infatti può capitare di vedere persone, abitualmente flemmatiche, colte da crisi di panico nel momento in cui si accorgono che l’intera rubrica era stata memorizzata sul vecchio telefonino defunto e non sulla sim, diligentemente trasferita nel nuovo, più tecnologico, cellulare.

È la chiavetta Usb il vero gadget indispensabile di questi tempi, la memory stick che ha rapidamente preso il posto dei floppy e dei cd rom e che può contenere foto, documenti e mp3. Da portar sempre con noi anche perché, adesso, si trova unita ad altri oggetti o accessori di uso comune, dall’orologio al portachiavi, dal coltello svizzero allo zainetto. Basta un pc nelle vicinanze ed ecco che quel frammento della nostra memoria contenuto nella chiavetta, si riattiva.

Ma la questione non si limita alla memoria di massa: tutti i giorni siamo spronati da mille stimoli visivi che si accavallano e la nostra «ram» non è più in grado di contenerli. Questa ansia da carpe diem viene placata dall’uso compulsivo di videofonini o fotocamere digitali. Gli mms «catturano» attimi che si rischiano di dimenticare. Così li archiviamo nella memoria del cellulare. Fin quando, anche questa, si esaurisce. Fin quando, in un futuro non troppo lontano, potremo creare una copia in back up della nostra corteccia, da "sfogliare" come un vecchio album di ricordi.

Thursday, November 10, 2005

 
CONSIGLI A LAPO - 27

I giovani adulti che non leggono i giornali saranno catturati dal servizio informativo "asap"?

IlFoglio - Giovedì 10 Novembre



Negli Stati Uniti i media tradizionali stanno attraversando un periodo di profonda crisi, specialmente per quanto riguarda il settore dell’informazione. Sono i numeri a testimoniarlo: l’audience TV si è ridotta di un terzo rispetto al 1985, le “evening news” in quindici anni hanno dimezzato gli ascolti, le vendite dei newsmagazine - dopo una ripresa all’inizio del 2000 - negli ultimi quattro anni sono calate drasticamente, i quotidiani in un lustro hanno perso più di dieci milioni di lettori e anche testate importanti come il Los Angeles Times nel 2004 hanno ridotto la readership del 12%.
L’età media del lettore e del fruitore di news si è drasticamente alzata: sono infatti coloro che appartengono alla fascia d’età dei 18-34 ad essersi allontanati dai media tradizionali d’informazione anche perché nel frattempo l’offerta si è decisamente allargata: free press, blog, informazioni via telefonino, feed rss su internet e podcasting sono solo alcune dei nuovi media flessibili, leggeri, rapidi, personalizzabili e spesso gratuiti che attirano e affascinano questo target. Non è solo una questione di mezzi ma anche di contenuti: la rigida classificazione attualità/costume/economia/spettacolo/sport utilizzata dai giornali non affascina più. Il “nuovo lettore” preferisce la notizia raccontata da un punto di vista personale, che affronti un argomento trasversalmente e ha inoltre bisogno di essere stimolato su più fronti e con diverse modalità, visive e interattive.
La fascia d’età tra i 18 e i 34 (i fantomatici e sfuggenti “young adults” )è importante sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo: negli USA sono 70 milioni – e non sono pochi – ma, soprattutto, sono il target centrale degli inserzionisti “big spender” che comprano gli spazi pubblicitari dei quotidiani e dei magazine. E’ tempo quindi di trovare nuovi strumenti per attirare questo pubblico.

Associated Press, la più grande e antica agenzia di stampa mondiale che fornisce contenuti a più di 15000 testate giornalistiche, ha messo a punto un nuovo servizio multimediale rivolto a questo target. E’ stato chiamato Asap - acronimo di “As soon as possibile” (il prima possibile) - formula molto utilizzata nelle lettere commerciali e che rende l’idea del carattere d’immediatezza con cui vengono trattati i contenuti del servizio. I testi delle notizie sono brevi e snelli (800 parole al massimo) ma, soprattutto, oltre al testo si avvalgono di immagini, audio, link al web e con un format di notizia più vicino al blog che al canonico articolo di cronaca.
A capo di Asap c’è Ted Anthony, giovane giornalista dell’Associated Press già news editor negli ultimi quattro anni a Baghdad e Beijing e che guida uno snello staff composto da venti giovanissimi giornalisti e web editor. Il servizio è attivo da alcune settimane ed è stato già acquistato da oltre 100 tra quotidiani e settimanali statunitensi (minori, per il momento, come The Seattle Times o il Tampa Tribune) che lo potranno utilizzare sia sulla carta stampata (da capire ancora in che forma, considerando che la forza del servizio sta nel format multimediale) che sul proprio sito web.

