EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Tuesday, September 27, 2005

 
Il talento di Mr. Prodi, alter-ego pubblicitario del Prof.

Il Foglio - Martedi 27 Settembre

Si ricade sempre lì. Nel famigerato target dei nuovi giovani, o “young adult” come viene chiamato dagli esperti di marketing, ovvero gli appartenenti alla fascia anagrafica tra i 18 e i 35 anni: quelli che dettano e consumano tendenze, che vivono nelle grandi metropoli, che sono attenti al dettaglio, design e fashion victims, iperinformati ma altrettanto disinteressati alla vita politica italiana. Non servono i sondaggi di Piepoli o di Mannheimer per capire che il democratico strumento delle primarie del centro sinistra non coinvolge affatto coloro che si preoccupano delle vicende di Kate Moss o che hanno come principale problematica quella di scaricare dalla rete le prime puntate della serie televisiva hip americana.
Se ne sono accorti anche quelli del team di Romano Prodi: il candidato principale dell’Unione è la cosa più lontana dall’ideale estetico e cool amato dagli young adults italiani.
Lasciamo per un attimo da parte la politica e i programmi, i pacs, la ripresa economica e la questione morale: per avvicinare i giovani (e i giovani vecchi) alle elezioni primarie del centro sinistra è indispensabile avviare un’azione parallela alla propaganda portata avanti con il tir giallo dedicata ai militanti, ai padri, agli zii e ai nonni. E’ necessaria una campagna che utilizzi i mezzi, i linguaggi, i codici e le dinamiche dell’advertising, quelle più vicine al tormentone, alla grafica d’impatto e alla frase ad effetto piuttosto che ai proclami o alle promesse.
Così il team che si occupa della comunicazione per Romano Prodi ha dato l’incarico ad un gruppo di creativi torinesi - The Policy Editors’ Duo si fanno chiamare, anche se dietro si celano altre realtà di studi grafici e pubblicitari piemontesi – di inventarsi un “brand user-friendly” e che interpretasse in modo autoironico e smitizzante l’esposizione mediatica e il tono istituzionale del candidato bolognese.

Così è stato ideato “Mr Prodi”, e se avanzate il parallelo con Mr Magoo (l’occhialuto e cecato personaggio dei cartoni animati) o Mr Bean siete fuori strada. Nelle intenzioni dei creativi è semplicemente un brand nuovo e autonomo che si sostituisce alla fisicità (sfigata, come forse direbbe il destinatario di questa colonna) di Romano Prodi.
La campagna è sostanzialmente composta da una serie di flyers (volantini 10*10cm generalmente usati per pubblicizzare serate e feste nei club e nelle discoteche) e adesivi da distribuire a mano durante una serie di eventi cultural-mondani, o comunque estranei alla politica, nei principali capoluoghi di provincia. Il testo è formato da un fronte contenente il claim “Posso scegliere” e tradotto nelle venti lingue (siam pur sempre in Europa, che diamine) e da un retro con una serie di frasi ad effetto quali “The Prodi Project”, “Prodi (in the name of love)”, “Mr Prodi, I support”.
L’uso dell’inglese è ovviamente obbligatorio per i giochi di parole e i riferimenti a canzoni e film, poco importa se le primarie sono solo italiane e di profonda matrice provinciale. La grafica e i colori (rosso e verde acido) ricordano, per chi lo sa, quelle utilizzate nelle copertine di dischi di musica elettronica e per chi invece non lo sa a quelle dei medicinali (Prodi come cura ai mali della sinistra?).
Sull’efficacia della campagna non sappiamo, abbiamo notizia però che Mr Prodi è entusiasta dell’operazione e che ieri nel corso della conferenza stampa tenuta a Milano l’ha definita “la campagna perfetta”.
Il duo creativo formato da Giustino Bollato e Marco Grimaldi è lo stesso che ha creato il brand “Chiamparino+” per il sindaco di Torino nel 2001 e, nello scorso aprile 2005, “adessoBresso” per la campagna alla Presidenza della Regione Piemonte e che pare abbiano avuto un buon successo presso i giovani adulti.

