: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
CONSIGLI A LAPO - 5
Seguire il made in italy va bene, ma troviamo altre parole per dirlo (ad esempio Italians do it better)
di Michele Boroni
Il Foglio - 12 Novembre 2005
Lo ha dichiarato il Cav, lo ripete da tempo Luca Cordero di Montezemolo e lo conferma anche il destinatario di questa rubrica: “L’unica via da seguire per uscire dalla crisi è quella del rilancio del Made in Italy".
E tutti quanti si sono fatti promotori della causa: Berlusconi, preso dall’entusiasmo, si è proposto come "commesso viaggiatore" del gusto e dello stile di vita madeinitaly. Il Ministro delle Attività Produttive Antonio Marzano ha presentato una serie di provvedimenti a difesa del prodotto italiano contenuti nella Finanziaria 2004 e che riguardano l'istituzione di un marchio madeinitaly, la creazione di un comitato anticontraffazione e uffici di assistenza tecnica e legale per la tutela dei marchi delle imprese italiane all'estero.
Bene. Ottimo. Era l’ora. Facciamo vedere chi siamo. Ma prima chiariamo cosa si intende realmente per madeinitaly. Non credo proprio che si faccia riferimento al significato letterale “fatto in Italia” perché, si sa, ormai la politica della delocalizzazione industriale è pratica diffusa e praticata dalla gran parte delle aziende italiane: i prodotti madeinitaly di largo consumo non vengono prodotti in Italy bensì in Polonia, Turchia, Bulgaria, India e Brasile. Per non parlare poi della Cina che al momento rappresenta per molte aziende della moda italiana non solo un simpatico mercatone di un miliardo e trecentomilioni di persone, ma anche una riserva di forza lavoro su cui trasferire buona parte della produzione. Sono gli effetti della globalizzazione, dicono. Come il caso delle firme di lusso della moda estera (da Stella McCartney a Manolo Blahnik) i cui prodotti in Italia non vengono distribuiti pur riportando nelle confezioni l’etichetta madeinitaly. Il terzo mondo siamo anche noi, nessuno si senta escluso.
Ma le parole sono importanti, si sa, specialmente nel marketing e nella pubblicità un termine sbagliato fa crollare decenni di costruzione di immagine e di credibilità, perciò se vogliamo creare un marchio che rappresenti lo stile, la qualità e l’eccellenza dei prodotti italiani non possiamo proprio parlare di madeinitaly. Dobbiamo trovare delle alternative: Designed by Italians, Strategized in Italy, Powered by Italians possono essere delle opzioni.
E poi, diciamo la verità, tutto ciò che è legato al marchio madeinitaly all’estero è già bollito e in parte sputtanato, e il più delle volte non è altro che un grasso grosso clichè colorato di BiancoRossoeVerde: hai voglia di mettere il completo di Ermenegildo Zegna, i mobili Cassina e una bottiglia di Ornallaia; all’estero, per essere riconoscibili al grande pubblico, si dovrà per forza inserire il solito stereotipo da noi tanto odiato ma di facile e rapida presa: ad esempio, i grandi magazzini Harrods di Londra in collaborazione con l’ICE, l’Istituto Italiano per il Commercio Estero hanno recentemente organizzato una lodevole iniziativa per il rilancio del madeinitaly: per due mesi un’intera ala lungo i sette piani del palazzo di Knightsbridge è stata esclusivamente dedicata a prodotti italiani, dal cibo alla moda. Grande successo: settantadue vetrine allestite, centomila visitatori, i complimenti di Al-Fayed . Peccato però che il prodotto più venduto è stato il Jack Trilby Hat (il tipico cap inglese) con l’italico tricolore e che la colonna sonora diffusa "in-store" era di Rita Pavone e Peppino di Capri.
Giulio Malgara, presidente dell’UPA (l’associazione che riunisce le aziende che fanno pubblicità in Italia) sostiene che il rilancio delle esportazioni debba essere trainato dalle 3F, food, fashion e furniture, mercati d’eccellenza dove il madeinitaly, sulla carta, va fortissimo. Ma se analizza meglio si scopre che, tranne un paio di casi isolati, l’Italia ha perso da tempo la battaglia con le grosse catene di distribuzione in mano ai francesi, tedeschi e americani con la conseguenza che all’estero i prodotti alimentari italiani non si trovano sullo scaffale dei supermarket. Inoltre i designer che lavorano per le grandi case produttrici di mobili madeinitaly sono nella maggior parte dei casi giovani olandesi, norvegesi e danesi.
La battaglia perciò è ancora lunga.
Ah, il nome in alternativa al marchio madeinitaly ce l’avrei; Madonna, in passato, ha già investito per renderlo noto: "Italians do it better".
Può funzionare.