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EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
Tuesday, January 25, 2005
CONSIGLI A LAPO - 12
La promozione di un film fatta con le Adidas fantasma. Gli azionisti "da ginnastica".
di Michele Boroni
Il Foglio - Giovedi 27 Gennaio 2005
"The life aquatic with Steve Zissou" non ha vinto la gara degli incassi dei film natalizi negli Stati Uniti e neppure ha riscosso troppi favori dalla critica, ma è riuscito ugualmente a far parlare di sé e ad assicurarsi lo status di cult movie del 2005.
L’ultimo film di Wes Anderson, come del resto anche il precedente "The Royal Tenenbaums", gioca gran parte del suo fascino sull’atmosfera retrò, sui dettagli e sui personaggi fortemente caratterizzati, specialmente nell’abbigliamento vintage periodo fine anni settanta. In questo film il bizzarro oceanografo Steve Zissou - interpretato da Bill Murray - e il suo team esibiscono un guardaroba composto da tutine da ginnastica, costumi slip Speedo e soprattutto delle originali e coloratissime scarpe da ginnastica Adidas. Sono proprio queste ad aver scatenato il buzz, cioè quel passaparola spontaneo che negli ultimi tempi rappresenta una delle leve di marketing "dal basso" più efficace per il lancio di prodotti e servizi.
Durante la produzione del film il regista chiese alla multinazionale americana di produrre una decina di scarpe, ispirate ad un vecchio modello degli anni sessanta, da far poi indossare al cast. Le scarpe realizzate (chiamate Adidas Zissou) si rivelano fighissime e chi ha visto il film desidera ardentemente possederle (la febbre da calzatura non colpisce solo le Manolo o le Jimmy Choo, ma anche le più volgari sneaker); si apre così la caccia e la ricerca dell’articolo su internet e nei negozi di articoli sportivi. Ma, ovviamente, non vi è traccia: gli uffici della Adidas vengono bombardati da migliaia di richieste e di informazioni, la laconica risposta del customer service è che le scarpe non sono in commercio. Punto. Così Josh Rubin, un blogger americano piuttosto famoso nella rete, propone sul suo weblog una "ghetto version" del modello, cioè una riproduzione fatta in casa utilizzando un vecchio paio di Adidas molto popolari negli Stati Uniti: i giornali (dal New York Times a USA Today) e i blog ne scrivono, ne parlano e creano il caso. Risultato: il film torna ad esser proiettato nelle sale e ad incassare.
In tutto questo chi ne esce piuttosto male è proprio il colosso Adidas che non è riuscito a sfruttare la situazione favorevole in cui si prospettava una domanda garantita e, soprattutto, una pubblicità gratuita. Ma anche un case history da raccontare: gli esperti di nuove tecniche di promozione lo chiamano "Just-in-Time Marketing" cioè la capacità che un’azienda dovrebbe avere nel cogliere e capitalizzare le opportunità offerte da un mercato in costante e veloce cambiamento. Non più strategie a lungo termine, ma un modello organizzativo rapido, elastico ed estremamente flessibile.
"Non esiste il futuro, solo un presente mutevole": questa pare sarà la nuova regola e la sfida per i prossimi anni.
Le scarpe da ginnastica hanno più potere di quanto noi possiamo immaginare. Con le sneaker si può fare anche politica. Così almeno la pensano quelli di Adbusters, associazione no profit con sede a Vancouver che da circa quindici anni combatte contro lo strapotere della pubblicità e delle multinazionali che tutto omologano e appiattiscono. Per screditare la società degli iperconsumi, Kalle Lasn e la sua cricca utilizzano in modo spregiudicato e situazionista le stesse armi del nemico, ovvero la pubblicità e la potenza del marketing: nei primi tempi, solo con la rivista che conteneva contropubblicità e campagne contraffatte, poi con il "buy nothing day" (il giorno senza acquisti) e adesso direttamente con la produzione industriale.
Il nemico da combattere in questo caso è Nike, la multinazionale dell’Oregon accusata da sempre di sfruttare gli operai nelle fabbriche asiatiche. Così l’Adbusters Media Foundation ha comprato una fabbrica in Portogallo e dopo avere definito le regole per una produzione corretta, equa e solidale - qualità del lavoro, salario più alto della media, orari sostenibili, utilizzo di materiali naturali e biodegradabili e nessun agente chimico - ha avviato il progetto per la produzione e la vendita delle Blackspot sneaker.
Sono molto simili alle Converse di tela (nota: la Converse è stata recentemente acquisita dalla Nike), quelle dei giocatori di basket USA di un tempo, ma non hanno logo; vengono vendute via internet a 67,5$ (ma anche in 200 punti vendita sparsi negli Stati Uniti) e sul sito sono ben specificati i costi di produzione e il profitto, che viene reinvestito sul singolo prodotto.