Tuesday, September 20, 2005

 
CONSIGLI A LAPO - 26
Perchè i prodotti cenerentola sui banconi fanno ricche le vendite on line
Il Foglio - 20 Settembre 2005

Tutto è iniziato un anno fa grazie ad un illuminato articolo di Chris Anderson, caporedattore di Wired, la bibbia della rivoluzione tecnologica. L’articolo s’intitolava “The long tail” e faceva riferimento al concetto noto in statistica come la coda di Pareto, ovvero la parte finale della curva di distribuzione a forma di L: la teoria di Pareto applicata ai mercati spiega che, ad esempio, i venti prodotti più venduti (in un negozio o in un settore merceologico) sviluppano in media circa l’ottanta per cento dell’intero venduto. Questa è stata da sempre la regola base per il funzionamento dei mercati e che ha ovviamente influenzato, in ogni settore, la gestione delle scorte di magazzino e dell’assortimento. Chris Anderson, per illustrare il punto di partenza della sua teoria, prende come esempio una libreria dove ovviamente gli spazi di esposizione sono limitati e la distribuzione dei volumi ha un alto costo: in pratica i libri che possiamo trovare sullo scaffale sono fondamentalmente quelli che hanno una maggiore possibilità di essere venduti. Ne deriva che la condizione di “esser trovato” determina il successo di un libro ma anche la decisione di acquisto del lettore. La tesi non fa una grinza. Se però analizziamo una libreria che opera in rete come ad esempio Amazon, notiamo che le cose improvvisamente cambiano: la popolarità non ha più il monopolio dei profitti. Dai dati di vendita si scopre infatti che oltre ai classici best seller c’è un’altissima percentuale di titoli minori, di quelli che non si trovano nelle normali librerie per i motivi logistici di cui sopra: la libreria online fondata da Jeff Bezos ha la possibilità di esporre un catalogo pressoché illimitato di titoli e una gestione del magazzino molto snella e flessibile. In più l’algoritmo su cui si basa Amazon abbina automaticamente libri di successo a titoli meno popolari ma che sono affini per i temi trattati. Da tutto questo ne deriva che il mercato dei libri è potenzialmente assai più vasto di quello reale. Con i mercati on line quindi la “coda lunga”, ovvero quella parte finale della curva di distribuzione, teoricamente illimitata, formata da centinaia di migliaia di titoli, è quella che genera più fatturato e profitti.

Ovviamente la stessa regola vale per molti altri settori dell’intrattenimento come ad esempio il mercato dei dvd (su Netflix, il negozio statunitense on line degli home video, solo un quinto delle vendite è generato dai tremila titoli tra quelli più venduti da Blockbuster) e, soprattutto, il comparto della musica digitale: in questo caso nei negozi virtuali come iTunes, lo store creato da Apple che vende e distribuisce mp3, trattandosi di semplici file musicali contenuti in un server e sempre disponibili alla vendita in tempo reale, non si presenta nemmeno il problema dello stoccaggio o della consegna differita nel tempo. Anche nel caso del negozio Apple - e ancor di più nel sito Rhapsody - un’alta percentuale di brani scaricati e venduti è rappresentata da band minori, b-sides o rarità e quindi dalla lunga coda della curva di Pareto.

Da tutta questa ampia casistica sembra che il mercato mainstream, il mercato popolare, non derivi tanto dai gusti del pubblico, quanto dal “principio della scarsità” del mercato reale e da quella che Anderson chiama la “hit-driven culture” ovvero dalla pigra convinzione che solo e soltanto dai successi si riescono a fare soldi e profitti.
Sul mercato on line si è visto che questo non è vero: in rete il reddito più alto è quello generato dalle piccole vendite. Google produce fatturato vendendo pubblicità a costi bassi a milioni di persone - attraverso la semplice text advertising, quella che si trova sul lato destro nei risultati delle ricerche che facciamo giornalmente in rete– e non dalla vendita di pochi spazi a prezzi alti a inserzionisti importanti.

