: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
CONSIGLI A LAPO - 18 Ilfuturo è dei nuovi vecchi, ma i pubblicitari devono ancora capire come trattarli.
Il Foglio - 25 Marzo 2005Per niente facile seguire le mode o anticipare e cavalcare il trend. Problematico, per le aziende, capire i desideri di ragazzotti e ragazzotte che in realtà non sanno neppure loro quel che vogliono. Una fatica immensa per gli uffici marketing riuscire a interpretare i loro messaggi, individuare gli stili di vita emergenti, anticipare i loro bisogni e comprenderne i linguaggi. Ma il vero problema è la comunicazione: sono ben poche le aziende che riescono a parlare in modo naturale, credibile e attraente ai ragazzi della generazione Y (che ormai quelli della classe X di couplandiana memoria hanno la station wagon, il televisore al plasma e "Il codice Da Vinci" sul comodino, e puoi vendere loro qualsiasi cosa) così i soldi e le risorse spese per organizzare dei focus group o per sguinzagliare dei cacciatori di tendenze in giro per il mondo spesso risultano inutili e dannosi e, in questi casi, lo sfottò è automatico. Ne sa qualcosa McDonald’s USA che alcuni mesi fa lanciò una massiccia campagna pubblicitaria su internet il cui claim era "I’d hit it" nel senso di "lo prenderei" ma anche "lo cliccherei", peccato che per lo slang giovanile sia stato inteso con "voler far sesso con un cheesburger". Anche in Italia certi tentativi gergali giovanilisti usati in pubblicità sfiorano il ridicolo e provocano una sorta di effetto boomerang, basti pensare a certe comunicazioni della Ferrero del tipo "tutto ciccia e brufoli" o "Il dentale mi pettina il wafer tipo caimano. Ma è il labiale che mi masterizza l'evento".
E poi i teen agers e i twixters (nuovo target made in USA, a cui Time Magazine dedicò tempo fa la storia di copertina, che identifica quei venticinquenni con la paura di crescere) sono volubili e tremendamente infedeli, hanno scarsa disponibilità finanziaria e, lo si dice da anni in tutti i modi, sono sempre di meno.
Non si capisce quindi perché molte aziende continuino a inventare continuamente prodotti e campagne di marketing per il pubblico dei giovani, quando esiste una fascia di consumatori decisamente più attraente e profittevole: trattasi della categoria dei "nuovi vecchi".
Dimentichiamoci una volta per tutte la figura stereotipata dell’anziano "povera stella" rigido nei consumi, fedelissimo solo ad una marca e difficile da raggiungere: il progressivo invecchiamento della popolazione ha messo in crisi questa visione semplicistica. Ricordiamoci invece che gli ultra 64enni di oggi hanno uno spirito che è maturato negli anni del boom, quando furono protagonisti della nascita del consumismo e quindi ora non rappresentano più quel soggetto marginale, conservatore e appartato come gli istituti di ricerca lo avevano fino ad ora tratteggiato. Peraltro questa tendenza è in assoluta crescita in quanto il cinquantenne consumatore aggressivo e smaliziato di oggi ha elevate probabilità di rimanere in vita per i prossimi trent’anni rimuovendo qualunque remora relativa ai rapporti a breve termine che era attribuita a questa categoria, anche se le pensioni per il futuro possono rappresentare un’oscura incognita.
Nel mercato USA delle automobili, letteralmente ossessionato dal culto della giovinezza, alcuni accessori senior friendly e per la sicurezza della guida stanno diventando un efficace vantaggio competitivo per la vendita di molti modelli: Ford e General Motors hanno guadagnato importanti fette di mercato grazie ad optional quali il "night vision", un sistema che rileva la presenza di forme vitali sfruttando la tecnologia dei raggi infrarossi e ne proietta un’immagine in bianco e nero sul parabrezza, oppure sedili e pedaliere ergonomiche e doppie cinture di sicurezza.
