EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Friday, November 19, 2004

 
CONSIGLI A LAPO - 6

Il prodotto che compare nei film ora non è più pubblicità occulta (ma serve o no a vendere di più?)

di Michele Boroni
Il Foglio - Mercoledi 24 Novembre 2004

Un tempo venivano semplicemente chiamate marchette.
Ricordate le Muratti e le bottiglie di Punt e Mes casualmente poste sui tavolini nei film italiani degli anni settanta? E i più recenti pacchetti di Chesterfield o le suole delle Tod’s mostrate in favore di macchina da presa dagli yuppies vanziniani?
In Italia tutto ciò era considerato fuorilegge, da archiviare sotto la voce "pubblicità occulta": ci ha pensato però il ministro Urbani che con il decreto legislativo volto a riformare il finanziamento pubblico del settore cinematografico ha introdotto nel sistema italiano la possibilità per le aziende di mostrare e quindi "sponsorizzare" i propri prodotti all'interno di film.
In America, al contrario, il product placement è da tempo una simpatica consuetudine e in passato ha fatto la fortuna di numerosi prodotti e servizi, basti pensare alla Apple o al servizio mail di America On Line, protagonisti principali di "C’è post@ per te" di Nora Ephron, o le Mini di "The Italian Job", per non parlare dei mille marchi presenti negli ultimi James Bond: addirittura lo script realizzato da Douglas Coupland per "Minority Report" di Spielberg conteneva già i nomi dei brand e delle aziende da coinvolgere nel film.
I contratti di product placement si sono rivelati assai efficaci per tutti, perché permettono alla casa di produzione di avere un importante finanziamento al film nonché un maggior coinvolgimento e identificazione dello spettatore verso il protagonista, e per l’azienda sponsor, possono rappresentare - in caso di grosso successo commerciale - una potenziale esplosione di visibilità del prodotto e garantirsi così esclusivi testimonial pubblicitari per un periodo di tempo tendente all’infinito. L’importante, come al solito, è non esagerare e trasformare il film in uno "spottone" come nel caso del corriere espresso FedEx che nella prima parte di "Cast Away" monopolizza fastidiosamente la scena con la continua enunciazione dei valori aziendali della multinazionale che lotta contro qualsiasi ostacolo pur di portare a termine la consegna (probabilmente Tom Hanks non era mai passato da Malpensa).

Ma il product placement non viene applicato solo al cinema, anzi, i risultati e gli effetti più sorprendenti da segnalare riguardano media e canali differenti.
Quelli della Pixar, produttori del blockbuster d’animazione "The Incredibles" (in uscita a fine mese in Italia) ad esempio, si sono già intascati 150 milioni di dollari da McDonald’s, Procter & Gamble, Kellogg’s ed altre aziende per l’inserimento dei prodotti all’interno del film.
Il mercato dei videogames - il cui volume d’affari, giova ricordarlo, negli USA ha superato quello della "dorata" industria cinematografica - si è accorto da tempo di questa opportunità e lo ha intuito anche il destinatario principale di questa colonna: i giocatori di "The Sims 2", il popolare videogioco "simulatore di vita", da qualche settimana possono scaricare su internet le "patch" delle felpe FIAT con cui vestire i protagonisti del videogioco. Tra i network tv USA il fenomeno del product placement è cosi importante in termini quantitativi che la Nielsen, multinazionale delle ricerche di mercato, ha introdotto un servizio ad hoc per monitorare i marchi che compaiono nei vari programmi tv, fiction e reality.

Ma il problema è sempre lo stesso: tutta questa esposizione di brand e prodotti in film, programmi tv e videogiochi quanto e come si traduce in termini di aumento delle vendite delle suddette merci?
La domanda è vecchia, e le risposte vaghe ed evasive. Ma la tecnologia, in questo caso, può dare una mano a trovare una soluzione all’annosa questione: Amazon, il popolare negozio on line, offre da qualche giorno sul proprio sito cinque cortometraggi (che coinvolgono nomi importanti, dal regista Tony Scott all’attrice Daryl Hannah) che i navigatori possono gratuitamente guardare e al termine decidere di comprare abiti, accessori, oggetti di elettronica che compaiono nel film, semplicemente cliccandoci sopra. Con questo mix di entertainment e commercio si potrà capire forse una buona volta quali sono i reali effetti del fenomeno che da qualche anno sta modificando gli investimenti in marketing delle grandi aziende.
Il product placement negli articoli di giornale, dite? Ne parliamo un’altra volta.