Nel corso del 2005 lo stesso Anderson ha sviluppato la sua teoria attraverso un blog tematico e una serie di conferenze in tutto il mondo, tentando di applicarla anche ad altri mercati e settori fuori da Internet: quello che si sta verificando è che i mercati di massa con le continue esigenze di frammentazione e personalizzazione – dall’abbigliamento alle automobili (la Grande Punto della Fiat è disponibile in ben settecento combinazioni) - si stanno lentamente trasformando in un aggregato di nicchie. L’allungamento della long tail inoltre aiuta lo sviluppo della concorrenza, basti pensare al mercato televisivo: le decine di nuovi piccoli canali tematici satellitari anche in Italia stanno lentamente migliorando il livello qualitativo delle reti generaliste che dominano il mercato.
Sicuramente ne risentiremo parlare in futuro della “coda lunga”.

Thursday, September 15, 2005

 
"Videochiamami. E con Valeria lo spot diventa reality"

La coppia Marini-Cecchi Gori litiga in una pubblicità. Il risultato? Sorprendente.


Vanity Fair - 22 Settembre 2005

Due registi come Bigas Luna per il cinema e Patroni Griffi per il teatro, non erano riuscitia valorizzare in pieno Valeria Marini. L'impresa è riuscita molto bene, invece, a Simona Izzo e Ricky Tognazzi che l'hanno diretta nel nuovo spot della compagnia telefonica 3 (gli ultimi, sempre con Claudio Amendola come protagonista, avevano la regia di Carlo Vanzina) riuscendo a rendere spassosa ed efficace la recitazione della "Valeriona" nazionale (“Videochiamami” è già culto) e del fidanzato Vittorio Cecchi Gori.
Abbiamo parlato con Simona Izzo.
Come avete fatto?
Valeria è una donna molto spiritosa nella vita ed è riuscita a portare la sua verve sul set. Gli attori vanno messi a loro agio: quando il ruolo è giusto è c’è sintonia con il regista, i risultati non tardano ad arrivare.
Essere coppia nella vita vi è servito per dirigerli?
Diciamo che ci siamo divisi i compiti: io ho lavorato di più con Valeria, e Ricky con Vittorio. Quest'ultimo ha fatto l’attore la prima volta e pur essendo un uomo di cinema non voleva recitare. Ma poi sul set è stato straordinario.

Avete dato un tocco di credibilità alla scena ispirandovi a qualche scena reale?
Sì, come sempre un regista collabora con i creativi, ma il lavoro dell’agenzia Bates era già una base ottima. Comunque io e Ricky siamo molto allenati al litigio e alla dialettica amorosa, ma facciamo sempre pace come fanno Valeria e Vittorio nello spot.
Ci sarà un seguito?
Ce lo auguriamo. L’H3G sta ancora valutando. Valeria mi ha detto che da quando è andato in onda lo spot la gente la ferma per strada pregandola di “videochiamarla”.

Saturday, September 10, 2005

 
CONSIGLI A LAPO - 25

Fare concorrenza alla Cina sulla qualità non rende, meglio puntare sull'"originalità dell'origine"