Segnali deboli si iniziano a intravedere anche qui in Italia: basti pensare all’enorme successo che stanno riscuotendo in Italia e all’estero i prodotti per la sicurezza Beghelli e alle pubblicità dei 4 Salti in Padella o del Pronto Liquido in cui una nonnina approfitta dell’assenza dei figli e dei nipoti per organizzare un party: ma sono ancora figure stereotipate e raccontate in modo ironico.
Ma il target maturo non è cosi facile da convincere: la regola numero uno che le divisioni marketing devono imparare è che i "nuovi vecchi" non vogliono affatto essere trattati come tali, anzi rifiutano ogni tipo di ghettizzazione.
In futuro perciò non avranno successo proposte specifiche per gli anziani, ma crescerà l’offerta di soluzioni adatte agli adulti e ai post-adulti che abbiano caratteristiche di comodità, lentezza e piacevolezza, valori che verranno adottati anche per prodotti e comunicazioni rivolte ad un pubblico più vasto.
E se qualcuno non l’avesse ancora capito: il passato è stato dei giovani, il futuro sarà degli anziani.
Attento all'hamburger, parola di McDonald's (paredosso neosalutista)IlFoglio - 17 Marzo 2005
Abbiamo un problema.
Non è ancora iniziata la crociata salutista tanto voluta e strombazzata dal ministro Sirchia - per il momento si è vista solo qualche piramide dei bisogni alimentari nelle ultime pagine di cronaca dei quotidiani, un paio di interventi politicamente corretti di ex ministri della Salute e allarmanti percentuali dei casi di obesità infantile - che, improvvisamente, è venuto a mancare il nemico da combattere. Ed è un problema quando l’incarnazione del male passa dall’altra parte della barricata: è come se Bonolis chiedesse scusa a Ricci e conducessero un programma insieme. Insomma, se non c’è più il nemico, che gusto c’è a combattere.
Ma veniamo ai fatti: la scorsa settimana a New York la McDonald’s Corporation, nella persona dell’amministratore delegato Jim Skinner, ha presentato alla stampa la nuova campagna di marketing nonché la nuova identità della più grande catena di fast food. Il messaggio principale che viene ora comunicato è: le persone (non viene specificato se tra queste sono inclusi i clienti di McDonald’s) devono prestare attenzione a ciò che mangiano e al loro livello di attività e di esercizio fisico al fine di trovare un giusto equilibro. In pratica: mangiate meno troiai e fate più sport: i più perspicaci tradurranno "non venite più da McDonald’s". Un conflitto d’interessi come non se ne vedeva da tempo: all’apice della contraddizione, uno degli spot che verrà programmato in heavy rotation in tutti i network americani recita in coda "forse tu dovresti stare meno davanti alla tv".
Tutto questo non può non far ricordare quello che è successo alle multinazionali del tabacco e alla campagna antifumo che si è scatenata: con la sola differenza che, in questo caso, McDonald’s sta agendo in totale autonomia, senza che vi sia stata la sentenza di un tribunale. Di fronte all’oggettivo problema alimentare - alterato e amplificato da allarmistiche statistiche fatte con i piedi, ma la preoccupazione esiste, comunque - che colpisce le fasce più giovani, la multinazionale catena di fast food, ma anche altre aziende come Kraft, Kellogs e Nestlè sono state prese di mira da associazioni di consumatori, amministrazioni locali e media, e additate come i principali responsabili delle cattivi abitudini nutrizionali del popolo americano. E come ogni grande corporation anche Mc Donald’s - che nel frattempo ha subito una brusca frenata nelle vendite - ha approfittato della questione per ribadire e riconoscere l’appeal, l’influenza e il potere che si è conquistata sul campo nei confronti delle nuove generazioni: "La nostra dimensione e la nostra forza ci permettono di essere da esempio per tutti" ha comunicato tronfio Jim Skinner per poi dichiarare "Stiamo ascoltando, stiamo imparando e stiamo per cambiare". Già, perché la nuova strategia McDonald’s non si ferma solo alle dichiarazioni d’intenti o ai messaggi pubblicitari; sono stati infatti presentati i nuovi menù "salutari" tra cui un Happy Meal che comprende insalata, frutta, bottiglia d’acqua e un contapassi (si, un contapassi: se il messaggio didascalico non fosse stato abbastanza chiaro) in omaggio; inoltre verranno eliminati i grassi insaturi dal cibo e dalle patatine, ovvero i principali ingredienti che rendono le schifezze di McDonald’s cibi saporiti e buoni.
