EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Thursday, October 28, 2004

 
CONSIGLI A LAPO
Non solo Brand(o): le celebrità tutelano il loro marchio (spesso più redditizio della loro arte)

di Michele Boroni
Il Foglio - Venerdì 29 Ottobre

Marlon Brando, nomen omen.
I suoi jeans, la t-shirt aderente, la Triumph Bonneville e il giubbotto "selvaggio" hanno rappresentato per anni l’iconografia perfetta e stereotipata del ribelle un po’ cafone ma affascinante. Però entrare nel mito non basta: per difendersi da eventuali sanguisughe, e monetizzare il tutto, è necessario trasformare questi assets in marchi:brand, appunto. Così hanno fatto gli eredi del defunto Brando depositando il nome all’US Patent and Trademark Office (l’Ufficio Brevetti americano): il bello è che non si sono limitati a registrare il nome Brando su categorie merceologiche vicine a prodotti e oggetti utilizzati nei suoi film (escluso "Il Padrino" i cui diritti di sfruttamento sono ad esclusivo appannaggio della Paramount) ma si sono lasciati un po’ andare e hanno esteso la protezione della legge sui marchi agli articoli più svariati dai tappetini per mouse ai confetti, dagli apribottiglie alle carte di credito.
Si sa che prevenire talvolta risulta conveniente, specie se si tratta di icone simbolo di ribellione e disubbidienza: chiedetelo alla figlia di Che Guevara, Aleida, presente la scorsa settimana a Londra all’European Social Forum e intervistata dal Guardian e che si è detta francamente stufa di vedere l’effige del padre su magliette, bandiere, copertine di dischi, jeans e alcolici. Certo, lei non si sarebbe mai piegata al soldo delle "multinazionali dell’impero" ma adesso rimpiange i tempi in cui, insieme ai fratelli, non difese l’immagine del babbo, registrando l’icona come marchio di fabbrica.

Benvenuti nel fantastico mondo delle celebrità e del loro sfruttamento.
In principio erano i testimonial: attori, cantanti, starlette e sportivi, consapevoli del loro appeal e ben foraggiati, prestavano e mercificavano il loro faccione abbinandolo alla comunicazione di profumi, brandy e detersivi, con l’obiettivo di avere una continua visibilità su giornali e tv presso il proprio pubblico. Se poi la loro immagine diventava troppo inflazionata o se il volto aveva stufato i più , nessun problema, esistevano mercati lontani che li avrebbero accolti a braccia aperte: il caso descritto dal film "Lost in Translation", dove Bill Murray attore in declino si reca in Giappone per prestare il volto alla pubblicità di un brandy, è più reale della realtà.
Tutto questo in effetti continua ad accadere anche oggi, ma nel frattempo qualcuno di questi ha scoperto che la propria celebrità può essere trattata e gestita come un vero e proprio "marchio di fabbrica". Il modo in cui il pubblico si relaziona con una celebrity infatti è molto simile all’approccio che ha nei confronti dei brand. La menzione del nome di una celebrity infatti evoca un'immagine mentale, un'opinione connessa alle memorie delle azioni passate e un’idea del probabile comportamento futuro: Madonna e i suoi continui restyling, il fascino highlander di Sean Connery, la simpatia fuoriclasse di Valentino Rossi per citare solo alcuni esempi.
Tenuto conto di tutto ciò, alcune celebrità hanno creato intorno a sé una vera e propria strategia di marketing come se fossero davvero dei brand, con dei valori di riferimento, delle caratteristiche riconoscibili e distinguibili, talvolta improvvisandosi produttori di una linea di prodotti ad hoc: Paris Hilton, celebrity vissuta in suite e venuta alla ribalta per filmini amatoriali hard e reality show ha creato una propria linea di gioielli low cost, Jennifer Lopez e Puff Daddy (o come cavolo si fa chiamare ora) svariate linee di abbigliamento e David Bowie si è addirittura quotato in borsa.

Però il vero caso, studiato a tavolino da abili marketing manager, è quello del calciatore David Beckham. Il calcio c’entra ben poco. Beckham è riuscito attraverso la sua immagine e i suoi comportamenti a creare un brand che molti sponsor sognavano da tempo: bello, ricco, leggermente ambiguo (tanto da diventare il simbolo metrosexual per eccellenza) ma anche sensibile padre di famiglia, icona filogovernativa, insomma una vera e propria popstar che ha ispirato film, stili di vita e decine di libri (tra cui anche il bel "Brand it Like Beckham - The Story of how Brand Beckham was Built" di Andy Milligan). Alla fine i proventi complessivi derivanti dalla sua extension line hanno superato di gran lunga gli ingaggi guadagnati per la sua carriera da calciatore.
Successo, séguito e potere. E il brand Beckham rischia in questo modo di diventare come i marchi globali quali Mc Donalds o Nike, e trasformarsi così in bersaglio (target) di speculatori sputtanatori che profittano del successo con armi neanche troppo sofisticate - da banali sms ad uno scatto indiscreto.
Magari il prossimo libro si intitolerà The Story of how Brand Beckham was Destroyed.

