: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
CONSIGLI A LAPO - 7
Le magliette dell'imperialista equo e solidale.
Il Giappone no logo a Milano.
di Michele Boroni
Il Foglio, 9 Dicembre 2004
E’ facile criticare "NoLogo" di Naomi Klein (ironia della sorte: un nome, due brand) uno dei libri più noiosi e mal scritti degli ultimi dieci anni.
Del tutto condivisibile biasimare i boicottaggi - senza se e senza ma - dei prodotti realizzati dalle grandi corporation.
Quasi scontato sorridere di fronte ai tentativi teorici di "altri mondi possibili", seguiti poi da sonori fallimenti pratici, ad opera di qualche guru no-global che ha scoperto il baratto fuori tempo massimo.
Però.
Però quando ci si trova di fronte ad esempi di aziende che uniscono etica e profitto, rispetto per i lavoratori e prodotti di qualità con un ironico spirito iconoclasta, non possiamo non toglierci il cappello.
"Noi proponiamo una sorta di ipersintesi tra capitalismo e socialismo" questo dice Dov Charney, trentacinquenne visionario canadese fondatore della American Apparel, piccola azienda di t-shirt nata a Los Angeles che, nel corso di pochi anni, è diventata leader di mercato USA nella produzione di abbigliamento casual con 800 milioni di dollari come fatturato.
I dipendenti (poco più di 1700) di American Apparel sono per la maggior parte immigrati, ma tutti regolarizzati dalla stessa azienda che offre loro gratuitamente, all’interno della fabbrica, lezioni di inglese, di computer, servizio massaggio e yoga. I salari e i sussidi offerti poi sono al di sopra della media nazionale. Questi maggiori costi sono controbilanciati da un’attenta ottimizzazione delle risorse produttive, un’efficiente automazione e una totale integrazione verticale: nessuna funzione infatti viene data in outsourcing, dal design alla tessitura, dall’assemblaggio alla pubblicità, tutto si svolge negli uffici e nelle fabbriche di downtown L.A., là dove campeggia lo striscione con lo slogan "Siamo la nuova rivoluzione industriale". E forse c’è del vero: avete forse mai visto un imprenditore milionario accompagnare per mano i propri operai al corteo del primo maggio? Un vero e proprio capitalismo attento al sociale, sensibile all’impatto ambientale e che combatte attivamente contro gli sweatshop, letteralmente i negozi del sudore, ovvero quei laboratori tessili (assai diffusi in Asia e in America latina) in cui si producono, sotto condizioni disagiate e disperate, tonnellate di capi per i colossi commerciali americani.
Il fogliante può pensare "Ecco i soliti no-global antiamericani, uniti contro la cultura imprenditoriale del profitto". Macchè. Ecco cosa dichiara Don Chavney al New York Times "Io sono un’imperialista americano, credo nella vita, nella libertà, nella proprietà e nella ricerca della felicità. Qui non si fa beneficienza, si fa business. E si tengono alti i valori americani. Innovazione e responsabilità sociale: questo è il nuovo sogno americano". Neanche fosse Bush.
I vestiti realizzati sono rigorosamente senza marchi visibili, dalle linee basic ed essenziali ma prodotti con materiali resistenti e di qualità a prezzi concorrenziali: per chi scrive sono un po’ banalotti, ma è solo questione di gusti. E intanto i negozi monomarca AA negli Stati Uniti aprono ad un ritmo di 3-4 a settimana. Insomma, un successone.
Pare quindi che la cultura del nologo mista a valori come il patriottismo e la coscienza sociale hanno fatto presa sui giovani americani: a compensare però questi ideali e principi etici, qui il colpo di genio, c’è l’immagine di AA proposta nelle pubblicità e nei punti vendita: un’immagine fortemente trasgressiva e seducente più vicina alle foto di Terry Richardson e ai film di Larry Clark piuttosto che alle immagini pulite e patinate di Gap o Banana Republic.
Qui in Italia, intanto che aspettiamo le magliettine di Dov Charney, accontentiamoci di altri marchi nologo che rischiano di diventare molto cool: tra pochi giorni infatti apre a Milano - dopo Parigi e dopo Londra – Muji, il megastore di oggettistica giapponese dove viene venduto di tutto, dai mobili per la casa al cibo giapponese, dai vestiti alle biciclette. Design minimale, eco-compatibile e senza etichette. State certi che nei prossimi mesi nei bagni delle case radical chic milanesi non mancheranno i sali da bagno al cipresso giapponese o i rigorosi articoli non firmati ma riconoscibilissimi: però, mi raccomando, non dite in giro che in Giappone considerano Muji una cosa molto simile alla nostra Standa o all’Oviesse.