Il Foglio - Sabato 10 Setttembre 2005

“Premiata ditta fondata nel 1910”, “Antica banca dal 1472”, “Cinque generazioni di viticoltori” e così via: la storia e il passato di società o gruppi aziendali sono da sempre trattati in modo folkloristico e difficilmente si traducono in un effettivo beneficio verso il consumatore finale. Il patrimonio storico di un’azienda, quello che troppo spesso giace indisturbato in grigi e polverosi archivi, viene riesumato - sotto forma di vecchi documenti illeggibili o foto ingiallite - solo in occasione della pubblicazione di inutili tomi da regalare ai grossi clienti per Natale o per arredare la sala riunioni del consiglio d’amministrazione. Ci sono poi quelle aziende, tronfie del proprio passato, che si arrogano il diritto di spiegare la storia d’Italia semplicemente mostrando al pubblico cinquant’anni delle proprie pubblicità.
Il patrimonio storico di una società può essere, al contrario, un efficace strumento di marketing capace di fidelizzare i clienti e offrire loro un reale vantaggio. Alcune aziende, quelle più lungimiranti, lo hanno capito: la Guinness, produttrice di birra irlandese da quasi 250 anni, ha aperto all’interno del proprio impianto di fermentazione la Storehouse: non un semplice museo aziendale, ma un vero e proprio centro propulsore di attività culturali nel centro di Dublino. Tra le tante iniziative di questa nuova struttura vi è quella di aver reso pubblici gli archivi che raccolgono i dati anagrafici dei propri impiegati fin dal 1759, così chi è alla ricerca dei propri discendenti (specialmente cittadini americani i cui avi sono poi emigrati) potrà ricostruire il proprio albero genealogico.
Le radici storiche di un’azienda o di un prodotto oltre ad essere argomento per la comunicazione, possono diventare un elemento strategico e distintivo nel complesso panorama concorrenziale globale. In questi ultimi mesi in Italia si discute animatamente sulle possibili strategie da adottare contro la massiccia e minacciosa concorrenza cinese: molti economisti, opinionisti e capitani d’azienda sostengono che l’unica soluzione possibile è puntare tutto sulla qualità. Niente di più sbagliato. La società orientale storicamente fonda la propria filosofia di lavoro e di vita sul concetto di perfezione: combattere i cinesi in quel campo è battaglia persa in partenza. La qualità riesce a vincere sull’originalità ma non sull’originarietà di un prodotto. Un prodotto originale dopo una settimana viene tranquillamente copiato e contraffatto. Un prodotto originario, autentico e radicato, no.
E’ tempo che le aziende italiane considerino con attenzione quella che il sociologo Francesco Morace chiama “l’originalità dell’origine“ nel senso di origine autentica e originalità distintiva. Qualcuno in Italia, per fortuna, ci ha già pensato. Non per niente l’unica case history italiana presente nei recenti trattati di management o nelle riviste economiche estere è quella della Slow Food. Il movimento ecogastronomico fondato da Carlo Petrini è riuscito nell’impresa di trasformare microcoltivazioni e piccole produzioni artigianali destinate a sparire in dei presìdi, ottenendo fondi da enti pubblici e da sponsor privati rivalutando così l’origine originaria di prodotti come la cinta senese o la bottarga di Favignana ora conosciuti anche fuori dai confini italici e creando così nuovo business nonchè posti di lavoro.
Perfino i cosiddetti prodotti e processi arcitipici - come ad esempio il marchio “Vero Cuoio” o i prodotti dell’agricoltura biologica - nati inizialmente per una nicchia di mercato, nel corso del tempo sono rapidamente diventati riconosciuti e popolari.

Il concetto di “origine originale”, inteso come processo in continua crescita che parte dalle origini (italiane ma possono essere anche africane ed etniche in generale) e poi contaminato secondo i moderni parametri della complessità, si può applicare anche nel campo del design. I brasiliani fratelli Campana hanno creato per Edra una sedia dal design originale e contemporaneo ma che parla di storia e di origini: Favela è una seduta costruita con tanti pezzetti di legno naturale, incollati e inchiodati a mano, in modo volutamente casuale, nello stesso modo con cui in Brasile vengono costruite le baracche delle favelas. La realizzazione manuale rende ogni seduta leggermente diversa dall’altra, offrendo un prodotto realmente originale ed unico e che riesce a parlare, in modo diretto e senza fronzoli, della propria provenienza. Un prodotto fortemente simbolico, ma anche decisamente pratico, che può essere da esempio per molti altri settori o mercati.