Dicevamo, fare politica con le scarpe: già, perché ogni paio di Blackspot ha un numero di serie unico, grazie al quale l’acquirente entra in possesso di un azione e ha così diritto di voto nelle assemblee della AdBuster Media Foundation. L’obiettivo dichiarato nello statuto è quello di dare un calcio a Phil Knight, l’odiato patron della Nike (a quello serve il puntino rosso posto sulla punta delle scarpe) e di rosicchiare un 1% di quota di mercato alla corporation della virgola.
La strada è ancora lunga.
Saturday, January 22, 2005
Harry, Sally, Ingrassia
Una commedia perfetta approda sul palcoscenico milanese per la gioia di spettatori masochisti.
(La settimana Incom)
Il Foglio, Sabato 22 Gennaio
di Michele Boroni
E’ un impulso masochista quello di ostinarsi a volere assistere a rappresentazioni in forme diverse di opere che, nella versione originale, sono oggettivamente perfette. Sarà per l’intrinseca soddisfazione nel dichiarare poi con voce ferma frasi del tipo "il libro era tutt’altra cosa" o "era molto meglio il film". Sarà perché c’è chi, ancora più sadomasochisticamente (e astutamente) continua a produrre questi adattamenti. Sarà quel che sarà, ma la versione teatrale di "Harry ti presento Sally" di Nora Ephron poteva essere un buon pretesto per chi come il recensore qui e come molti trentenni e qualcosa, diserta da anni le sale teatrali in favore delle più soddisfacenti visioni prolungate di serie tv americane in dvd.
Il film del 1989 di Rob Reiner è ancora oggi, nonostante i maglioni di lui e le capigliature di lei, un film mirabile e attuale. Mirabile perché splendidamente scritto e interpretato, attuale perché affronta, con un lieto fine che non prevedeva sequel, l’annoso tema del rapporto amicizia-amore-sesso tra uomo e donna.
Le premesse all’entrata del Teatro Nuovo, dove veniva rappresentato l’adattamento teatrale curato da Giorgio Marianuzzo, non erano le migliori: la versione inglese interpretata da attori da sitcom (Luke Perry, il Dylan di "Beverly Hills 90210" e Alyson Hannigan, la lesbica di "Buffy l’ammazzavampiri") non aveva entusiasmato, e chi l’aveva visto era uscito dal teatro fremendo dalla voglia di noleggiarsi il dvd.
Ma il recensore qui ha commesso un errore imperdonabile: la sera precedente alla prima milanese è stata dedicata alla visione, in compagnia di un gruppo di amici, del film in dvd (insieme a Colazione da Tiffany e C’è posta per te). E si è vista una New York splendidamente fotografata in tutte le stagioni, riconosciuti bar, ristoranti e negozi e mille altre location che ovviamente si perdono nella versione teatrale. Abbiamo anche apprezzato la recitazione tutta mezzi toni, sguardi e silenzi dell’ottimo Billy Crystal: Gianpiero Ingrassia, al contrario, estremizza il personaggio, lo rende isterico e sopra le righe, praticamente una macchietta e così le stesse battute da comico ebreo-newyorkese hanno qui il sapore delle barzellette del Bagaglino.
Abbiamo trovato geniali anche gli inserti stile documentario delle vecchie coppie che raccontano il loro primo incontro e che inframezzano le vicende di Harry e Sally, inserti che il regista Daniele Falleri ha ritenuto opportuno non inserire.
Infine tutti quanti siamo stati d’accordo nel dire che Meg Ryan pre-botox era proprio carina, simpatica e credibile, in una sola parola, perfetta nel ruolo: sul palcoscenico Marina Massironi regge benissimo il confronto.
Un errore imperdonabile quello di aver visto il film prima della rappresentazione teatrale, un errore che ci ha fatto ricadere nel più squallido del cliché.
"I ristoranti per gli anni ottanta sono ciò che i teatri erano per gli anni sessanta" è la frase scritta da Joe (l’amico di Harry) sul New York Magazine e che Marie (l’amica di Sally) cita durante la cena a quattro, quella in cui poi i due se ne vanno anzitempo. Ora non è proprio così. Forse ora è vero il contrario, dal momento che al teatro adesso puoi trovare i concorrenti del Grande Fratello o le letterine come in un qualsiasi ristorante alla moda.
Resta ancora da capire a cosa possiamo paragonare la visione in casa con amici di interi cofanetti di serie tv o saghe cinematografiche in dvd.
“Harry ti presento Sally” di Nora Ephron con Gianpiero Ingrassia e Marina Massironi. Regia Daniele Falleri. Al Teatro Nuovo di Milano, fino al 6 Febbraio.
