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Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Thursday, April 21, 2005

 
Alla fiera del design

Il Salone del Mobile ovvero l'imazzamento annuale collettivo della Milano "da opening"

Il Foglio - Giovedi 21 Aprile 2005

Nella settimana appena trascorsa Milano si è risvegliata magicamente da un insostenibile torpore. Come ogni anno ha avuto luogo il Salone Internazionale del Mobile, ma la "magia" si è compiuta fuori dalla Fiera: il FuoriSalone, ovvero quella serie di eventi e manifestazioni collaterali organizzate dalle aziende e designer che hanno scelto di esporre in location sparse sul territorio cittadino, è diventato con il tempo quasi più importante del Salone ufficiale. Il segno incisivo quest’anno l’ha dato Luca Cordero Di Montezemolo che, invece di presenziare alla canonica inaugurazione in Fiera ha deciso di palesarsi all’opening party delle sue Poltrone Frau.
Quella che ormai viene definita la "settimana del design" è uno dei momenti culturalmente più vivi, a livello di creatività, di gioia e di leggerezza. Milano, città pesante, legata solo al mondo del lavoro, competitiva ed antipatica, oggetto di amore-odio costante, si nutre di questa settimana in cui arrivano da mezzo mondo studenti, giovani architetti, stampa patinata e non. E le presentazioni in giro sono momenti di gaiezza, spesso anche etilica. Vernissage e cocktail tutti i giorni, dentro i segreti cortili di Brera o all’interno di ex capannoni industriali e, tranne qualche singola inaugurazione, l’accesso è libero a tutti: è possibile quindi trovare il ragazzino no-global a fianco della sciura milanese a commentare con una birra in mano l’ultima creazione dello sconosciuto architetto israeliano.
Il mondo design tira assai: piace sedersi su divani belli alla vista ma che non compreresti mai, stupirsi di fronte alle invenzioni dei designer svedesi, oppure bere in sofisticati bicchieri dei cocktail martini preparati dai bar tender di Bombay Sapphire. Poco importa se non capite niente di arredamento di interni o di architettura, come ad esempio il sottoscritto che abbina con audace disinvoltura componenti Ikea con i Biedermeier di famiglia. Design è una parola chiave, è un concetto esteso ed estendibile a qualsiasi scenario, arte o sensibilità.

Design è musica: Bang e Olufsen, la nota azienda di sistemi audio, da anni è presente qui con installazioni sonore che hanno luogo in siti suggestivi (quest’anno ad esempio ha sonorizzato un percorso all’interno del Museo di Storia Naturale), i consulenti musicali di M-O-D marchiano la città con adesivi che ritraggono il segnale di un orecchio stilizzato per segnalare luoghi dove si può ascoltare un suono piacevole e TDK ha organizzato in questi giorni dei dj set in giro per la città (tra cui anche nell’austero Museo della Scienza e della Tecnica).
Design è luce: nel quartiere di Brera alcuni storici architetti italiani hanno immaginato delle nuove e creative illuminazioni urbane e le splendide creazione di Jacopo Foggini hanno trasmesso nuova spiritualità alla chiesa sconsacrata di San Paolo Converso.
Design è un termometro che segnala i cambiamenti degli stile di vita: mai come quest’anno si sono visti così tante proposte e soluzioni per bambini, non solo di arredo, ma anche giochi creativi ed addirittura percorsi cittadini per mamme portatrici di passeggini. Ma c’è anche chi non si dimentica del diffuso problema finanziario, così il gruppo olandese di Droog Design è l’unico a mostrare i prezzi delle loro creazioni e Fabrica con Aldo Cibic progettano una confortevole tenda da usare nel weekend in alternativa ai costosi alberghi.
Design è anche riqualificazione di spazi urbani: una vecchia segheria di Via Meda diventa il Crystal Palace di Swarovski, l’ex zona industriale di via Tortona il riconosciuto design district milanese, il palazzo ex poste si trasforma - in mano a Cappellini - in un sontuoso show room e la rivista Domus sceglie lo stadio Meazza come palcoscenico di un lungo happening artistico.