Tornando alla campagna "Go Active! American Challenge" (titolo che sembra suggerito da Condoleezza Rice, come ironizza Naomi Klein sul Guardian) il passaggio al nuovo corso McDonald’s è stato per l’agenzia Leo Burnett piuttosto impervio anche nei termini di pura semiotica pubblicitaria: fino a poco tempo fa infatti il messaggio della grande M gialla era "you are what you eat" (sei quello che mangi), adesso il claim si è trasformato in "it’s what I eat and what I do. I’m lovin’ it" (ciò che mangio e ciò che faccio, lo amo) spostando quindi il focus dal pericolosissimo binomio cibo-identità ad un messaggio più salutista che punta più sull’equilibro e sull’attività fisica: sono stati quindi convocati per la nuova campagnia pubblicitaria atleti e sportivi del calibro di Vanessa e Serena Williams (ex chiattone cresciute a BigMac) e lo snowboarder professionista Crispin Lipscomb: ad affiancare poi il sinistro Ronald McDonald’s - il clown giallo e rosso come la mostarda e il ketchup - è stato creato per l’occasione un nuovo pupazzetto, una specie di figura arcimboldiana con la faccia di lattuga, invero più terrificante del vecchio clown e che si presenta come nuovo spauracchio per i poveri bambini americani e presto anche degli italiani.
Messaggio riservato a tutti i fans dei mega cheesburger: Burger King, il principale rivale, per il momento non ha nessuna intenzione di cambiare né la comunicazione, né tanto meno gli ingredienti dei suoi panini unti e grassi, grazie al cielo.
CONSIGLI A LAPO /17Pubblicitari, rivolgetevi ai figli. Se il babbo compra il suv, è perchè gliel'han suggerito loro.
Il Foglio - Giovedi 17 Marzo 2005"Papà, papà me lo compriii, daaaiii me lo compriii, ddaaiiiii?!". Questa comune e diffusa cantilena, recitata da un bambino, è in realtà l’espressione preferita e auspicata dai pubblicitari e da tutti coloro che gravitano intorno al marketing e alla comunicazione di prodotti rivolti alle "persone corte", al punto tale che è stato coniato un termine specifico, il "nag factor" letteralmente il "fattore assillo o di sfinimento": gruppi di psicologi dell’eta evolutiva da anni concentrano i propri studi non tanto sul convincerli all’acquisto, considerato che i bambini non hanno molti soldi in tasca, bensì a come persuaderli ad assillare i genitori affinché questi comprino i prodotti comunicati e desiderati. L’obiettivo sta quindi nell’individuare, teorizzare e diffondere, attraverso la pubblicità, quel genere e quel livello di assillo a cui un padre o una madre non possono dire di no.
Contro l’applicazione degli studi sul nag factor si è scagliato il catastrofista Joel Bakan autore del documentario e del libro The Corporation (distribuito da Fandango) che vede in questo approccio un insostenibile sfruttamento verso i consumatori più indifesi e plasmabili con il fine ultimo di prepararli al futuro, al loro inserimento nel mercato, per farli diventare dei bravi consumatori. Invero la realtà è ben più complessa e stratificata rispetto a quella che Bakan descrive con approccio michaelmooriano: la verità, da una parte, è che sono i bambini ad influenzare le scelte di consumo non solo dei beni a loro destinati ma anche dei prodotti e i servizi per la famiglia: anni fa un ragazzino poteva dire la sua, se interpellato, al massimo sul colore della macchina del papà, adesso impone direttamente la scelta d’acquisto del suv o della station. Ed è per questo motivo, rimanendo ancora nel settore delle auto, che le pubblicità delle aziende sono sempre più ironiche, giocose, meno legate allo status symbol ma che strizzano l’occhio a codici visivi più vicini ai fumetti, proponendo colori e forme che fino a pochi anni fa erano impensabili da applicare su un auto. Si stima che in USA i bimbi tra i quattro e i dodici anni spendano, tra doni e paghette varie, direttamente 30 miliardi di dollari, ma soprattutto influenzino 500 miliardi di dollari di acquisti dei genitori; da una recente analisi di mercato, poi, si evince che al supermercato il 40% dei"prodotti acquistati sono scelti direttamente dalle "simpatiche personcine” che sono assai più furbe e scafate di quanto si possa immaginare.
