: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
CONSIGLI A LAPO - 20L'utilità dell'elettroencefalogramma per accalappiare nuovi consumatori
Il Foglio - Giovedi 7 Aprile Let’s do some groups: questa è la frase risolutiva che ricorre spesso nei consigli d’amministrazione o nelle riunioni di marketing delle grandi corporation quando qualcosa non va nella commercializzazione o nella comunicazione di un prodotto, ed è quindi necessario ricorrere al focus group. Il focus group è una di quelle tecniche di rilevazione delle scienze sociali che si basa sull’interazione di un piccolo gruppo di persone invitate da uno o più moderatori a parlare tra loro, in profondità, su un argomento, consentendo agli osservatori di individuare le motivazioni di scelta, confrontare le opinioni, desideri e bisogni, degli utilizzatori attuali e potenziali del prodotto in questione. Con i focus group, oggi, viene deciso di tutto: dal colore del packaging di un detersivo al sapore di una bibita dissetante, dagli slogan dei candidati politici al finale di un film: ma non sempre lo strumento risulta efficace o attendibile, come viene dimostrato anche dal complicato, ma affascinante, romanzo breve di David Foster Wallace ('Mister Squishy' contenuto nella raccolta 'Oblio', Ediz. Stile Libero – Einaudi) in cui si descrive in modo minuzioso e massimalista lo svolgimento di un focus group per il lancio di una merendina grassa e ipercalorica chiamata 'Misfatti!'. Queste tecniche sono infatti guidate dalla debolezza della psicologia umana: la presenza di altre persone condiziona spesso il parere e le azioni dei componenti del gruppo e, come si evince dal racconto di Wallace, le opinioni sono facilmente manovrabili da parte di chi presiede questo tipo di riunioni. Ma, soprattutto, le persone coinvolte rispondono a quello che credono di volere e desiderare, mentre l’intimo e recondito consumatore che è nella profondità del loro subconscio reagisce e pulsa in modo del tutto diverso. Per capire tutto questo, bisogna entrare dentro la testa del consumatore come in un film scritto dal premio Oscar Charlie Kaufman.
Ed ecco che la scienza, quella 'cattiva' e prezzolata, quella che non si fa troppi timori sull’etica e sull’invasività , viene in aiuto inventandosi una disciplina che, attraverso la tecnica della risonanza magnetica, permette di rilevare le risposte del nostro cervello all’esposizione di un certo prodotto, marca o pubblicità, registrando le reazioni del subconscio e le attività celebrali che sono state stimolate: in una sola parola, il neuromarketing.
La BrightHouse Neurostrategies group di Atlanta è stata la prima a credere e ad investire sugli studi di neurologia applicata al business: l’obiettivo è quello di creare un nuovo filone del marketing che non si basi più su ricerche di mercato volte a studiare le intenzioni dei consumatori o sulle loro successive impressioni, ma che riesca a 'fotografare' le reazioni spontanee di fronte a vari tipi di stimoli, pubblicitari o di brand. E sono in molti a crederci, dal momento che aziende del calibro di Ford e Delta Airlines, Daimler- Chrysler e Hitachi stanno finanziando gli studi e utilizzando i primi sperimentali servizi di neuromarketing.
Tutto nacque da un esperimento, che ormai ha fatto storia, condotto alcuni anni fa dal Baylor College of Medicine di Houston che prendeva in analisi l’eterna lotta tra Coca e Pepsi per capire quale fosse davvero il motivo del vantaggio della prima rispetto al competitor: in pratica, alcuni volontari vennero sottoposti ai test del gusto delle due bevande e registrate le reazioni del cervello attraverso la risonanza magnetica. Se la Pepsi era in alcuni casi, a livello di gusto, preferita alla Coke, una volta svelati i marchi delle due bibite, l’attività celebrale prevaleva portando la stragrande maggioranza dei volontari a dichiarare di preferire la Coca Cola anche quando gli analisti avevano inserito la bevanda dentro una lattina Pepsi: questo significa, in sintesi, che Coca Cola è riuscita nei decenni a creare un’immagine tale da influenzare le percezioni inconsce dei consumatori, spingendoli a modificare il comportamento e le scelte di preferenze e d’acquisto. Non è cosa da poco. Ma c’è di più: attraverso il neuromarketing si è scoperto che la scelta di un brand, scelta che in passato veniva considerata come prodotto della logica e del libero arbitrio, è in verità guidata dai sistema cerebrali primitivi responsabili delle risposte emozionali, cioè quei processi automatici che vengono attivati per gestire la fame, la sete e le altre necessità elementari della sopravvivenza: è quindi opinione diffusa che come quando da piccoli si impara a leggere o a scrivere certe aree di corteccia celebrale vengono fisicamente alterate, anche ripetute stimolazioni di marketing possono manipolare alcuni circuiti neuronali responsabili delle decisioni di acquisto e di consumo.
Intanto nuove tecniche avanzano: da Londra, l’agenzia Neuroco sta sperimentando l’utilizzo, in sostituzione alla risonanza, del più semplice e comodo elettroencefalogramma come strumento di rilevazione degli stimoli pubblicitari. Di certo non rimarrà piatto.