Design è anche una straordinaria vetrina per comunicare marchi, prodotti e iniziative di ogni tipo ad un pubblico ricettivo: Fiat ha approfittato dell’occasione per inaugurare il proprio cafè nei giardini della Triennale e aziende che operano in mercati che poco hanno a che fare con il design come le attrezzature di home fitness o l’abbigliamento per motociclisti, presentano qui i loro nuovi articoli.
Design è, soprattutto a Milano, esserci: nel vedere il popolo designato che migra e rimbalza da un opening all’altro, la sensazione che si ha è quella di trovarsi di fronte ad un presenzialismo bovino che vede tutto, tocca tutto, mangia e beve tutto ma capisce, ricorda e rispetta ben poco.

Design è moda: gli stilisti da qualche edizione hanno capito che qui nascono le cose nuove e tentano così di succhiarne la linfa vitale: Krizia ospita nel suo spazio le installazioni di Ingo Maurer, Pitti ha aperto quest’anno negli stabilimenti ex Ansaldo uno spazio espositivo dedicato al mondo degli accessori per la casa, ma anche Armani e Trussardi sono ben presenti nell’happening meneghino.
Design è anche arredamento: si è detto che qui non siamo esperti in materia ma, tra un flute e l’altro, ci sembra di aver capito che il minimalismo estremo sia, grazie al cielo, morto: solo pochi stitici designer finlandesi continuano a progettare ancora contenitori poco capaci e scomodissime chaise longue, mentre il resto del mondo pare abbia compreso le reali esigenze di vita e di comodità delle persone normali.

Saturday, April 09, 2005

 
LA SETTIMANA INCOM
L'Estasi delle cose

Il rapporto feticistico tra oggetti e uomini nelle fotografie industriali di una mostra milanese

Il FOglio - Sabato 9 Aprile 2005
"La sicurezza degli oggetti" era il titolo di una raccolta di racconti (ediz. Minimum Fax) della scrittrice americana A.M. Homes, da cui poi fu tratto un film con Glenn Close. Ogni racconto era caratterizzato dalla presenza di oggetti che giocavano, all’interno della storia, un ruolo importante: ogni volta i protagonisti si procuravano delle "cose" (una Barbie o un guantone da baseball, una fiala di vetro o un fuoristrada rosso) per definirsi, per rassicurarsi, per compensare le proprie carenze affettive e anche per rafforzare la propria autostima o per manifestare il proprio status. Questo è solo uno dei rapporti che l’uomo del secolo appena trascorso ha avuto, e continua ad avere, con le cose che lo circondano. L’occasione per riflettere su queste relazioni complesse e diversificate ce la fornisce la mostra fotografica "L’estasi delle cose" dedicata alla presenza e al significato degli oggetti industriali nelle vita dell’uomo dagli anni Trenta ad oggi. La mostra, organizzata dal Fotomuseum Winterhur ed esposta allo Spazio Oberdan di Milano, racconta, attraverso più di quattrocento foto provenienti da altre gallerie ma soprattutto da archivi aziendali o agenzie pubblicitarie, l’oggetto industriale sotto vari punti di vista, dalla produzione, all’uso quotidiano, dalla sua funzione di merce a quella simbolica o affettiva: dalla nascita (con le belle foto del processo produttivo concesse dall’archivio Fiat e Pirelli) passando attraverso l’esposizione (le vetrine o gli scaffali pop dei supermercati americani), l’utilizzo (la serie di foto vintage contenute del libretto di istruzioni per l’uso dell’aspirapolvere Mors) fino a giungere all’abbandono e alla distruzione.

