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Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Wednesday, February 01, 2006

 
Come venedere Coca Cola al consumatore confuciano
La Cina è un mercato immenso ma difficile, basta un piccolo errore e ti ritrovi a bere "un cavallo femmina legato con la cera"

Il Foglio - 1 Febbraio 2006

Febbre Cinese. La Cina è più vicina. Obiettivo Cina.
Quotidianamente, nelle pagine economiche dei giornali, nei consigli di amministrazione o in qualsiasi dibattito in materia economica, l’argomento Cina, visto come ricca opportunità di business, viene sviscerato da ogni angolazione.
Tutto ebbe inizio negli anni Novanta quando le grosse corporation si resero conto che produrre in Cina conveniva: investimenti ridotti per gli impianti, manodopera a basso costo, altissimi ritmi di produzione e diritti dei dipendenti non sempre rispettati. Le condizioni di lavoro con il passare degli anni sono leggermente migliorate - anche se il problema dei diritti violati è sempre ben presente - grazie all’entrata della Cina all’interno della World Trade Organization nel 2001. Da allora la prospettiva da parte dei paesi occidentali è profondamente cambiata: la Cina non è più solo un punto di riferimento per la produzione industriale ma, soprattutto, un mercato vergine e aperto a tutti.

I numeri, più di tante parole, rendono meglio l’idea delle dimensioni del “Continente Cina” e possono far sobbalzare dalla sedia più di un direttore marketing o commerciale:
Popolazione: oltre 1 miliardo e trecento milioni (gli abitanti USA circa 296 milioni, quelli dell’Unione Europea circa 457 milioni).
Crescita annua del Prodotto Interno Lordo:+9,9 per cento (USA +4,4 per cento, EU +2,4 per cento).
Percentuale di debito sul reddito disponibile delle famiglie: 30 per cento (USA 110 per cento, Italia circa il 40 per cento).


La Cina si presenta oggi come un’economia gigantesca che cresce rapidamente, con una finanza sana e un risparmio crescente da parte delle famiglie che desiderano oltretutto recuperare, attraverso i consumi e uno stile di vita più moderno, il tempo perduto da decenni di buio.
Con il libero mercato e con le molte iniziative organizzate dai governi (il 2005 è stato l’anno della “Francia in Cina” e, secondo una prima stima, il portafoglio d’affari delle aziende francesi è stato quintuplicato) piccoli e medi imprenditori e grosse multinazionali hanno la possibilità di sviluppare in Cina lungimiranti business con enormi possibilità di guadagno.
Tutto questo è vero teoricamente, perché in pratica sono molti gli ostacoli che rendono il mercato cinese un ambiente complesso, estraneo e spesso incomprensibile.
Innanzitutto non esiste una sola Cina. Chi si trova già ad operare all’interno di questo mercato sa che per linguaggio, cultura, clima, dieta alimentare, reddito e storia, esistono “molte Cine”. Il linguaggio innanzitutto è la barriera principale: sebbene ci sia una comune lingua scritta, esistono ben otto lingue parlate che non comunicano tra loro. Il regime comunista ha cercato per molti decenni di imporre il mandarino come idioma comune al fine di rafforzare l’unità nazionale, ma altri “dialetti” regionali come lo shanghainese e il cantonese, sono sopravvissuti. Il cantonese oggi viene parlato da circa 60 milioni di persone nella provincia del Guangdong, ad Honk Kong e Macao, nonché da tutta la popolazione cinese che abita fuori dal paese, ed è diventato la lingua principale per le conversazioni su argomenti popolari e di intrattenimento, quindi anche il codice linguistico ufficiale per la comunicazione pubblicitaria.

Mercato pubblicitario in Cina: oltre 7 miliardi di euro
Tasso di crescita del mercato pubblicitario cinese: +20 per cento, nel resto del mondo +5 per cento
Penetrazione di apparecchi tv nelle abitazioni cinesi: 99 per cento
Oltre 100 milioni hanno la tv via cavo.
Quotidiani venduti ogni giorno: 85 milioni. La Cina è il mercato editoriale più grande del mondo.
Utilizzatori del telefono cellulare: oltre 353 milioni pari al 26 per cento della popolazione (USA:180 milioni, pari al 50 per cento ) con 5 milioni e mezzo di nuovi abbonamenti al mese.