Thursday, October 21, 2004

 
CONSIGLI A LAPO
Una sonda di General Motors per il mercato gay
Un antidoto per maglie neonazi.


di Michele Boroni
Il Foglio - 22 Ottobre 2004

Hanno un alto potere d’acquisto, sono trend setter, conoscono l’inglese, navigano su internet, vanno molto al cinema, escono la sera, viaggiano, pagano con la carta di credito e sono più di cinque milioni.
E consumano, spendono e spandono.
Questa è la "maggioranza-dei-culattoni" per il mercato italiano. Un target, quello dei gay, molto allettante per le aziende, una terra di conquista che vale circa 25 miliardi di euro e che, in questo momento di crisi, può rappresentare una vera e propria manna dal cielo. Un target che per effetto del coming out anticipato - un tempo avveniva intorno ai 24 anni, adesso la presa di coscienza della propria sessualità si manifesta più o meno a 14/16 anni - è in continua e rapida crescita.
Succede così che anche i marchi storicamente e culturalmente più lontani - se non addirittura avversi - a quel mondo, si stanno avvicinando a questa nicchia profittevole.

Lonsdale, è un marchio inglese piuttosto famoso per essere stato il fornitore ufficiale delle attrezzature per il pugilato: da qualche anno però è diventato il capo di abbigliamento più indossato dai giovani neonazisti tedeschi (oddio, anche il cap con disegno plaid Burberry è ora l’accessorio di riferimento degli hooligans inglesi: dove andremo a finire, signora mia…). Lonsdale nel nome infatti contiene le lettere NSDA molto care ai giovani dell’estrema destra in quanto facenti parte della sigla del partito di Adolf Hitler (NSDAP) e i maglioni col cappuccio vengono portati sotto la giacca proprio per far notare e risaltare le quattro lettere. Il responsabile marketing dell’azienda che distribuisce il marchio in Germania, Olanda e Belgio intervistato dal Telegraph riconosce che questo è un problema e molte persone hanno paura di indossare le loro maglie, così ha coraggiosamente deciso di sponsorizzare il Gay Pride di Berlino, una sorta di street parade che si terrà il prossimo giugno.

Persino la austera e conservatrice General Motors ha scelto di sondare il mercato gaio facendo un product placement di una delle sue auto più prestigiose per il programma culto in USA quest’anno, Queer Eye for the Straight Guy – quello in cui un etero sfigato viene trasformato da cinque simpatici froci in un piacione perfettamente alla moda (presto anche in Italia su La7) - con conseguente crescita delle vendite del modello in questione (Yukon XL Denali, una SUV da oltre 50.000$) e, per la fabbrica di Detroit, un fortissimo ritorno di immagine.
Inoltre anche il Tourist board scozzese sta presentando Edinburgh e Glasgow come le ideali mete per weekend breaks per coppie o single gay, lanciandole come le nuove San Francisco o Miami del nord europa.
Anche in Italia qualcosa si sta muovendo ed ecco allora polizze che coprono la responsabilità civile delle coppie di fatto, agenzie di viaggio e tour operator gay friendly e perfino carte di credito che permettono ai possessori di ottenere gratuitamente una carta aggiuntiva per i propri compagni. E non stiamo qui a parlare dei prodotti per la cura e per la bellezza del corpo, dell’abbigliamento o del tempo libero, settori già piuttosto maturi.

I prodotti e i servizi quindi ci sono, il target che vuole essere soddisfatto e gratificato pure, il problema ora è la comunicazione. Già, perché se è vero che la pubblicità anche in Italia ha iniziato ad utilizzare quelle situazioni e quei codici narrativi ironici e leggermente trasgressivi per accalappiare il pubblico omosex (basti pensare agli ultimi spot delle gomme da masticare Vigorsol o del liquore Bailey’s), è anche vero che le aziende italiane sono ancora intorpidite da un miope perbenismo e nessuno pensa ad una campagna creata ad hoc per loro, anche se pare che società del calibro di Alitalia e Fiat all’estero investono molto sui media gay, ma non in Italia.

Quello che è accaduto nelle ultime settimane (la legge di Zapatero, la dichiarazione di Buttiglione, il film di Almodovar) in merito ai diritti civili degli omosessuali - e di cui si parla molto su questo giornale - ci dà modo di riflettere e pensare: se l’obiettivo è la piena equiparazione del matrimonio omosessuale a quello tradizionale tra uomo e donna, se esiste davvero da parte dei gay un desiderio di “normalità” e di riconoscimento borghese del proprio status, forse anche la pubblicità dovrebbe adeguarsi; magari le aziende che fino ad ora non si sono avventurate in comunicazione mirate, seppur per mancanza di coraggio, sono state lungimiranti; magari è lo stesso pubblico gay che non vuole prodotti e servizi “diversi” e che desidera uniformarsi al “sentire comune”.
Il quesito rimane, che continui il dibattito.