Thursday, January 13, 2005
CONSIGLI A LAPO - 11
Jingle addio, sono bastate cinque note di "sonic brand" per rendere famoso un marchio
di Michele Boroni
Il Foglio - Giovedì 13 Gennaio 2005
Cinque note. Sono bastate cinque note perché un marchio di microprocessori - un prodotto senza appeal, conosciuto fino a dieci anni fa solo da ingegneri o smanettoni di pc - diventasse uno dei dieci global brand più noti e riconosciuti nel mondo. Stiamo parlando di Intel Inside, l’azienda che ha inventato e prodotto il Pentium ovvero il cuore e il cervello dell’80% dei personal computer delle nostre case e dei nostri uffici.
All’inizio degli anni Novanta, all’alba della diffusione massiccia dell’home computer, Andy Grove, chairman della Intel, decise che la propria azienda doveva avere una visibilità non solo presso le case produttrici di hardware a cui forniva i componenti, ma anche verso il grande pubblico; creò così un marchio grafico ma soprattutto un sonic brand, un segno di riconoscimento musicale con cui accompagnare il proprio logo negli spot televisivi, radiofonici e su internet. Praticamente questa comunicazione sonora fu imposta a tutte le pubblicità delle aziende che utilizzavano i microprocessori Pentium. Il risultato è che da circa sei anni il "Dum, da da da duuumm" legato al marchio Intel - composto dal musicista austriaco Walter Werzowa noto anche per aver scritto, alla fine degli anni Ottanta, l’hit techno "Bring me Edelweiss" - viene ascoltato in media una volta ogni cinque minuti su tutto il globo.
Il suono rappresenta il modo più semplice per scavalcare le barriere culturali o di linguaggio e quindi per comunicare su scala globale: la musica lavora su un livello emozionale e dato che l’ascolto non richiede lo stesso grado di attenzione dello sguardo visivo, ecco che il "marchio sonoro" arriva in alcune parti del cervello che altri strumenti di marketing non riescono a raggiungere.
Pare che l’efficacia di questo mezzo sia stata di recente intuita da molti: non è certo un caso che Mc Donald’s abbia deciso solo ora di produrre la prima campagna di brand globale: seppur i soggetti degli spot siano diversi a seconda dei paesi, tutti questi si concludono con le quattro note di "I’m lovin’ it", marchio sonoro la cui versione originale per il mercato USA era cantata da Justin Timberlake e prodotto dai Neptunes ovvero i producer più cool del momento che pare non disdegnino le migliaia di dollari che mensilmente raggiungono il loro conto in banca. Da quando questa campagna è on air, nei dieci paesi più importanti per la multinazionale del fast food il grado di popolarità e di ricordo della pubblicità è cresciuta presso il target a cui era rivolto (quello dei young adults ovvero il bersaglio principale delle stragrande maggioranza della pubblicità oggi).
Non sempre la creazione di un sonic brand è frutto di una strategia pianificata, talvolta sono il caso e l’occasione a guidare certe decisioni. Quelli della Nokia, ad esempio, quando nel 1992 scelsero casualmente per la pubblicità di un modello di cellulare la melodia del brano "Gran Vales" composto anni prima dallo sconosciuto musicista Francisco Farrega, non avrebbero mai pensato che in futuro questa sarebbe diventata il principale segno di riconoscimento dell’azienda finlandese. Le migliaia di richieste di informazioni degli utenti hanno fatto sì che quel motivetto diventasse il "NokiaTune" ovvero la suoneria principale installata su tutti i telefonini Nokia: molti sostengono che adesso questa sia la melodia più popolare, suonata e riconosciuta nel mondo.
Siamo così bombardati giornalmente da loghi, immagini e slogan che una breve sequenza di poche note, specie se accattivante e d’impatto, ha la capacità di insinuarsi nella nostra testa e non mollarci più: praticamente il sogno di ogni pubblicitario diventa realtà. Così anche la compagnia telefonica americana T-Mobile che recentemente è entrata nel mercato anglosassone, per il proprio lancio ha scelto di comunicare attraverso un efficace sonic brand. D’altra parte i jingle pubblicitari, ovvero le canzoni composte appositamente per gli spot, hanno da tempo perso fascino presso il grande pubblico e chi prima si occupava di scriverli adesso cerca canzoni già pronte da abbinare agli spot o al massimo riarrangia pezzi già noti.
In Italia intanto ci stiamo attrezzando: per dire, al momento il sonic brand più popolare è la peta dello spot degli orologi di Dolce & Gabbana.
Friday, January 07, 2005
CONSIGLI A LAPO - 10
Perchè i rapper fanno vendere e perchè alcuni marchi prendono le distanze dall'hip-hop.
di Michele Boroni
Il Foglio - 7 Gennaio 2005
Mercedes, Gucci, Cristal, Jaguar, Hennessy: un tempo, stile lusso e buon gusto; ora, i brand più consumati, amati e citati da personaggi quali 50 Cent, Jay-Z, Ol' Dirty Bastard e da una lunga serie di altri rapper tamarri arricchiti.