Ma la vera grande differenza tra le “tante Cine” è quella culturale e socio-economica tra le metropoli situate nelle zone costiere e i migliaia di piccoli villaggi rurali disseminati all’interno. Molti sociologi temono che il gap tra la forte crescita verificatasi nella costa est e quella lenta dell’interno possa diventare una minaccia per la stabilità sociale e politica del paese, specialmente se le aziende e le istituzioni proporranno delle strategie di penetrazioni dei prodotti e dei servizi indifferenziate e uguali per tutti.
Molti imprenditori europei e americani oggi sbarcano in città fortemente sviluppate come Shanghai o Pechino credendo che queste rappresentino la Cina e, una volta saturati questi mercati, si spostano nelle città secondarie e terziarie come Wuhan, Nanjin o Chongquing il cui reddito medio è più basso di circa il 30-40 per cento rispetto a quello degli abitanti delle metropoli, e questo senza modificare minimamente la politica commerciale.
Da un punto di vista dei consumi quindi lo scenario che si presenta è molto differente: ad esempio, per quanto riguarda l’abbigliamento sportivo, nelle metropoli dominano marchi occidentali come Nike e Adidas, mentre nelle città più piccole, tipicamente più nazionaliste e patriottiche, le scarpe da ginnastica più vendute sono le Li Ning, un marchio locale che, forte del grande successo ottenuto in Cina, sta iniziando ora a esportare le proprie sneakers sul mercato europeo. Procter & Gamble, multinazionale americana tra le prime a sbarcare in Cina, ha fin da subito adottato strategie di penetrazione del mercato differenziate: ad esempio la crema sbiancante Olay, molto utilizzata in Oriente per schiarire la pelle delle donne, viene venduta nella “zona 1” (Pechino, Shanghai, Hong Kong) nella versione luxury attraverso una pubblicità che evidenzia dettagliatamente i benefici della crema. Nelle città rurali popolate da consumatrici meno sofisticate e attente al prodotto viene commercializzata la crema più economica abbinata ad una pubblicità che mostra soltanto la foto del volto femminile dopo il trattamento senza fornire alcuna spiegazione.

Il 2006 è l’anno della “Russia in Cina”, mentre il 2007 sarà la volta della Spagna. Anche l’Italia quest’anno è presente nel continente cinese, ma solo attraverso una serie di iniziative culturali. Una delegazione italiana presieduta dal Ministro per i Beni Culturali Rocco Buttiglione ha appena fatto ritorno da Pechino per l’inaugurazione della mostra “Specchio del tempo” con 80 opere italiane rinascimentali e per una serie di accordi tra cui quello firmato dalla Rai e la tv cinese CCTV per scambio di contenuti e canali sul digitale terrestre.

E poi ci sono i cinesi. C’è la cultura cinese, profondamente diversa da quella occidentale e che incide sulle decisioni di acquisto e di consumo.
La stragrande maggioranza della popolazione cinese non vuole imitare o scimmiottare lo stile di vita degli occidentali. Vogliono essere moderni e internazionali, ma mantenendo la loro forte identità orientale.
Noi valorizziamo l’intraprendenza e l’iniziativa personale, loro ricercano l’armonia. Noi pensiamo ed agiamo individualmente per controllare e modificare il nostro destino, i cinesi ne accettano l’ineluttabilità. Noi siamo fondamentalmente individualisti. Loro invece ragionano in termini di comunità, si sentono parte di un gruppo.
L’introduzione di un prodotto rivolto ai consumatori cinesi, e quindi alla loro visione del mondo, è sempre un’operazione molto delicata che richiede una complessa analisi dei bisogni, degli atteggiamenti e dei comportamenti del consumatore a cui lo si vuole offrire. Spesso molti imprenditori, in cerca di guadagni rapidi e facili, cadono nella semplificazione sostenendo che se il prodotto ha avuto successo in occidente, per forza dovrà averlo anche in Cina; ma i casi di fallimenti aziendali o di lanci che si sono rivelati dei grossi flop sono lì a dimostrare che non è questa la strada da percorrere.
Recentemente è uscito negli Stati Uniti un libro intitolato “Billions: Selling To The New Chinese Conusmer” scritto da Todd Doctoroff , capo della sede cinese dell’agenzia pubblicitaria J. Walter Thompson: in questo saggio sono raccolti una serie di consigli agli imprenditori che desiderano investire in Cina e che prima vogliono conoscere e condividere la visione del mondo del consumatore; consumatore definito “confuciano” per evidenziare la profonda integrazione tra istinto conformista e spirito moderno.
La donna cinese, ad esempio, è quella maggiormente investita da profondi cambiamenti. E’ ancora essenzialmente moglie, devota alla famiglia e alla casa, e madre, attenta alle direttive del governo e ai bisogni della prole, ma si sta imponendo sempre più una nuova figura di donna emancipata e individualista. Oltre a questo, esistono delle differenze sostanziali che influenzano anche i consumi: in Cina, la bellezza femminile è considerata uno strumento per raggiungere una maggior emancipazione e affermazione sociale, non di attrattiva nei confronti dell’altro sesso. Ne consegue che l’acquisto di prodotti di bellezza, di abbigliamento e il massiccio ricorso alla chirurgia plastica per occidentalizzare i tratti del volto, sono finalizzati a trovare un lavoro o ad avere un ruolo più importante all’interno della società e non alla conquista dell’altro sesso. Quindi le aziende che vogliono promuovere l’acquisto di un profumo o uno shampoo dovranno tener conto di queste diverse mentalità e desideri della consumatrice cinese. Per fare un altro esempio: a Pechino il più figo del gruppo è quello più intelligente non quello più bello esteticamente. Nella società cinese dove regna la legge del cane-mangia-cane e la severa gerarchia della tradizione confuciana, l’intelligenza è l’arma fondamentale: perciò le palestre o i centri di bellezza per uomini potranno incontrare solo una piccola sparuta nicchia di mercato.