Ma la mostra non a caso ha come titolo "L’estasi delle cose": molte foto sono infatti legate tra loro da un sottile fil rouge sensuale ed erotico: a partire da quelle di Dukkers e Weider che danno l’immagine rispettivamente alla copertina della mostra e del catalogo, a quelle che raffigurano le mani di efficienti segretarie anni cinquanta che sfiorano i tasti di modernissime e sensualissime macchine da scrivere oppure nelle foto pubblicitarie di moda che sono state selezionate. La parte dedicata alla "mobilità e lifestyle" e cioè al mondo dei mezzi di trasporto, merita un discorso a parte: la fotografia, specie quella pubblicitaria, è riuscita più di ogni altro mezzo a dare anima e corpo alle auto e alle moto attraverso una rappresentazione fedele e viva delle forme e dei materiali con il fine ultimo di elevarle a veri e propri oggetti del desiderio, status symbol, feticci e – nel caso delle moto – a modelli di mascolinità (da notare invece la dettagliata campagna della Vespa che, al contrario, si rivolgeva con il passare degli anni al target femminile); dall’altra parte l’aereo, attraverso la rappresentazione fotografica dei suoi interni, degli aeroporti, delle uniformi dell’equipaggio, raffigurò l’"opera d’arte totale" di una moderna cultura del viaggio durante gli anni d’oro dell’aviazione, quando il brand della compagnia aerea (da PanAm, a TWA, a Lufthansa) brillava e compariva in ogni singolo oggetto.
L’esposizione dello Spazio Oberdan forse è più interessante da un punto di vista concettuale e antropologico piuttosto che estetico e tecnico e, se volessimo trovare un difetto, potremmo dire che affronta fin troppi temi e percorsi di senso, al punto che spesso la mostra risulta dispersiva e si rischia di perdere il filo conduttore.

Una significativa appendice alla mostra dello Spazio Oberdan è data da "L’Estasi delle cose: nell’arte" esposta al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo.
La mostra, piccola ma più compatta e leggibile di quella milanese, presenta opere fotografiche di artisti (da Eugène Atget a Man Ray, a Paul Outerbridge) che hanno scelto l’oggetto prodotto industrialmente come tema del loro lavoro. Attraverso un centinaio di foto si riesce a comprendere come la fotografia - e specialmente la fotografia delle cose, sia secondo un’impronta Bahuaus che in chiave surrealista o dadaista - abbia profondamente ridefinito e rimodellato il concetto d’arte contemporanea del XX secolo.

"L’estasi delle cose" Spazio Oberdan, Milano e "L’estasi delle cose: nell’arte" Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo. Fino al 12 Giugno.

Thursday, April 07, 2005

 
CONSIGLI A LAPO - 20
L'utilità dell'elettroencefalogramma per accalappiare nuovi consumatori

Il Foglio - Giovedi 7 Aprile

Let’s do some groups: questa è la frase risolutiva che ricorre spesso nei consigli d’amministrazione o nelle riunioni di marketing delle grandi corporation quando qualcosa non va nella commercializzazione o nella comunicazione di un prodotto, ed è quindi necessario ricorrere al focus group. Il focus group è una di quelle tecniche di rilevazione delle scienze sociali che si basa sull’interazione di un piccolo gruppo di persone invitate da uno o più moderatori a parlare tra loro, in profondità, su un argomento, consentendo agli osservatori di individuare le motivazioni di scelta, confrontare le opinioni, desideri e bisogni, degli utilizzatori attuali e potenziali del prodotto in questione. Con i focus group, oggi, viene deciso di tutto: dal colore del packaging di un detersivo al sapore di una bibita dissetante, dagli slogan dei candidati politici al finale di un film: ma non sempre lo strumento risulta efficace o attendibile, come viene dimostrato anche dal complicato, ma affascinante, romanzo breve di David Foster Wallace ('Mister Squishy' contenuto nella raccolta 'Oblio', Ediz. Stile Libero – Einaudi) in cui si descrive in modo minuzioso e massimalista lo svolgimento di un focus group per il lancio di una merendina grassa e ipercalorica chiamata 'Misfatti!'. Queste tecniche sono infatti guidate dalla debolezza della psicologia umana: la presenza di altre persone condiziona spesso il parere e le azioni dei componenti del gruppo e, come si evince dal racconto di Wallace, le opinioni sono facilmente manovrabili da parte di chi presiede questo tipo di riunioni. Ma, soprattutto, le persone coinvolte rispondono a quello che credono di volere e desiderare, mentre l’intimo e recondito consumatore che è nella profondità del loro subconscio reagisce e pulsa in modo del tutto diverso. Per capire tutto questo, bisogna entrare dentro la testa del consumatore come in un film scritto dal premio Oscar Charlie Kaufman.