Le prime “asap news” pubblicate non sono particolarmente originali dal punto di vista dei contenuti, più interessante è la confezione: un reportage condotto da un marine delle forze armate USA in Iraq, la cronaca (con inserti audio ed interattivi) di un giro in bicicletta con il presidente Bush ed ancora la storia fotografica della resa israeliana da Gaza vista da un ragazzino e un breve ma efficace report multimediale sugli effettivi danni dell’uragano Katrina nel French Quarter di New Orleans.
Fino ad ora i giudizi degli addetti ai lavori sono stati piuttosto tiepidi, per non parlare delle critiche e delle parodie di blog specializzati come l’impertinente Gawker, che ogni settimana dedica un ampio spazio alle castronerie paeudo-giovaniliste proposte dal nuovo servizio di Associated Press. Solo tra pochi mesi però riusciremo a capire, attraverso la lettura dei dati di vendita e del gradimento del pubblico, se questa nuova via della notizia avrà un futuro.

Tuesday, November 08, 2005

 
La multinazionale NBA alla conquista della Cina. O viceversa?
Il basket americano è rinato con una ricetta "Business e Hip-Hop". Ora si dà un codice d'eleganza e vuole espandersi.

IlFoglio - Martedi 8 Novembre

Formidabili quegli anni! In Italia erano gli opulenti anni Ottanta: quelli di Gianni De Michelis presidente della lega basket, dei derby bolognesi e livornesi trasmessi in prime time dalla Rai, gli anni di Cantù e Pesaro province superstar, quelli del “SuperBasket” di Aldo Giordani e degli sponsor danarosi. Proprio allora iniziavano ad arrivare in tv le prime immagini delle partite NBA, il campionato professionistico di basket statunitense, gustosamente commentate da quel Dan Peterson che divenne poi allenatore del team milanese: il gancio cielo di Kareem Abdul Jabbar, la fredda precisione di Larry Bird, la straordinaria elevazione di Doctor J, per non parlare delle leggende metropolitane che facevano sognare tutti noi wannabe di provincia.
Poi le cose sono cambiate. Il basket in Italia ha tragicamente piegato il capo di fronte al dominio calcistico e, in mancanza di poteri forti e sponsor interessati, si è avviato verso un lento e inesorabile declino di pubblico e spettacolo che dura tuttora - e la recente rinascita di Armani Jeans Milano rappresenta una straordinaria eccezione che, ci auguriamo, serva da esempio ad altri imprenditori illuminati. La National Basketball Association, al contrario, è cresciuta ed è diventata una vera e propria macchina da guerra che tra percentuali degli incassi delle partite, sponsorizzazioni, royalties, media e soprattutto diritti televisivi, fattura annualmente 3 miliardi di dollari. Due uomini soprattutto hanno fatto sì che una semplice lega sportiva diventasse una delle multinazionali americane più solide nel campo dell’entertainment: il primo si chiama David Stern, commissioner dell’NBA, colui che da vent’anni controlla ogni minimo particolare del grande circo cestistico e che ha l’ultima parola sull’immagine di ogni singolo giocatore della lega, sulle loro regole di comportamento e sul prezzo dei biglietti.
L’altro è stato Michael “Air” Jordan, considerato all’unanimità il miglior giocatore nella storia del basket ma, soprattutto, il più grande talento commerciale nel mondo dello sport. Jordan ha prestato il suo nome e la sua immagine alla Nike come firma di una linea di scarpe e di abbigliamento, alla McDonald’s, alla Gatorade e addirittura alla Warner Bros come protagonista di un film (Space Jam) a fianco di molti personaggi dei cartoni animati Warner. Nella burrascosa carriera di Jordan, fatta di ritiri e ritorni forzati, il più delle volte le decisioni erano mosse da motivazioni di business piuttosto che da valutazioni agonistiche.
Nonostante i miliardi di dollari e gli interessi che girano attorno, l’NBA rimane ancora il campionato più bello del mondo dove spettacolo, intrattenimento e professionismo sono sempre garantiti. Sarà per la naturale ingenuità degli americani, sarà per gli altissimi ingaggi dei giocatori, ma raramente si sono verificati scandali nelle partite o sospetti di combine.