Friday, November 12, 2004

 
CONSIGLI A LAPO - 5

Seguire il made in italy va bene, ma troviamo altre parole per dirlo (ad esempio Italians do it better)

di Michele Boroni
Il Foglio - 12 Novembre 2005

Lo ha dichiarato il Cav, lo ripete da tempo Luca Cordero di Montezemolo e lo conferma anche il destinatario di questa rubrica: “L’unica via da seguire per uscire dalla crisi è quella del rilancio del Made in Italy".
E tutti quanti si sono fatti promotori della causa: Berlusconi, preso dall’entusiasmo, si è proposto come "commesso viaggiatore" del gusto e dello stile di vita madeinitaly. Il Ministro delle Attività Produttive Antonio Marzano ha presentato una serie di provvedimenti a difesa del prodotto italiano contenuti nella Finanziaria 2004 e che riguardano l'istituzione di un marchio madeinitaly, la creazione di un comitato anticontraffazione e uffici di assistenza tecnica e legale per la tutela dei marchi delle imprese italiane all'estero.

Bene. Ottimo. Era l’ora. Facciamo vedere chi siamo. Ma prima chiariamo cosa si intende realmente per madeinitaly. Non credo proprio che si faccia riferimento al significato letterale “fatto in Italia” perché, si sa, ormai la politica della delocalizzazione industriale è pratica diffusa e praticata dalla gran parte delle aziende italiane: i prodotti madeinitaly di largo consumo non vengono prodotti in Italy bensì in Polonia, Turchia, Bulgaria, India e Brasile. Per non parlare poi della Cina che al momento rappresenta per molte aziende della moda italiana non solo un simpatico mercatone di un miliardo e trecentomilioni di persone, ma anche una riserva di forza lavoro su cui trasferire buona parte della produzione. Sono gli effetti della globalizzazione, dicono. Come il caso delle firme di lusso della moda estera (da Stella McCartney a Manolo Blahnik) i cui prodotti in Italia non vengono distribuiti pur riportando nelle confezioni l’etichetta madeinitaly. Il terzo mondo siamo anche noi, nessuno si senta escluso.

Ma le parole sono importanti, si sa, specialmente nel marketing e nella pubblicità un termine sbagliato fa crollare decenni di costruzione di immagine e di credibilità, perciò se vogliamo creare un marchio che rappresenti lo stile, la qualità e l’eccellenza dei prodotti italiani non possiamo proprio parlare di madeinitaly. Dobbiamo trovare delle alternative: Designed by Italians, Strategized in Italy, Powered by Italians possono essere delle opzioni.
E poi, diciamo la verità, tutto ciò che è legato al marchio madeinitaly all’estero è già bollito e in parte sputtanato, e il più delle volte non è altro che un grasso grosso clichè colorato di BiancoRossoeVerde: hai voglia di mettere il completo di Ermenegildo Zegna, i mobili Cassina e una bottiglia di Ornallaia; all’estero, per essere riconoscibili al grande pubblico, si dovrà per forza inserire il solito stereotipo da noi tanto odiato ma di facile e rapida presa: ad esempio, i grandi magazzini Harrods di Londra in collaborazione con l’ICE, l’Istituto Italiano per il Commercio Estero hanno recentemente organizzato una lodevole iniziativa per il rilancio del madeinitaly: per due mesi un’intera ala lungo i sette piani del palazzo di Knightsbridge è stata esclusivamente dedicata a prodotti italiani, dal cibo alla moda. Grande successo: settantadue vetrine allestite, centomila visitatori, i complimenti di Al-Fayed . Peccato però che il prodotto più venduto è stato il Jack Trilby Hat (il tipico cap inglese) con l’italico tricolore e che la colonna sonora diffusa "in-store" era di Rita Pavone e Peppino di Capri.

Giulio Malgara, presidente dell’UPA (l’associazione che riunisce le aziende che fanno pubblicità in Italia) sostiene che il rilancio delle esportazioni debba essere trainato dalle 3F, food, fashion e furniture, mercati d’eccellenza dove il madeinitaly, sulla carta, va fortissimo. Ma se analizza meglio si scopre che, tranne un paio di casi isolati, l’Italia ha perso da tempo la battaglia con le grosse catene di distribuzione in mano ai francesi, tedeschi e americani con la conseguenza che all’estero i prodotti alimentari italiani non si trovano sullo scaffale dei supermarket. Inoltre i designer che lavorano per le grandi case produttrici di mobili madeinitaly sono nella maggior parte dei casi giovani olandesi, norvegesi e danesi.
La battaglia perciò è ancora lunga.
Ah, il nome in alternativa al marchio madeinitaly ce l’avrei; Madonna, in passato, ha già investito per renderlo noto: "Italians do it better".
Può funzionare.

