: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
CONSIGLI A LAPO - 12
La promozione di un film fatta con le Adidas fantasma. Gli azionisti "da ginnastica".
di Michele Boroni
Il Foglio - Giovedi 27 Gennaio 2005
"The life aquatic with Steve Zissou" non ha vinto la gara degli incassi dei film natalizi negli Stati Uniti e neppure ha riscosso troppi favori dalla critica, ma è riuscito ugualmente a far parlare di sé e ad assicurarsi lo status di cult movie del 2005.
L’ultimo film di Wes Anderson, come del resto anche il precedente "The Royal Tenenbaums", gioca gran parte del suo fascino sull’atmosfera retrò, sui dettagli e sui personaggi fortemente caratterizzati, specialmente nell’abbigliamento vintage periodo fine anni settanta. In questo film il bizzarro oceanografo Steve Zissou - interpretato da Bill Murray - e il suo team esibiscono un guardaroba composto da tutine da ginnastica, costumi slip Speedo e soprattutto delle originali e coloratissime scarpe da ginnastica Adidas. Sono proprio queste ad aver scatenato il buzz, cioè quel passaparola spontaneo che negli ultimi tempi rappresenta una delle leve di marketing "dal basso" più efficace per il lancio di prodotti e servizi.
Durante la produzione del film il regista chiese alla multinazionale americana di produrre una decina di scarpe, ispirate ad un vecchio modello degli anni sessanta, da far poi indossare al cast. Le scarpe realizzate (chiamate Adidas Zissou) si rivelano fighissime e chi ha visto il film desidera ardentemente possederle (la febbre da calzatura non colpisce solo le Manolo o le Jimmy Choo, ma anche le più volgari sneaker); si apre così la caccia e la ricerca dell’articolo su internet e nei negozi di articoli sportivi. Ma, ovviamente, non vi è traccia: gli uffici della Adidas vengono bombardati da migliaia di richieste e di informazioni, la laconica risposta del customer service è che le scarpe non sono in commercio. Punto. Così Josh Rubin, un blogger americano piuttosto famoso nella rete, propone sul suo weblog una "ghetto version" del modello, cioè una riproduzione fatta in casa utilizzando un vecchio paio di Adidas molto popolari negli Stati Uniti: i giornali (dal New York Times a USA Today) e i blog ne scrivono, ne parlano e creano il caso. Risultato: il film torna ad esser proiettato nelle sale e ad incassare.
In tutto questo chi ne esce piuttosto male è proprio il colosso Adidas che non è riuscito a sfruttare la situazione favorevole in cui si prospettava una domanda garantita e, soprattutto, una pubblicità gratuita. Ma anche un case history da raccontare: gli esperti di nuove tecniche di promozione lo chiamano "Just-in-Time Marketing" cioè la capacità che un’azienda dovrebbe avere nel cogliere e capitalizzare le opportunità offerte da un mercato in costante e veloce cambiamento. Non più strategie a lungo termine, ma un modello organizzativo rapido, elastico ed estremamente flessibile.
"Non esiste il futuro, solo un presente mutevole": questa pare sarà la nuova regola e la sfida per i prossimi anni.
Le scarpe da ginnastica hanno più potere di quanto noi possiamo immaginare. Con le sneaker si può fare anche politica. Così almeno la pensano quelli di Adbusters, associazione no profit con sede a Vancouver che da circa quindici anni combatte contro lo strapotere della pubblicità e delle multinazionali che tutto omologano e appiattiscono. Per screditare la società degli iperconsumi, Kalle Lasn e la sua cricca utilizzano in modo spregiudicato e situazionista le stesse armi del nemico, ovvero la pubblicità e la potenza del marketing: nei primi tempi, solo con la rivista che conteneva contropubblicità e campagne contraffatte, poi con il "buy nothing day" (il giorno senza acquisti) e adesso direttamente con la produzione industriale.
Il nemico da combattere in questo caso è Nike, la multinazionale dell’Oregon accusata da sempre di sfruttare gli operai nelle fabbriche asiatiche. Così l’Adbusters Media Foundation ha comprato una fabbrica in Portogallo e dopo avere definito le regole per una produzione corretta, equa e solidale - qualità del lavoro, salario più alto della media, orari sostenibili, utilizzo di materiali naturali e biodegradabili e nessun agente chimico - ha avviato il progetto per la produzione e la vendita delle Blackspot sneaker.
Sono molto simili alle Converse di tela (nota: la Converse è stata recentemente acquisita dalla Nike), quelle dei giocatori di basket USA di un tempo, ma non hanno logo; vengono vendute via internet a 67,5$ (ma anche in 200 punti vendita sparsi negli Stati Uniti) e sul sito sono ben specificati i costi di produzione e il profitto, che viene reinvestito sul singolo prodotto.
Dicevamo, fare politica con le scarpe: già, perché ogni paio di Blackspot ha un numero di serie unico, grazie al quale l’acquirente entra in possesso di un azione e ha così diritto di voto nelle assemblee della AdBuster Media Foundation. L’obiettivo dichiarato nello statuto è quello di dare un calcio a Phil Knight, l’odiato patron della Nike (a quello serve il puntino rosso posto sulla punta delle scarpe) e di rosicchiare un 1% di quota di mercato alla corporation della virgola.
La strada è ancora lunga.