L’altra innegabile verità, che non viene presa in considerazione da Bakan, è che sono i genitori ad essere i veri soggetti deboli e fortemente vulnerabili: ora non vogliamo qui fare della psicologia spicciola, ma sappiamo bene che sono stati per primi i babbi e le mamme, per riparare le proprie assenze o disattenzioni e per incoraggiare l’autostima dei piccoli, a coinvolge i figli nelle scelte e nelle decisioni d’acquisto; per non parlare delle spese che in America chiamano il "guilt money" ovvero il denaro o i mille regali donati per rimuovere i sensi di colpa.
Nel marketing di oggi soggetto a continue rivoluzioni, non ha più senso segmentare il mercato in base a stili di vita o parametri socio-economici, ma neppure differenziare i target di riferimento per sesso o per età: durante le settimane di shopping pre-natalizio, ad esempio, entrando in un qualsiasi megastore di elettronica non era inconsueto vedere bambini che si avviavano verso i settori di elettronica sofisticata per vedere l’ultimo iPod, la nuova generazione di palmari e in generale verso gli “strumenti dei grandi”, mentre i padri si sollazzavano nei reparti dei videogiochi per la PlayStation o per telefonini.
Perciò se i bambini sono più interessati all’hi-tech e all’informatica e a giochi sempre più personalizzati ed interattivi, i quarantenni, affetti da una patologica "sindrome peterpanesca", sono alla ricerca di prodotti e oggetti che facciano riferimento alla propria infanzia: in Giappone dove questo genere di tendenze viene colto con drammatico anticipo, sta spopolando, anche a causa di un drastico calo delle nascite, una baby bambola parlante (Yumel doll) una sorta di rimedio terapeutico studiato e rivolto ad un pubblico adulto, disperatamente solo e senza animali. Una delle 1200 frasi che la bambola pronuncia è "Me lo compri?".
Così per Spot Le avvertenze dei medicinali e lo speaker che non respira.
Vanity Fair -17 Marzo 2005Il tempo nella pubblicità televisiva è tassativo e inesorabile. 15, 30 secondi al massimo non uno di più. Le storie e le situazioni da raccontare in uno spot spesso però sono complesse, le informazioni da comunicare tante e, talvolta, previste dalla legge.
Prendiamo il caso dei farmaci da banco, quelli acquistabili senza ricetta, ovvero gli unici medicinali che si possono pubblicizzare in tv.
Secondo il COdice di Autodisciplina Pubblicataria, la spot deve "richiamare l’attenzione del consumatore sulla necessità di opportune cautele nell’uso dei farmaci invitando in maniera chiara ed esplicita a leggere le avvertenze della confezione e non inducendo a un uso scorretto dei prodotti medesimi".
Ma chi ha visto o ascoltato alla radio queste pubblicità sa come vengono recitate.
E n mdcnl, smnstrr cn catl, lgg ttntmnt lfgl llstrt, nn smnstrr mnr ddc nni.Praticamente un codice fiscale.
Le frasi, già lette rapidamente da abili speaker, in fase di montaggio vengono ulteriormente accelerate del 30-40% con un programma di editing audio. E se ancora "sforano", vengono poi tagliate nei punti in cui lo speaker respira. Con il risultato finale che la chiarezza richiesta rimane un’illusione.
CONSIGLI A LAPO - 16Non guadagna di più chi vende più dischi ma chi sa creare "vecchie canzoni per il futuro".
