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Tuesday, June 14, 2011

 
BRAND E CAUSE SOCIALI
Intervista a Michele Boroni

tratto dal libro"Secondo Rapporto sulla Comunicazione Sociale in Italia" (Carocci Editore)


Anche in Italia la “social brand theory” sta moltiplicando i suoi adepti, con un ritardo – classico - di circa una decina d’anni rispetto al mondo anglosassone. Quali sono, secondo lei, degli esempi di evoluzione del brand marketing verso una sempre più accentuata coloritura “social”? Una inarrestabile epidemia di politically correct, una moda passeggera, o un naturale indirizzarsi verso sempre del marketing verso sempre strategie sempre più raffinate di acquisizione e fidelizzazione di nuovi target? I brand possono essere portatori di messaggi socialmente rilevanti e orientati al miglioramento della comunità (in termini di cambiamento di idee o comportamenti)? Se dovesse fare degli esempii di evoluzione del social marketing tradizionale (prodotto vs causa sociale) al social branding, che ha realizzato questo obiettivo (o perlomeno ci ha provato) in modo felice?

Oltre al ritardo, questa volta si rischia anche l'equivoco. Nel frattempo, infatti, la parola social ha assunto anche altri significati, improvvisamente diventati molto più popolari del social inteso come “causa umanitaria”. Sto parlando ovviamente di social come derivazione di social network e quindi di quelle piattaforme di condivisione derivanti dal web 2.0 (facebook, twitter, foursquare eccetera..). Dopo questa premessa squisitamente semiotica, rispondo alla domanda.
L'evoluzione di cui parla è parallela alla presa di coscienza delle imprese, le quali si sono rese conto che i brand vivono all'interno della società, rappresentano elementi importanti che spesso servono a costruire identità di persone e di gruppi, e quindi devono cercare il più possibile di “presidiare” tutte le possibili aree di interesse e di intervento, compreso quella social.
L'evoluzione è, a mio modesto parere, ancora in corso: il passaggio fondamentale è quello di considerare la causa sociale non un semplice tool di marketing bensì come un elemento costitutivo per la costruzione del brand ed è necessario che questo sia perfettamente coerente con l'identità dell'azienda e con i suoi comportamenti, anche quelli interni, nei confronti dei fornitori, del territorio, della comunità di riferimento e, ovviamente, dei propri dipendenti. Laddove non esiste questa sistematicità e questa coerenza allora tutte le attività di social branding risultano inutili e, alcune volte, anche dannose agli occhi di un consumatore diventato persona, che oggi è molto più attento e maturo nei confronti di certe “dissonanze”.
Trovo piuttosto inefficaci e fuori luogo tutte quelle operazioni di “marketing umanitario” in cui aziende e marchi approfittano di una causa sociale per rifarsi il trucco e rappresentarsi di fronte al pubblico come etiche e responsabili. E leggo i fallimenti di queste operazioni spesso come un'evoluzione e un passo in avanti. Ricordo qualche anno fa l'operazione globale di charity denominata RED che coinvolgeva alcune tra le più importanti aziende “iconiche” di questi anni (Apple, Motorola, Gap, Giorgio Armani, American Express, Converse): queste aziende si impegnavano a produrre edizioni speciali colorate di rosso dei loro prodotti di punta – iPod per Apple, t-shirt Gap, il cellulare Motorola – e a donare una parte di proventi ad un fondo per combattere la lotta contro l’aids in Africa (per ogni iPod nano (RED) venduto a 199$, 10$ andavano a finanziare il progetto). L'operazione a fronte di una spesa di circa cento milioni di dollari in comunicazione ha ricavato solo 18 milioni di dollari. Bottino magrissimo, nonostante lo spiegamento di forze.
Il problema sta proprio in quello che lei chiama “coloritura social”. Finché queste attività verranno trattate, appunto, come una coloritura, o un semplice espediente di marketing per acquisire e fidelizzare nuovi target, queste operazioni saranno destinate al fallimento, o quantomeno non riusciranno a costruire niente di nuovo o di duraturo, sia nella costruzione del brand, sia nella sfera dell'utilità sociale.
Negli ultimi tempi il variegato mondo dei consumer tende sempre più a premiare attraverso i propri comportamenti d'acquisto quelle aziende che, a diversi livelli, investono nel sociale: sia finanziando determinate iniziative a scopo benefico sia attraverso la progettazione di prodotti e servizi che tengono conto di problematiche legate all’ambiente, alla comunità o alle categorie più disagiate.
Il consumatore da ricettore passivo si è trasformato in soggetto attivo e critico a cui non basta più il parametro del rapporto qualità-prezzo ma che, con le sue scelte, contribuisce a “costruire” l’offerta. Adesso ci troviamo di fronte ad una persona sensibile verso la sostenibilità ambientale e sociale e che è interessato a conoscere le modalità di produzione di un bene e che siano stati rispettati i diritti fondamentali dei lavoratori.
Dicendo questo tendo a non limitare il tutto al marketing, ma estenderlo all'impresa tutta, in ogni sua funzione. Oggi il brand si costruisce anche su questo e non solo sulla comunicazione o su attività di marketing. In Italia ci sono alcune aziende che stanno seguendo una politica aziendale (e quindi, di conseguenza, anche di marketing) coerente e interessante, mi viene da pensare a Illy e a Coop. Queste, seguendo una politica aziendale rigorosa o quantomeno coerente con alcuni valori, riescono ad essere più credibili e concreti anche nelle comunicazioni e nelle iniziative di marketing sociale.