Da domenica la Cina è entrata nell’anno del Cane: secondo il calendario lunare cinese è l'anno 4704. I festeggiamenti dureranno per una settimana e circa 200 milioni di lavoratori cinesi stagionali, emigrati nelle grandi città, ne approfitteranno per far ritorno a casa. La festa rappresenta per molti anche la speranza di ottenere i salari arretrati, come promesso dal governo cinese: nel 2004 la somma degli stipendi non pagati ammontava a ben 20 miliardi di yuan (pari a 2 miliardi di euro).


Anche il rapporto tra i cinesi e la casa è profondamente diverso dall’approccio occidentale: la casa è un luogo di rifugio e di fuga dal mondo esterno e solo raramente rappresenta l’espressione di sé. I concetti principali legati alla propria abitazione sono comfort, semplicità e discrezione: i mobili e gli accessori che servono per arredare la casa, anche tra le famiglie più ricche, vengono scelti tra quelli locali e più a basso costo. E’ raro quindi che le famiglie cinesi organizzino cene in casa per amici o per parenti, preferiscono invece mostrare il proprio status sociale all’esterno, magari attraverso oggetti tecnologici, vestiti o automobili. Nonostante i rapidi cambiamenti che la società cinese sta attraversando, queste tradizioni sono dure a morire: l’avvertimento è direttamente rivolto a tutti quei mobilieri e designer che pensano di diffondere il made in italy all’interno delle magioni cinesi e che spesso non prendono in considerazione le abitudini, i bisogni e, soprattutto, le risorse disponibili.

Reddito disponibile pro capite: 13.700 yuan pari a 1.400€ (USA 29.540$, Italia 16.900€).
Tasso di crescita annuale dei consumi in Cina previsto per il prossimo decennio: +18 per cento (USA +2 per cento, EU +1,3 per cento).
Rapporto fra risparmio e reddito disponibile delle famiglie: 23 per cento (USA 1,2 per cento, Italia 15,9 per cento ).


Ma c’è ancora un ostacolo di cui spesso non viene tenuto conto, ovvero la traduzione del proprio brand o prodotto in ideogrammi. Se il marchio esprime un valore o ha un senso compiuto, la traduzione risulta piuttosto semplice. Ma se, come spesso capita, il nome dell’azienda deriva dalla città d’origine, o dal suo fondatore, o è semplicemente un nome di fantasia, allora il gioco si fa duro. Mentre i linguaggi occidentali codificano le parole in scrittura, qui ogni ideogramma (circa 40,000 caratteri) rappresenta una parola, è necessario quindi decidere come dovrà essere tradotto il marchio che entra in Cina sia foneticamente sia visualmente. Circa la metà dei brand stranieri che entrano in Cina sono tradotti foneticamente come il nostro Ferrari (“Fe la le”) o Nokia (“no ji ya”), quindi attraverso dei suoni simili, anche se non proprio uguali. L’altra metà dei marchi stranieri viene tradotto letteralmente come Shell (“bei ke” cfr. conchiglia) e Nestlè (“que chao” cfr. nido di rondine). Vale la pena raccontare il caso Coca-Cola che dalla nel 1928 rischiò di rimanere danneggiata dalla traduzione del proprio nome. Poiché Coca-Cola è un nome privo di significato, il gruppo di Atlanta prima di entrare nel mercato cinese cercò una traduzione che ne riproducesse il suono: scoprì però che vi erano circa 200 ideogrammi che potevano suonare come “ko ka ko la”. Mentre gli americani cercavano una soddisfacente combinazione di simboli che rappresentassero graficamente il proprio nome, gli importatori cinesi decisero di creare un marchio combinando caratteri che suonassero bene, senza tuttavia badare al significato nella forma scritta. Così Coca-Cola divenne in cinese “un cavallo femmina legato con la cera”. Puro nonsense.
Solo più tardi i responsabili marketing di Atlanta riuscirono a trasformare il proprio marchio con una traduzione più appropriata, che abbinasse al suono anche un significato coerente al prodotto. Così venne scelto la traduzione “qualcosa che fa resuscitare la bocca”.

La Cina oggi produce per tutto il mondo: il 75 per cento dei giocattoli, il 58 per cento dei vestiti, il 29 per cento dei telefoni cellulari e il 65 per cento di accessori e attrezzi sportivi.

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