: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
L'EVOLUZIONE DEL MARKETING OBAMIANO SECONDO NAOMI KLEIN
L'autrice di NO LOGO spiega come Obama è diventato un brand bushiano
Il Foglio - 4 febbraio 2010
Dieci anni fa una giovane giornalista canadese scrisse un saggio che, per time-to-market e sostanziale mancanza d'altro, divenne il manifesto simbolo dei movimenti “no global”.
La giornalista era Naomi Klein e il volume si intitolava “No Logo”. Quelli che l'hanno letto sanno che il volume era una provocatoria indagine sugli scheletri nell'armadio delle corporation, in cui si trattava con dovizia di esempi e particolari il fenomeno del branding e delle sue ripercussioni sulle dinamiche del lavoro; però i giornali e i media in vena di semplificazioni lo trasformarono nel manifesto comportamentale del movimento anti-globalizzazione. Un successo incredibile, anche in Italia. Del resto la copertina era così pop, con quel nero che snelliva e che staccava bene nelle librerie dei salotti popolate dai pastelli di Adelphi. Leggerlo, del resto, era una faticosa eventualità.
Sono passati dieci anni , appunto, e in questi giorni il libro torna nelle librerie inglesi (No Logo - 10th Anniversary Edition - Fourth Estate – 9,99£) impreziosito da una prefazione dell'autrice che vale la pena analizzare.
La scrittrice giornalista (il cui nome è la somma di due brand) è la prima a sottolineare l'equivoco generato da molta stampa: per questo motivo ha preferito negli anni successivi concentrarsi sulla politica americana e raccontarla utilizzando la metafora del branding e del marketing deviato.
In passato il suo target principale è stata l'amministrazione Bush colpevole, secondo la Klein, di aver dato in outsourcing al settore privato molte delle funzioni più importanti del governo, dalla protezione dei confini a molte funzioni dell'intelligence e in particolare Donald Rumsfeld per il suo comportamento da persuasore occulto che invitava il popolo americano a guardarsi dai pericoli senza mai spiegare di che cosa realmente si trattassero.
Oggi invece il suo bersaglio preferito è Barack Obama, sia il team che ha organizzato la sua campagna elettorale sia il suo illusorio primo anno di amministrazione.
L'elezione di Obama, secondo la Klein, è stato una vera e propria operazione di re-branding degli Stati Uniti, di rilancio del marchio USA nel mondo, un'operazione condotta con le più avanzate tecniche comunicative a disposizione. Al punto che poche settimane prima della sua elezione l'Associazione degli Inserzionisti Americani lo aveva già incoronato come Marketer of The Year. Nonostante la crisi, l'economia generata dal marchio Obama è in grande ascesa: J Crew, la griffe d'abbigliamento preferita da Michelle Obama ha visto crescere il suo valore azionario del 200%, come pure l'azienda produttrice del Blackberry, il telefono del presidente, per non parlare di marchi come Pepsi, Ikea e Southwest Atlantics che dopo l'elezione di Obama hanno inserito nelle loro comunicazioni la parola 'Change'.
Il problema - sostiene la Klein - è che come tutti i marchi di lifestyle, alla fine le azioni non sono mai all'altezza delle speranze che sono riusciti ad alimentare. La perfetta macchina che ha costruito intorno al presidente un superbrand è caduta nella trappola dell'eccessiva comunicazione: preferendo il gesto simbolico rispetto al programma articolato, privilegiando i simboli sulla sostanza, gli slogan su spiegazioni chiare, costruendo una tela su cui tutti quanti sono invitati a proiettare i loro desideri più profondi. Come letto su Advertising Age, in tema di posizionamento Obama è riuscito ad essere sia Coca Cola sia Honest Tea, sia il megamarchio globale di grande notoriet sia quello di nicchia e da intenditori.
La strategia di comunicazione utilizzata da Obama ricorda molto quella di Nike e Apple in cui venivano usate immagini e situazioni molte evocative e di contenuti rivoluzionari per poi vendere lo stesso prodotto di sempre. Allora dalle indagine e dalle ricerche di mercato era emerso nei consumatori il desidero di qualcosa di più dello shopping – un cambiamento sociale, voglia di spazi pubblici, un trionfo dell'uguaglianza. Lo stesso è successo per Obama: il popolo americano, uscito dal periodo Bush, desiderava sentirsi parlare di libertà civili, ecologia e di un progetto politico più grande di loro. Obama ha vinto capitalizzando questa profonda nostalgia per i movimenti sociali. Ma era solo una piattaforma di comunicazione.
Ricorda la Klein che in fondo Obama ha preso soldi da Wall Street più di qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca e sta continuando la politica internazionale di Bush, anche se con uno stile meno arrogante.
La giornalista canadese, nonostante tutto, nutre ancora una forte speranza nei confronti di Obama e aspetta “the real thing”: già, proprio come il claim anni '70 della Coca-Cola.