Uno dei presupposti teorici dello sviluppo del marketing in chiave sociale pare essere il passaggio “dalla centralità della produzione alla centralità del consumo”, con il conseguente nuovo ruolo che assume il consumatore nel rapporto tra brand e prodotto. Secondo lei i brand che stanno facendo le operazioni più imponenti di societing (tanto per usare l’ultima invenzione linguistica di Giampaolo Fabris) abbiamo messo al centro della loro attenzione i consumatori? E come?
Un’altra delle caratteristiche del nuovo marketing socialmente orientato è il grande valore assegnato alla interattività (web 2.0, social network, virus marketing, guerriglia marketing, ecc.) tra produttore e consumatore. Lei pensa che questo valga anche nel caso di una campagna di comunicazione sociale?
Come accennato in precedenza, quello che un tempo si chiamava “consumatore”, e sul quale il marketing ha basato gran parte dei propri successi si è evoluto e potenziato, si è svincolato dalla passività in cui era relegato, si è fatto più intelligente e ha iniziato ad avere un ruolo attivo nella catena del valore. Il consumatore è quindi diventato persona: multidimensionale, informato, coscienzioso, maturo, spesso indipendente, critico, mutante e connesso. E le aziende oggi se vogliono accrescere il loro valore, quote di mercato e profitti devono collaborare con lui. Le modalità sono tante e variegate. La co-creazione e la co-produzione sono oggi una delle pratiche più influenti sull'innovazione sia sociale sia commerciale e i comportamenti partecipativi oggi riguardano sia la comunità dei consumatori sia quella dei consumatori più aziende
Molte aziende la usano come piattaforma relazionale con i propri clienti, nell'ottica del fare insieme, ad esempio usando feedback e recensioni e coinvolgendo clienti esperti per trovare nuove soluzione di idee, di progetti o di contenuti. In questo senso Ikea ha creato una efficace piattaforma di social media, oppure Lego Factory, per non parlare delle correzioni in progress fatta dagli utenti sui navigatori satellitari.
Non sempre però queste hanno una correlazione diretta con il mondo del social, inteso come cause sociali. In rete esistono degli esempi virtuosi e che funzionano come ad esempio Kiva, un'associazione di microcredito che mette in contatto, tramite il suo sito internet, persone che non hanno mezzi sufficienti a migliorare le loro condizioni di vita, con persone che hanno la possibilità di prestare anche piccolo somme, ovvero la gran parte di noi. E' evidente che la rete favorisce, per sua stessa natura, la partecipazione e la condivisione, ma oggi la gran parte delle aziende sono troppo prese per trovare il modello di business giusto per operare in internet e creare reddito, piuttosto che utilizzarlo per le loro attività umanitarie.
Anche perché la rete può essere per le aziende un arma a doppio taglio. La rete richiede massima trasparenza, visibilità e chiarezza verso tutto e tutti, e non sempre le attività aziendali in questo campo sono mai stati particolarmente limpide.
Le opportunità in effetti ci sono, anche perché molte cose sono cambiate in questi ultimi anni: il consumo infatti oggi serve anche per diffondere una consapevolezza etica, i prodotti diventano degli statements e dei messaggi che attivano la coscienza e aprono la strada ad alcune riflessioni in un orizzonte globale.