Friday, November 05, 2004

 
CONSIGLI A LAPO – 4

(Coke-Pepsi, Bush-Kerry)

di Michele Boroni
Il Foglio, 5 Novembre 2004


In questa colonna non si fa politica. Qui vengono trattate - con leggerezza - strategie di marketing, comunicazione di massa e pubblicità - come la politica, in effetti. Comunque qualsiasi riferimento a fatti, persone esistenti o eventi accaduti nel mondo in questi giorni, è del tutto casuale e solo frutto della vostra fulgida immaginazione.
Perciò oggi ci occupiamo del mercato delle bevande gassate. Com’è noto, due sono gli attori protagonisti di questo settore: Coca-Cola e Pepsi-Cola. La Coca-Cola viene alla luce nel 1886 ad Atlanta, Georgia per mano del dottor John Pemberton come sciroppo contro il mal di testa da post sbornia.
La Coca-Cola in America e nel mondo è così popolare da essere ormai diventata sinonimo di prodotto: avete mai sentito qualcuno che al bar chiede una cola gassata? Se è un no-global chiede direttamente un Crodino. La Coca-Cola è un prodotto dell’America e, come tale, si riconosce in tutto e per tutto nei suoi valori: conservatrice e tradizionalista. Patria e famiglia. E la sua comunicazione, fatta di buoni sentimenti e babbi natale, è in perfetta coerenza con questa identità. La Pepsi invece ha da sempre adottato una comunicazione più aggressiva e d’impatto: nata come versione popolare e “da cucina” della Coke, si è poi nel tempo riposizionata trasformandosi in un marchio più giovane e alla moda e, per abbattere la leadership della Coca-Cola, è arrivata a sfruttare, attraverso la pubblicità, degli eventi demografici epocali come il baby boom post-bellico per creare una "Pepsi Generation" dallo stile di vita progressista e antagonista rispetto a quello del concorrente.

Nel secolo scorso la Coke ha sfruttato ogni strumento sfruttato per esportare e far conoscere la bevanda: l’intervento USA durante il primo conflitto mondiale si è dimostrato, ad esempio, una straordinaria occasione per far sentire i soldati a casa e per diffondere la notorietà del marchio nei paesi in cui era ancora sconosciuta.
Alla fine degli anni 70, inizio 80, la Pepsi inizia invece a realizzare una serie di spot utilizzando la pubblicità comparativa, cioè quella tecnica, lecita negli USA in tutte le sue forme, che permette di citare anche il marchio concorrente cercando di evidenziarne i difetti. In questi commercial, che hanno fatto la storia della pubblicità, la Coca-Cola viene rappresentata, con ironia e surrealismo, come la bandiera di un ipotetico partito conservatore, un’ala destra costituita da adulti tristi, decrepiti e in via di estinzione, mentre Pepsi come il marchio giovane e figo. Irresistibile lo spot in cui, per errore, una fornitura di Pepsi viene recapitata ai vecchi di un ospizio anziché ai giovani di un party, mentre a costoro viene distribuita la Coca-Cola riservata agli anziani, così i ruoli generazionali si invertono: i giovani si comportano come rimbambiti, mentre i nonni ballano e flirtano.
Così, per interi decenni, la Pepsi ha continuato a comunicare alludendo ai difetti e ai lati negativi dell’immagine della Coca-Cola e mai esaltando le proprie caratteristiche di prodotto.
Per essere più vicina al mercato dei giovani, ha poi utilizzato, e utilizza tutt’ora, testimonial dagli ingaggi milionari (da Michael Jackson a Francesco Totti, da Britney Spears a Michael Jordan, fino al recentissimo trio Beyoncè-Jennifer Lopez-Beckham).
La Coca-Cola è inoltre stata oggetto in questi ultimi anni di boicottaggi, libri e documentari diffamatori per presunti
crimini di lesa umanità nonchè accusata di essere la mandante di politiche persecutorie nei confronti di lavoratori sindacalizzati nelle imprese colombiane.
Ma, nonostante le accuse infamanti, il look attempato, gli errori commessi (come quando un manager impazzito volle cambiare la formula organolettica della bevanda), i testimonial e gli investimenti milionari del concorrente, la Coca-Cola rimane, negli Stati Uniti e nel mondo, leader di mercato.
Probabilmente anche per i prossimi quattro anni.


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