: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
Il caso Red Bull sta facendo impazzire gli esperti di marketing
Il Foglio - 11 marzo 2010

Secondo i responsabili marketing Red Bull ci sono alcuni luoghi che hanno bisogno di “iniezioni di energia”: le scuole, le palestre o dove c'è bisogno di carica per i lavori di fatica, come nelle fabbriche e nei cantieri. Per questo, da qualche giorno è possibile vedere parcheggiata di fronte a questi siti una Mini personalizzata Red Bull con avvenenti ragazze che distribuiscono gratuitamente campioni del popolare energy drink. Nei giorni scorsi la suddetta macchina era parcheggiata di fronte ad alcune scuole medie inferiori e superiori genovesi, e la cosa non è piaciuta a un'associazione genitori che ha sollecitato l’intervento delle forze dell’ordine. Secondo l'associazione, l'energy drink rappresenterebbe per i ragazzi la porta d'ingresso alla cultura dello sballo, porterebbe all'assuefazione, alla dipendenza e magari anche alla presenza in qualche talk show tv pomeridiano o serale. Le dichiarazioni del ministro della gioventù Giorgia Meloni rincarano la dose.
Prima di saltare direttamente alle conclusioni, cerchiamo di capire meglio cosa contiene Red Bull e, sopratutto, come è nata, come è stata lanciata sul mercato e comprendere il motivo di questa percezione così negativa nei confronti di questo energy drink. Perché quello di Red Bull è, prima di tutto, un caso di marketing atipico e illuminante.
Negli anni '80 l'austriaco Dietrich Mateschitz, l'inventore della Red Bull, lavorava come marketing manager in una multinazionale americana e viaggiava spesso in estremo oriente. Qui notò che nei momenti di maggiore stanchezza i lavoratori non si attaccavano alla macchina del caffè, ma consumavano una misteriosa bevanda contenuta in piccole bottigliette di vetro e diluita con acqua ideata da Chaleo Yoovidhya. E poi ripartivano, più carichi. Intuì che un prodotto del genere sarebbe stato perfetto dall'altra parte del mondo, dove correre era la regola. Si associò con Yoovidhya, importò la formula e ne modificò il gusto per incontrare quello dei consumatori occidentali. Il risultato fu non solo una bevanda inedita, ma addirittura una nuova categoria di prodotto, l'energy drink, il soft drink funzionale studiato per i momenti di maggior affaticamento fisico o mentale.
Taurina e caffeina sono i principali ingredienti. La taurina è un aminoacido prodotto dall'organismo in condizioni di stress psicofisico: assumere taurina significa dunque accelerare il processo di eliminazione delle scorie e i tempi di recupero. Sulla caffeina si sa praticamente tutto, in questo caso il contenuto è lo stesso di una tazzina di espresso, il doppio di una lattina di Coca Cola.
Niente di illegale, quindi. Red Bull è innocuo e si vende tranquillamente nei supermercati; in questi casi, invece di tirare in ballo l'assuefazione e lo sballo, varrebbe la pena informare che, se bevuto in dosi massicce, potrebbe essere dannoso per chi ha problemi cardiaci, di ipertensione e diabete, come mille altri prodotti, del resto.
Ah, un'altra cosa. Ha un gusto piuttosto cattivo. Se poi non è ghiacciato, è praticamente imbevibile.
Il fatto è che Red Bull ha giocato tutta la sua comunicazione sul “non detto”, sull' “assenza”, sul non raccontare chiaramente gli ingredienti e le performance della bevanda, generando quindi mille leggende intorno al prodotto (anche negative, come quello dello sballo a buon mercato se mixato con la vodka) e diventando un marchio di culto.
Scrive Rob Walker sul suo libro “Murketing” (Etas) che negli Stati Uniti Red Bull si è fatta conoscere sponsorizzando eventi bizzarri di sport estremi e sconosciuti, gare di breakdance o contest di deejay, tutte caratterizzate dalla quasi assenza del marchio in termini di striscioni, cartelloni, messaggi roboanti. Solo lattine per tutti.
Niente pubblicità, solo queste sponsorizzazioni invisibili a botte di 100 milioni di dollari l'anno: Red Bull produceva questi eventi di nicchia, non li sponsorizzava solamente, quindi l'investimento era alto, ma non si vedeva.
Insomma, il “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente” morettiano applicato al branding.
Ed è proprio la sua ambiguità, il suo esserci, ma dare l'impressione di non investire come una ricca multinazionale, che l'ha fatto diventare un marchio e una bevanda di culto verso la “click generation”, cioè coloro che sono coscienti delle regole del business e non vogliono essere il target di nessun piano di marketing, ma che, allo stesso tempo, hanno uno stile di vita caratterizzato esclusivamente da marchi che, addirittura, costruiscono la loro identità. Nel terzo millennio l'assenza intelligente sarà la strategia vincente del nuovo marketing.