Ed ecco che la scienza, quella 'cattiva' e prezzolata, quella che non si fa troppi timori sull’etica e sull’invasività , viene in aiuto inventandosi una disciplina che, attraverso la tecnica della risonanza magnetica, permette di rilevare le risposte del nostro cervello all’esposizione di un certo prodotto, marca o pubblicità, registrando le reazioni del subconscio e le attività celebrali che sono state stimolate: in una sola parola, il neuromarketing.
La BrightHouse Neurostrategies group di Atlanta è stata la prima a credere e ad investire sugli studi di neurologia applicata al business: l’obiettivo è quello di creare un nuovo filone del marketing che non si basi più su ricerche di mercato volte a studiare le intenzioni dei consumatori o sulle loro successive impressioni, ma che riesca a 'fotografare' le reazioni spontanee di fronte a vari tipi di stimoli, pubblicitari o di brand. E sono in molti a crederci, dal momento che aziende del calibro di Ford e Delta Airlines, Daimler- Chrysler e Hitachi stanno finanziando gli studi e utilizzando i primi sperimentali servizi di neuromarketing.

Tutto nacque da un esperimento, che ormai ha fatto storia, condotto alcuni anni fa dal Baylor College of Medicine di Houston che prendeva in analisi l’eterna lotta tra Coca e Pepsi per capire quale fosse davvero il motivo del vantaggio della prima rispetto al competitor: in pratica, alcuni volontari vennero sottoposti ai test del gusto delle due bevande e registrate le reazioni del cervello attraverso la risonanza magnetica. Se la Pepsi era in alcuni casi, a livello di gusto, preferita alla Coke, una volta svelati i marchi delle due bibite, l’attività celebrale prevaleva portando la stragrande maggioranza dei volontari a dichiarare di preferire la Coca Cola anche quando gli analisti avevano inserito la bevanda dentro una lattina Pepsi: questo significa, in sintesi, che Coca Cola è riuscita nei decenni a creare un’immagine tale da influenzare le percezioni inconsce dei consumatori, spingendoli a modificare il comportamento e le scelte di preferenze e d’acquisto. Non è cosa da poco. Ma c’è di più: attraverso il neuromarketing si è scoperto che la scelta di un brand, scelta che in passato veniva considerata come prodotto della logica e del libero arbitrio, è in verità guidata dai sistema cerebrali primitivi responsabili delle risposte emozionali, cioè quei processi automatici che vengono attivati per gestire la fame, la sete e le altre necessità elementari della sopravvivenza: è quindi opinione diffusa che come quando da piccoli si impara a leggere o a scrivere certe aree di corteccia celebrale vengono fisicamente alterate, anche ripetute stimolazioni di marketing possono manipolare alcuni circuiti neuronali responsabili delle decisioni di acquisto e di consumo.
Intanto nuove tecniche avanzano: da Londra, l’agenzia Neuroco sta sperimentando l’utilizzo, in sostituzione alla risonanza, del più semplice e comodo elettroencefalogramma come strumento di rilevazione degli stimoli pubblicitari. Di certo non rimarrà piatto.

Saturday, April 02, 2005

 
LA SETTIMANA INCOM
La leggerezza calviniana di David Byrne e i video inquietanti e non patinati della Warp Records.