Friday, October 15, 2004

 
CONSIGLI A LAPO
Suggerimenti pubblicitari sui minipants, esempio vincente di marketing "dal basso"

di Michele Boroni
Il Foglio - 15 Ottobre 2004

L’assunto è semplice, così semplice che nessuno ci aveva mai pensato prima: se vuoi essere visto, comunica là dove le persone guarderebbero comunque. In inglese la campagna si chiama Ass-vertising - che in italiano suona più o meno come "chiappa sponsorizzata" – ed è opera della NightAgency di New York, un’agenzia specializzata in pubblicità urbana. Funziona così: le aziende clienti - rigorosamente non del settore abbigliamento - acquistano spazi pubblicitari sul retro di minipants indossati da simpatiche modelle che si aggirano per le strade di New York. La prima sperimentazione è avvenuta la scorsa estate nei quartieri di SoHo e di NoLiTa riscuotendo un successo clamoroso grazie anche al passaparola creato sui giornali di costume americani (da Surface a W) e verrà replicata nell’inverno nella snob Upper Side ma anche a Miami e a San Francisco.

A volte un’idea di business vincente può nascere semplicemente da un’intuizione, meglio se leggera e impertinente, come quelle che venivano inventate sui banchi di scuola durante le noiose lezioni di matematica o latino. Un esempio: prendere la lettera A maiuscola e disegnare un cerchietto in alto e uno sul lato sinistro della stanghetta di mezzo. Il risultato - anche senza metterci troppa fantasia - è un’immagine vagamente sodomitica. Invece di liquidare tutto con una risata, andare a registrare il logo come marchio di fabbrica, stampare poi migliaia di adesivi e attaccarli in giro - semafori, cartelli stradali, centraline telefoniche - nelle città. Far divertire i passanti che iniziano a chiedersi a cosa possa corrispondere questo buffo logo, un paio di articoli sulle riviste giuste e il gioco è fatto. Il passo successivo è una ditta di abbigliamento che acquista la licenza d’uso del marchio, lo fa indossare al partecipante più glamour del Grande Fratello 4 quando ancora il prodotto non è in commercio e crea così l’oggetto del desiderio per trendsetter in astinenza. Adesso basta accendere il televisore e vedere i capi A-Style indosso ai giovani ospiti professionisti nelle trasmissioni tv.

Bottom-up communication, la comunicazione che parte "dal basso" e utilizza stili e codici presi direttamente dal mondo dei graffiti e della street art: ecco così che anche le città si trasformano in un immenso tazebao. La Nike assolda giovani gruppi di graffitari e writers e commissiona loro disegni murali ispirati alla celebre virgola, Radio Italia Network, emittente di casa Rizzoli, invade strade e spazi urbani con gli adesivi effigianti la silhouette del rinoceronte logo della RIN e Jetlog, sito di viaggi tailor made, utilizza per la comunicazione fogli di carta stampata attaccati con la colla ed affissi abusivamente fuori dai bar e locali milanesi ritraenti improbabili testimonial come Walter Chiari o Sarah Jessica Parker.

Più il messaggio è ermetico, più genera curiosità, maggiore è la probabilità che si scateni il passaparola, quel circolo virtuoso che, se veicolato negli ambienti giusti, riesce a creare un effetto moltiplicatore del messaggio pubblicitario e che talvolta si può rivelare più efficace di un investimento in tv a sei zeri.
Adesso lo chiamano viral marketing in realtà è la solita vecchia storia che se ti arriva un consiglio su un prodotto
da un amico, o da una persona che stimi e che la pensa come te, una volta testato con soddisfazione sarai tu stesso a parlarne ad altri amici e conoscenti allargando (potenzialmente all'infinito) la diffusione del messaggio. Il meccanismo è così potente che potrebbe anche degenerare come prospettato nell’ultimo romanzo di William Gibson Pattern Recognition (uscito quest’estate in Italia per Mondadori con il titolo "L’accademia dei sogni") dove vengono descritti affascinanti personaggi che, ingaggiati da oscure agenzie e sguinzagliati nei club e bar londinesi, parlando o flirtando con gli avventori inseriscono nella conversazione messaggi pubblicitari su film, dischi o luoghi di villeggiatura camuffati da credibili consigli o sinceri suggerimenti, con effetti che nel romanzo si rivelano devastanti.
Le chiappe, invece, non ingannano mai.

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