Il Foglio - Martedi 8 Marzo 2005I cantanti e i gruppi rock che guadagnano di più non sono quelli che vendono
il maggior numero di dischi. Questo è ciò che succede nell'era del download,
della masterizzazione selvaggia e delle vacche magre del mercato discografico
dove, ad esempio in Italia, bastano appena 2000 copie per entrare nella
top 10 dei dischi più venduti. Ma, soprattutto, questo è ciò che si evince
dalla classifica - redatta dai giornalisti di Forbes e pubblicata dal Rolling
Stone americano - dei cantanti e delle band che hanno guadagnato di più
nel 2004. Il risultato è sorprendente e spiega il mercato discografico meglio
di mille interviste e analisi fatte da discografici e da critici musicali.
Tanto per iniziare il primo della lista è Prince che grazie al suo tour
da tutto esaurito, autoprodotto senza troppi sfarzi, alle sue più che convenienti
percentuali sugli incassi e al ricavato del disco "Musicology" venduto durante
le date dei concerti a soli 10$ netti, senza cioè riconoscere alcuna commissione
a dettaglianti e rivenditori vari, è riuscito a guadagnare oltre 56milioni
di dollari nel 2004. Al secondo posto c'è Madonna: anche nel suo caso non
sono state certo le scarse vendite dei dischi a farle guadagnare il secondo
gradino del podio bensì il suo faraonico e esosissimo tour e, in ultima
battuta, i quattro libri per bambini che ha scritto durante l'anno: il tutto
complessivamente le ha fruttato un guadagno di 55 milioni di dollari. A
seguire poi Metallica, Elton John, il cantante country Jimmy Buffet, Rod
Stewart, Phil Collins e Van Halen che, oltre a guadagnare dalla vendita
dei loro dischi e greatest hits, sono riusciti a trovare nuovi introiti
nel merchandising, nella vendita di documentari in dvd, nella creazione
di catene di negozi e ristoranti, linee d'abbigliamento e convention aziendali
(gli Eagles, ad esempio, chiedono ai vari general manager delle grandi coprporation
più di 4 miliardi del vecchio conio come cachet per ogni singola data).
No, non ci siamo sbagliati, non abbiamo distrattamente preso un giornale
del 1988; il vertice di questa classifica è proprio occupato da un manipolo
d?arzilli e creativi quaranta-cinquantenni che hanno capito da che parte
soffia il vento, mentre i vari Eamon, Eminem, Britney Spears e U2 pascolano
verso gli ultimi posti.
Il fatto è che i discografici non hanno ancora capito o continuano a fingere
di non capire, il grado di maturità, prossimo al declino, in cui versa il
mercato discografico da ormai parecchi anni. Il fatto è che il target più
redditizio del mercato è il quarantenne benestante, quello che non ha né
tempo, né voglia di scaricare musica da internet, né tanto meno di chiedere
al "ragazzo del computer" di masterizzargli l'ultima novità; è quello che,
mediamente poco informato sulle ultime uscite, ma molto influenzabile dalla
pubblicità o dal consiglio dell'amico, il sabato pomeriggio entra in un
negozio di dischi e ne esce solo dopo aver lasciato alla cassa 200-300 euro:
ed è solo così che si spiega il successo di Norah Jones ma anche il revival
anni ottanta (e le conseguenti reunion dei Duran Duran o dei Tears for Fears)
e il ritorno della new wave. Sulla base di tutto questo, risulta quindi
inutile e dannoso continuare ad investire su band e cantanti cool e hip
quando è ormai appurato che sono solo i suoni vecchi a creare profitto.
Ma in questo scenario piuttosto desolante una via d'uscita, in fondo, c'è
ed è quella di stimolare i compositori a non scrivere più nuove canzoni,
bnesì creare vecchie canzoni per il futuro. Non più instant pop songs che
seguono solo la moda del momento, ma canzoni "da catalogo" che troveranno
il loro massimo successo solo dopo qualche anno.
Vecchie canzoni per il futuro.
Altrimenti, se così non sarà, si avvererà il presagio "cannibalista" fatto
da un oscuro gruppo inglese degli anni ottanta: Pop Will Eat Itself. Il
pop mangerà se stesso.