Il Foglio - Sabato 2 Aprile 2005

David Byrne - Live At Union Chapel (Warner Music Vision)
David Byrne è un genio. Uno di quei geni che, purtroppo, pubblico e critica spesso dimenticano: ben vengano quindi occasioni come questo dvd per ricordarcelo. Per chi non lo sapesse David Byrne è l’ex leader dei Talking Heads, ovvero il gruppo che meglio di altri ha saputo raccontare in note l’urgenza e la tensione creativa che si respirava a New York nella fine anni settanta e nei primi ottanta, mixando art rock e pop, avanguardia e canzonetta: con Brian Eno poi ha prodotto "My life in the bush of ghosts" il disco manifesto che ha aperto le porte allo scenario della contaminazione, con Ryuichi Sakamoto ha vinto un Oscar per la colonna sonora del "L’ultimo Imperatore" e, da solista, ha compilato una scintillante enciclopedia di musiche sudamericane. E poi ancora: regista cinematografico, attore, compositore di musiche per balletti, fotografo e artista multimediale.
La maturità gli ha trasmesso una leggerezza calviniana che si svela nitidamente in questo live realizzato alla Union Chapel di Islington, una chiesa in stile gotico dall’acustica perfetta che spesso ospita concerti pop e rock (la chiesa è chiusa da Gennaio per lavori, ma a Londra tutti sperano in una riapertura per l’estate).
Come l’ultimo Caetano Veloso - amico e collaboratore con cui Byrne si è recentemente esibito alla Carnegie Hall di NYC - il concerto è tutto un equilibrio tra il ritmo sincopato delle percussioni e il dolce e romantico contrappunto d'archi dal sestetto texano dei Tosca Strings. Si passa dalle melodie, tra i Beatles e Bacharach, delle ultime composizioni soliste, ai cavalli di battaglia delle Teste Parlanti (tra cui "Road to Nowhere", "And she Was" ma anche un’attualissima "Life During Wartime"). Ma Byrne non dimentica di essere anche artista provocatore e curioso: il concerto si impreziosisce così della coraggiosa esecuzione di una “vecchia canzone pop” ("Un Di Felice" da La Traviata), della splendida "Ausencia" scritta da Goran Bregovic per Cesaria Evora come tema principale del film "Underground" di Emir Kustrica ma anche di una canzonetta di Whitney Houston ("I wanna dance with somebody") che nelle sue mani diventa un brano più che dignitoso. La voce del nostro è decisamente più morbida e suadente rispetto al passato, anche se in "Once in a Lifetime" si può riascoltare il tono drammatico e stridulo dei vecchi tempi.
La regia e le riprese sono puntuali: niente a che vedere però con le sorprendenti trovate di quel "Stop Making Sense", film concerto dei Talking Heads del 1984 diretto magistralmente da Jonathan Demme.
Il dvd non contiene alcun contenuto speciale ma solo brevi brani di intervista ad un Byrne timido e sorridente. Da avere.

WarpVision The Videos 1989-2004 (Warp Records)
Da molti anni ormai i videoclip rappresentano soltanto uno strumento promozionale per il lancio di dischi e cantanti, non certo un territorio per sperimentare linguaggi visivi o inventare nuovi stili: esistono però etichette minori ed indipendenti come la Warp Records di Sheffield che rappresentano delle vere e proprie factory di creatività e fantasia visionaria sia per i suoni che per le immagini. Per i quindici anni di attività, la Warp ha messo in commercio questa dvd che raccoglie 32 video più rappresentativi girati da talenti come Chris Cunningham o David Slade, più vicini alla video art piuttosto che ai clip in rotazione su Mtv. Non aspettatevi quindi immagini patinate di belle donne, paradisi tropicali o storie consolatorie: qui le atmosfere sono per lo più inquietanti e malate e le immagini, spesso, di una potenza devastante. I suoni Warp, qui rappresentati da artisti quali Aphex Twin, Plaid e LFO, rappresentano una delle vette più altre di musica elettronica e techno "intelligente". La raccolta di questi video offre anche lo spunto per riflettere di come e quanto siano cambiate le tecniche video e di computer graphic in soli quindici anni.
Il cofanetto oltre al dvd contiene anche un cd audio di musica mixata dai deejay della stessa Warp.

Friday, April 01, 2005

 
CONSIGLI A LAPO -19

Dio c'è, parla e ha un efficace piano di comunicazione. La Chiesa è maestra mediatica.

Il Foglio - Giovedi 1 Aprile 2005

Negli anni ottanta e nei primi novanta i ponti delle autostrade e le mura alle porte delle città italiane furono monopolizzati da una sola scritta - "Dio c’è" - realizzata, pare, da un gruppo di persone ben organizzate e con una precisa pianificazione dei luoghi da marcare. Con il passare del tempo il fenomeno si indebolì: un po’ perché la Chiesa, allora, non colse l’opportunità mediatica di trasformare quella che per molti poteva sembrare una burla in un’operazione di comunicazione che adesso chiameremo di guerrilla marketing, un po’ perché la chiusa "o ce fa?" che venne aggiunta da certi burloni su alcune scritte, tagliò le gambe e le intenzioni ai fautori originali.