Saturday, September 03, 2005

 
Spot dell'esercito per piacere a mamma

Il Foglio, 3 Settembre 2005

Interno giorno. Cucina di una famiglia middle class afro-americana nella provincia USA. Un teenager si siede a tavola con la madre e le rivela di aver trovato il modo per pagarsi gli studi. Ha deciso di entrare nell’esercito. Dettaglio volto scettico della madre. Il ragazzo spiega che si è informato e che può scegliere l’addestramento e la specializzazione che desidera. Tenta di persuaderla. "Ma, soprattutto, è ora che io diventi un uomo". Primo piano della donna. Pare ora più sollevata e chiede di avere maggiori informazioni. Il ragazzo inizia a raccontarle il suo progetto di diventare ingegnere. Dissolvenza in nero. Logo U.S. Army. Nero. Claim "Aiutateli a trovare la loro forza".

S’intitola "Dinner conversation" (conversazione a cena) ed è uno dei quattro soggetti - tre in inglese, uno in spagnolo - ideati dall’agenzia pubblicitaria Leo Burnett per la nuova campagna di reclutamento dell’esercito americano, in programmazione nei principali network televisivi. Tutti gli spot mostrano conversazioni familiari in cui i figli tentano di convincere gli scettici genitori dei benefit della U.S. Army. Il target di comunicazione degli spot non è il pubblico dei ragazzi, ovvero le potenziali reclute, bensì i loro genitori. Secondo una strategia di marketing molto in voga ora, le pubblicità sono più efficaci se si rivolgono agli "influencers" piuttosto che ai responsabili d’acquisto: per questo motivo adesso gli spot delle automobili o di costosi televisori al plasma sono sempre più spesso rivolte ai bambini e utilizzano codici e immagini giocose e ispirate ai fumetti per persuadere i figli, che poi convinceranno i padri all’acquisto. Nel caso degli spot della U.S. Army pesano soprattutto i risultati di alcune ricerche condotte dal Dipartimento di Difesa secondo le quali sarebbero i genitori i principali ostacoli alla decisione di arruolamento dei figli: solo una famiglia su quattro consiglia la leva volontaria.
Secondo Ray De Thorne, brand manager della US Army, l’attuale generazione dei genitori non ha provato in prima persona l’esperienza militare, anzi ha un vissuto negativo e, soprattutto, influenzato dalle notizie che arrivano quotidianamente dal fronte iracheno.

I quattro spot pensati e realizzati dalla Leo Burnett non fanno alcun riferimento alla guerra in Iraq: nessuna immagine di addestramenti, simulazioni di attacco o vita di caserma. Se non ci fosse il logo finale della U.S. Army (una stella bianca e ocra che ricorda più un marchio di jeans trendy per skaters piuttosto che il simbolo dell’esercito che esporta la democrazia) non sembrerebbe nemmeno uno spot di reclutamento militare: la garanzia di un’entrata per pagare il college, la possibilità di fare carriera e l’occasione per trasformare un apatico ragazzino in un cittadino responsabile hanno preso il posto di concetti come patria e disciplina, coraggio e sacrificio.
L’immagine di Uncle Sam che puntava l’indice e proclamava l’imperativo "I Want You" pare risalire alla preistoria. Gli spot ora in onda sono un’evoluzione in chiave soft di "The Army of One" (L’esercito di un uomo solo) lo slogan della precedente campagna per il reclutamento, mirato ad enfatizzare l'aspetto della scelta di vita personale della matricola. Di fronte alle cifre sul calo dei soldati e alla prospettiva di chiudere il 2005 sotto gli obiettivi prefissati, il Pentagono tenta ora di entrare nelle cucine e nei salotti dove le famiglie decidono il futuro dei figli. Dato poi che viviamo nella società dello spettacolo, nei prossimi mesi sono previsti una serie di spot interpretati da Donald Trump e Kelly Perdew, l’ex ufficiale dell’intelligence e vincitore del reality show "The Apprentice 2" in cui Trump - autore e conduttore - valuta le qualità manageriali dei concorrenti e mette in palio la gestione di un'azienda.

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