Non tutto però nella lega è andato sempre liscio: nella seconda metà degli anni Novanta anche la lega professionistica di basket ha vissuto un momento di crisi con i proprietari delle squadre ed i giocatori, che ha causato un clamoroso ritardo di tre mesi all’avvio del campionato e, alla fine, anche un calo degli ingaggi dei giocatori come voluto dai presidenti dei club.
A seguito di ciò, il campionato NBA ha subito un crollo di popolarità e d’immagine al punto tale da costringere David Stern ad aprire le porte al mondo dell’hip-hop, cultura e stile di vita cafone e di successo tra le nuove generazioni black (e non solo): Shaquille O’Neal e Allen Iverson iniziano ad incedere dischi, il rapper Jay-Z diventa co-proprietario dei New Jersey Nets, musica hip-hop diffusa a tutto volume durante il riscaldamento pre-partita e vengono anche messe in conto quelle due e tre risse “gang-ghetto style” (tra cui quella storica al Palace of Auburn Hills) tra i giocatori più irrequieti per rendere animato il campionato. Ma non tutto è stato controllato a dovere: a seguito di certi atteggiamenti scorretti e violenti da parte dei giocatori, importanti sponsor come la Dairy Food Association e la Nestlè hanno deciso di non essere più sponsor NBA e molte famiglie hanno iniziato a disertare le partite.

Poche settimane fa lo stesso Stern, alla vigilia del campionato 2005-2006, ha diramato un comunicato rivolto a tutti i club in cui parla di professionalità, immagine e rispetto verso i tifosi e si dichiara che, da ora in poi, la lega adotterà un «business casual dress code», ovvero un codice per l'abbigliamento da usare in tutte le situazioni di lavoro: conferenze stampa, viaggi, ma anche spot pubblicitari. Non più quindi bandane da gang, pantaloni oversize e catenoni al collo bensì giacche, maglioni e camicie, pena pesanti sanzioni. La notizia ha scatenato polemiche tra i giocatori e tra i fans americani ma che, francamente, poco interessano a Stern. Come ogni multinazionale che si rispetti l’obiettivo principale adesso è un altro e si chiama Cina. Da parecchi anni la politica della lega è stata quella dell’integrazione e della globalizzazione: oggi circa il 50% dei giocatori sono stranieri e il più in vista si chiama Yao Ming, 25 anni, 2,25 metri, ora nelle fila degli Houston Rockets. Da circa cinque anni, prima del campionato americano - che è iniziato il 2 Novembre - alcune squadre NBA (sia quelle più forti che le minori) si trasferiscono in Cina per un tour promozionale che riempie gli enormi palazzi dello sport di Beijing e Shanghai. Le potenzialità sono enormi: il basket sta diventando lo sport preferito tra i giovanissimi, si stima che in Cina 250-300 milioni di persone giocano a basket - circa come la popolazione degli USA - e per le olimpiadi del 2008 a Beijing potrebbero arrivare a 500 milioni. Questo in buona sostanza si può tradurre, entro breve, nel raddoppio del giro d’affari dell’NBA. Alla luce di tutto questo si capisce bene che a David Stern non gliene può importare di meno di un calo del 6% dei biglietti venduti negli Stati Uniti.

Thursday, November 03, 2005

 

Love is in the airways
New look: boeing travestiti da cartoon
VanityFair - 3 Novembre 2005

Il crollo del turismo, il caro petrolio, i recenti incidenti: per le compagnie aeree non è un bel momento. Un originale antidoto alla crisi? Rendere più attraenti le proprie flotte. Ha iniziato Virgin Airlines colorando di rosso i boeing e, a seguire, altre società hanno coinvolto nel loro restyling giovani pittori e graffitari. Ma c’è chi si è spinto oltre. Eva Air, la compagnia aerea taiwanese che ha dedicato una linea (il volo giornaliero Taipei-Fukuoka) al fumetto giapponese Hello Kitty. Dalla fusoliera al biglietto aereo tutto si tinge di rosa. “Cerchiamo di dare ai nostri clienti una nuova e diversa esperienza di volo” dice Chang Kuo-Wei, presidente di Eva Air “e dare la possibilità di visitare Harmony Land, il parco a tema di Hello Kitty”.

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