Negli Stati Uniti sei anni fa successe una cosa simile: un anonimo donatore finanziò una campagna di promozione della parola di Dio composta da diecimila cartelloni pubblicitari: diciotto messaggi diversi l’uno dall’altro ma che avevano come denominatore comune l’apertura: "God Speaks..". L’operazione ebbe un successo di opinione clamorosa e riportò l’attenzione dei media americani sulla questione della fede e della spiritualità. E’ notizia di questi giorni che la campagna proseguirà, questa volta non in forma anonima ma supportata da un’agenzia di relazioni pubbliche specializzata in comunicazioni spirituali e religiose. La nuova campagna sarà composta da nove messaggi, alcuni legati alla attualità televisiva ("God Speaks: as my apprentice, you’re never fired" con chiara allusione al reality show di Donald Trump) altri un po’ più ironici ("God Speaks: it’s a small world.. I know … I made it" ).

Non passeremo da blasfemi affermando che la Chiesa non ha certo bisogno di prendere lezioni da nessuno in fatto di marketing anzi, come sostiene Bruno Ballardini (che all’argomento ha dedicato il libro "Gesù lava più bianco" edizioni Minimum Fax) è proprio la Chiesa ad aver inventato oltre duemila anni fa le principali tecniche di marketing: a partire dalle tecniche di fidelizzazione e di vendita adottate nel corso dei secoli per fidelizzare i propri "consumatori" (non a caso definiti fedeli), alla scelta di un testimonal d’eccezione che ha garantito nel modo più estremo ed efficace la bontà della marca fino a farlo diventare sinonimo stesso del prodotto. Per non parlare delle azioni di public relation attivate degli Evangelisti con lo scopo di differenziare il nascente Cristianesimo dalle numerose sette dell’Ebraismo o della promessa di "uniqueness" del prodotto ("Non avrai altro Dio all’infuori di me") al fine di far evitare fughe verso la concorrenza. E poi l’interior design delle chiese, la scelta delle location, l’utilizzo delle musiche e il ricchissimo merchandising , tutto decisamente marketing oriented.



Nel momento storico che stiamo vivendo, dove la voglia di spiritualità è, in Europa come in America, sempre più crescente, si sta però verificando un fenomeno particolare: la domanda di fede da parte delle famiglie e dei singoli è in costante aumento, le piazze sono piene di fedeli ma le chiese sono sempre più vuote, e sono i giovani che mancano all’appello. Il fatto è che le attività collaterali che venivano organizzate dalle parrocchie non sono più attraenti per le nuove generazioni, il campetto di calcio ad esempio non rappresenta più quel polo d’attrazione verso l’oratorio. Negli Stati Uniti si stanno organizzando in questo senso prendendo come modello la First Baptist Church di Fort Lauderdale’s: niente panche di legno in questo vecchio santuario, ma comodi sofà neri, luci soffuse e riposanti, una fila di consolle di Xbox, due postazioni dove scaricare i sermoni sul proprio iPod, un palco dove la domenica si esibiscono Christian rapper e rock band e un free bar analcolico.
La cultura pop in chiesa non solo è gradita ma è anche attraente per i giovani americani e ci sono molti segnali che lo testimoniano: per la prima volta la rivista "Rolling Stone" che, per statuto, accettava solo pubblicità laica, ha deciso di pubblicare l’inserzione del maggiore editore di Bibbie per comunicare la nuova traduzione "spiritualmente intrigante per un target 18-34 anni". Certamente il successo di rockband come Evanescence, P.O.D. o rapper come Kayne West, che hanno introdotto nei testi per la prima volta in maniera così massiccia testimonianze della parola di Cristo, ha fortemente influito su questa nuova ricerca di spiritualità e di fede da parte dei teens statunitensi.
Insomma non solo Dio c’è, ma parla e pare abbia anche un efficace piano di comunicazione.

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