: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
LE VERE STAR DEL CINEMA? NEI TITOLI DI TESTA
Da Psycho a Se7en, gli opening titles sono diventati sempre più importanti e spettacolari, al punto che alcuni registi li preferiscono piatti e didascalisci per paura che cannibalizzino la pellicola.
GQ Aprile 2011
Buio in sala. Silenzio. Parte la lunga lista di loghi delle varie case di produzione; attimi che spesso sembrano non passare mai. Poi finalmente arrivano loro, i titoli di testa del film.
Da semplice materiale didascalico per notificare allo spettatore il cast tecnico del film che si appresta a vedere, i titoli di testa sono diventati sempre più elemento a sé stante, un vezzo pop o, nella migliore delle ipotesi, piccoli film d'animazione inseriti dentro ad altri film. Sicuramente un modo creativo per introdurre lo spettatore allo spettacolo, per sintetizzare il tema del film e il clima delle sequenze che seguiranno.
Gli opening title hanno iniziato a prendere senso e vita propria negli anni '60 grazie a personaggi i cui nomi sono sconosciuti ai più ma i cui segni sono ben impressi nella nostra memoria. Il primo è stato Saul Bass, inventore di un design evoluto ed evocativo, capace di sintetizzare un film in due minuti con pochi elementi minimali: i diagrammi spiraliformi che evocano il senso di vertigine ne “La donna che vinse due volte” di Hitchcock o le linee che spezzano il lettering dei titoli per poi ricomporlo che “raccontano” la scissione psicologica del protagonista di “Psycho” sono solo alcuni esempi. Un altro è Maurice Binder, inventore dei primi opening di 007, quelle del mirino, del manto rosso di sangue e delle sensuali silhouette femminili.
Mentre negli anni '80 i titoli di testa erano solo effetti speciali e poco contenuto creativo, nella seconda metà degli anni '90 nasce una nuova razza di title designers a cui è stato dedicato un doppio dvd celebrativo (vedi box). Abili con l'animazione digitale in 3D, ma anche artigiani talentuosi che sono diventati delle vere e proprie star a Hollywood. Tra questi c'è Kyle Cooper, giovane enfante terrible americano nato nello studio di digital graphic design R/GA che in pochi anni, continuando da solo, si trasforma in vera e propria star realizzando capolavori come i titoli di testa di “Se7en” di David Fincher che evocano il panorama schizoide di un serial killer o quelli di SpiderMan per i quali passa un intero anno a scannerizzare vecchi albi dell’Uomo Ragno.
Arrogantello e di poche parole, Cooper crea e disfa, come solo i veri talenti creativi sanno fare. Fonda la Imaginary Forces, la casa di produzione più creativa e richiesta, per poi abbandonarla al top del successo. Per capire la forza del personaggio basti pensare che Cooper è uno dei pochi a cui le major permettono di “sporcare” il loro logo per renderlo omogeneo al design dei titoli di testa; alcuni registi hanno rifiutato di lavorare con lui per non correre il rischio che la sequenza introduttiva cannibalizzi tutto il film.
“Dei buoni titoli di testa hanno la scopo di eccitarti all’idea di essere al cinema in quel momento, pronto a vedere proprio quel film. Devono convincerti che non vorresti essere in nessun altro posto nel mondo eccetto dove sei ora per assistere a qualcosa di incredibile” racconta Cooper a GQ.
Il ragazzo, forte dei 150 opening title già realizzati, è ambizioso ma ha le idee molto chiare. Però adesso silenzio, ché inizia il film.
BOX
“Forget the Film, Watch the Titles” è un doppio dvd che raccoglie l’eccellenza dei titoli di testa: film innanzitutto, ma anche sigle televisive e intro di videogiochi, per un totale di più di tre ore tra materiali e interviste a importanti title designer che stanno contribuendo a ridefinire la cultura visiva contemporanea. Tra questi Richard Morrisson (Batman, Sweeney Todd) e Darius Ghanai (Goodbye Lenin).
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Il marketing spiega perché le cafetterie Starbucks non arriveranno in Italia.
Il Foglio - 6 aprile 2011
La storia dell'arrivo di Starbucks in Italia la sentiamo raccontare da anni. Del resto è proprio l'Italia che ispirò Howard Schultz, ideatore e ancora attuale amministratore delegato della catena di caffetterie. Passeggiando per Corso Vittorio Emanuele a Milano si accorse della grande quantità di bar e del ruolo di aggregazione che avevano nella società italiana. Tornò a Seattle e creò il business globale.
Starbucks negli ultimi anni ha attraversato un periodo di grave crisi: da una parte la concorrenza spietata di nuove insegne che hanno eroso consistenti quote di mercato, dall'altra una nuova generazione di ragazzi americani che trovano il caffè una bevanda statica, da nonni e preferiscono quindi gli energy drink. Tutto questo a seguito di una strategia espansionistica e sconsiderata nelle aperture di punti vendita che ha fatto ancora di più traballare i conti e ha costretto la società a brusche chiusure nelle grandi città americane.
Da qualche tempo però le cose sono decisamente migliorate, grazie anche ad alleanze strategiche in campo commerciale e industriale. E che partono dall'Italia.
Il gruppo Autogrill, attraverso la controllata Host Marriott, da qualche anno possiede la licenza di utilizzo del marchio Starbucks e la gestione di 360 caffetterie in autostrade e aeroporti negli States e che hanno fatturato solo nel 2010 circa 450 milioni di dollari, ossia più di 340 milioni di euro. Con due anni di anticipo rispetto alla scadenza del contratto, Autogrill ha rinnovato l'accordo con Starbucks fino al 2020 per la gestione in esclusiva di 120 nuovi punti vendita.
Dall'altra parte Green Mountain, produttore di macchine da caffè espresso (marchio Keurig) controllato per il 7% da Lavazza, ha siglato un nuovo accordo di fornitura con la catena di Seattle che fa presupporre un forte interesse verso il caffè espresso e che ha avuto un'ottima accoglienza a Wall Street per entrambi le società.
Queste due notizie hanno scatenato per l'ennesima volta le voci incontrollate dell'arrivo di Starbucks in Italia. Ma sono voci senza senso e ragione. Sono pochi infatti quelli disposti a scommettere sul successo di un caffè che costa il triplo di un normale caffè da bar, servito in una tazza “da passeggio” di plastica, in un paese con la più alta densità di bar al mondo. Per non parlare della qualità che, almeno in campo alimentare, in Italia è ancora un elemento vincente. E lo sa benissimo anche Schultz che in una recente intervista ha dichiarato “Non mi piace nessuna delle nostre bevande pre-zuccherate tipo frappuccino. Io sono un purista quando si tratta di caffè”.