La società di consulenza Agenda Inc. di San Francisco ha di recente analizzato i testi delle canzoni che hanno dominato la top 20 di Billboard nel 2004 e ha rilevato che nell’80% dei testi rap - decisamente il genere più venduto in Usa oggi - vengono citati marchi e prodotti di lusso che rappresentano dei veri e propri status symbol tra le nuove generazioni dei gangsta rapper.
Tutto questo in fondo non è una sorpresa: i giovani neri e i latinos che vivono nelle grandi metropoli amano celebrare il loro successo nella vita e negli affari in modo assai visibile e l’effetto è che i testi delle canzoni rap tendono a raccontare la loro esistenza come un viaggio all’interno di uno shopping center. Già negli anni ’80, alla nascita della cultura hip-hop, i marchi dei prodotti venivano trattati come feticci: basti pensare ai loghi Mercedes e Volkswagen rubati dalle macchine dell’Upper West e usati come ciondoli appesi ai catenoni palesati dai ragazzi di Harlem o alla canzone dei Run Dmc "My Adidas". Adesso però la posta in gioco è decisamente più alta e sono molti i rapper come P.Diddy o Snoop Doogy Dog che si sono trasformati in imprenditori e hanno creato dei propri marchi e linee di prodotto nei settori più diversi, dall’abbigliamento agli alcoolici.
Così se il rap all’inizio degli anni ’90 era la CNN del ghetto - come disse Chuck D, il leader dei Public Enemy - adesso si è trasformato in una sorta di Carosello, di Superbowl (inteso come ricco contenitore pubblicitario) dei rapper arricchiti troppo in fretta.
Il product placement di marchi di lusso all’interno dei testi dei pezzi rap (e nei videoclip) sta incrementando le vendite e i fatturati dei prodotti in questione che, fino a pochi anni fa, erano destinati solo ad un target wasp danaroso: è il caso ad esempio dello champagne Cristal che viene prodotto dalle migliori uve dei 200 ettari di vigneti nella Champagne: la produzione è ovviamente scarsa e negli ultimi anni la Roederer non sempre è riuscita a far fronte alle richieste dei club e dei ristoranti legati alla comunità hip-hop ed a quelle esose ed eccessive delle star del rap: pare che il rapper Jay Z non inizi un concerto senza due Matusalem freschi nel backstage.
Quel che stupisce è che il cognac o il brandy siano diventati le bevande più hip nei club californiani: Hennessy e Courvoisier fino a poco tempo fa erano considerati dei liquori da connoisseur da gustare comodamente in poltrona, adesso invece sono gli ingredienti più usati per cocktail da wild party. Questo successo (una crescita delle vendite pari al 30% in due anni) non programmato o preventivato ha portato le rispettive case madri a un radicale cambiamento e ripensamento delle politiche commerciali e di marketing. Per esempio è stata cambiata la comunicazione del prodotto, e gli spazi pubblicitari su riviste classiche come Forbes o Esquire sono stati sostituiti da investimenti su Vice, Vibe Magazine o in programmi quali YO! Mtv Rap.
Non tutti i marketing manager però sono felici di vedere i propri marchi associati a quella parte della scena hip-hop che esalta la misoginia, la violenza e il crimine, così molte aziende stanno prendendo le distanze dal fenomeno. Ed è quello che sta succedendo anche tra gli sponsor della NBA.
La "nuova cultura hip-hop" infatti non ha solo influenzato le classifiche musicali e certi consumi, ma sta fortemente trasformando anche il campionato professionistico di basket: finito il tempo dei campioni "puliti" come Larry Bird o Kareem Abdul-Jabbar o delle eleganti "macchine fabbrica soldi" alla Michael Jordan, adesso il massimo campionato basket USA è popolato da giovani energumeni cresciuti a Tupac Shakur (stella dell’hip-hop rimasta uccisa in una sparatoria) e violenza di strada. Se in passato i consulenti d’immagine del campionato professionistico di basket avevano cercato di utilizzare l’hip-hop come strumento di marketing per attirare le generazioni più giovani, adesso l’NBA è praticamente in mano all’hip-hop. Quindi musica martellante durante le partite, dichiarazioni di guerra tra i leader e continue risse in campo. Risultato: i media si sono buttati a pesce su questa crisi ed hanno così iniziato una campagna denigratoria nei confronti della nuova tendenza "gangsta basket": i giocatori non rappresentano più testimonial appetibili per le aziende e molti sponsor, specialmente quelli più istituzionali e legati ad una fascia di pubblico più allargata e "moderata", stanno iniziando a disinvestire soldi dal parquet.
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