Immaginiamo che se importanti marchi globali investano milioni di euro e di dollari per rendere sociale il loro profilo lo facciano per implementare la notorità del marchio, fidelizzare i clienti/consumatori e aumentare le vendite dei prodotti. Ma è proprio così? Esistono dati che ci confermano che la Lancia associata al Tibet ha un richiamo superiore alla stessa vettura presentata, tradizionalmente, da una bella donna?
No, non esistono. E forse non ci sono e non ci saranno mai. Probabilmente questo è l'atteggiamento sbagliato per approcciare a questo tema. L'atteggiamento etico, la condivisione sociale e un comportamento che investe la sfera umanitaria non possono essere considerati e valutati solo in un'ottica di marketing, ma devono coinvolgere tutte le fasi e le funzioni aziendali. La solidarietà non può più essere attribuita ai buoni sentimenti, ma diventa una necessità e un dovere morale e sociale. Se non vi è trasparenza responsabile nei processi aziendali ( di produzione, di approvvigionamento etc..), se non c'è una visione etica reale che si estrinseca in azioni e in comportamenti nei confronti delle persone che lavorano all'interno dell'azienda o dei propri stakeholders, allora non ci potrà mai essere una sintonia tra etica e profitto, non si potrà quindi considerare la chiave della sensibilità e responsabilità come una opportunità di relazione con il mercato. Perché? Perché oggi le persone (clienti, fornitori, etc..) non si fanno facilmente abbindolare, e un'attività non paritcolarmente trasparente per il brand può diventare un boomerang.
Come già detto in precedenza più che di social marketing preferisco parlare di responsabilità sociale d'impresa o, come dicono gli americani, di Corporate Social Responsability (CSR), che poi inevitabilmente comprende anche il marketing. Quest’ultima tendenza si può facilmente notare osservando il crescente successo sul mercato dei prodotti cosiddetti “biologici”, delle nuove forme di turismo responsabile o solidale o dei collegamenti di prodotti mass market con iniziative quali la ricerca medica a malattie di forte impatto sociale ed emotivo o di solidarietà con persone investite da disastri naturali o sociali.
Ecco quindi che la responsabilità sociale può trasformarsi in un’opportunità di marketing. Oggi occuparsi di responsabilità sociale è ormai nell’agenda di ogni ruolo del business: stiamo assistendo ad una fase di “riconcettualizzazione” delle aziende, che devono creare nuovi modelli di impresa e nuovi processi interni. E’ necessario però evitare di considerare la Corporate Social Responsability semplicemente come un tool di marketing relazionale, riducendola a un kit di strumenti patinati che aiutano l’impresa ad apparire più responsabile nei confronti dei differenti stakeholders. Questo è il rischio che si corre quando nuovi processi o nuovi tematiche vengono associati alla funzione di marketing aziendale che è sempre più legato ai budget e a incrementare i target di vendita e sempre meno strategica. Per evitare tutto ciò è necessario che qualsiasi processo di CSR nasca per volontà di un management interno, e non da una società esterna di consulenza, che sia sensibile a promuovere un lavoro interno di ricerca e di condivisione di valori comuni rispetto, naturalmente, all’esercizio dell’attività dell’impresa e, dunque, al fare profitto in modo responsabile.

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