: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
ANCHE IL LIBECCIO DI VIAREGGIO SI RIBELLA AL GRIDO: "NOOO, IL DIBATTITO NOOO"Suoni e parole dal Festival Gaber
Il Foglio - 28 luglio 2009“Nooo, il dibattito nooo”, avrà probabilmente detto ridendo Giorgio Gaber mentre assisteva da lassù alla lunghissima intervista di un anestetizzato Curzio Maltese a Walter Veltroni e a Fausto Bertinotti chiamati a testimoniare sul “Gaber politico”.
Siamo a Viareggio dove, da cinque anni, la Fondazione Gaber - fondata dalla figlia Dalia e dalla moglie Ombretta Colli - ricorda il creatore del “teatro canzone”, intellettuale e libero pensatore Giorgio Gaber, le sue indimenticabili canzoni e le riflessioni mai banali.
Quest’anno era previsto però anche il 'dibattito', quel parlarsi addosso che Gaber ha sempre evitato, preferendo lasciar spazio alle sue canzoni e ai suoi recital. Abbiamo ascoltato cose interessanti, per carità: il “'noi' che si costruisce solo con il sogno”, il mutamento palingenetico, il virus dell'egoismo e poi tutti quei “ma anche” che un po’ ci mancavano, però quello forse non era il contesto adatto. Insomma, sembrava di essere nella vicina Versiliana, invece eravamo alla Cittadella del Carnevale, laboratorio di produzione dei carri viareggini.
Sarà stato il posto, luogo di serie spensieratezze, sarà stata davvero la risata rumorosa e contagiosa di Gaber, fatto sta che venerdì, mentre Bertinotti declamava i versi di “Qualcuno era comunista”, si è alzata una forte libecciata che ha fatto traballare la scenografia, cadere le composizioni floreali, e ha scosso dal torpore la platea (addirittura il poco paziente sindaco PdL di Viareggio Lunardini ha lasciato il suo posto e ha abbandonato il festival).
Per fortuna c’era la musica. Quella di Gaber che, come tradizione della due giorni viareggina, viene interpretata da una serie di artisti italiani che lo hanno amato e stimato. Per fortuna c’era Ivano Fossati, che oggi sta vivendo una seconda giovinezza: il cantautore genovese sembra aver abbandonato la sua storica riservatezza e la sera del sabato ci ha regalato un concerto nel concerto, in cui ha privilegiato la musica e le melodie cantabili di Gaber: “Non arrossire”, “Far finta di essere sani”, “Illogica allegria” e “Le strade di notte”, piccole grandi perle di musica pop che Fossati ha fatto proprie, arricchendole di un'inaspettata leggerezza. Insieme a lui quel Morgan, ormai celebre volto tv che, proprio per paura di rimanere imprigionato nello stereotipo del personaggio televisivo, si presenta ora in veste avanguardistico-sperimentale, proponendo performance debordanti, “arty” e barocche, quando invece Gaber meriterebbe un gioco di sottrazioni, di melodie lineari, di semplicità. Gli va dato il merito di aver scelto nella sua esibizione solista dell'altra sera un pezzo bello e poco conosciuto che parla dell'Italia come “Benvenuto il luogo dove” (1984) quello “dove se un tuo pensiero trova compagnia, probabilmente è già il momento di cambiare idea”. Osannata dal pubblico anche Gianna Nannini che ha recitato il monologo L'Attesa.
In verità non tutti gli ospiti presenti sono riusciti perfettamente a “far finta di essere Gaber”: ad esempio, le esibizioni di Lucio Dalla, Sergio Cammariere e Luca Carboni sono state sottotono, poco convinte e senza alcuna comunicativa.
Il fatto è che ci manca il “corpo parlante” del Signor G, quella mimica e quella presenza scenica che convinsero Mario Monicelli, presente anche lui a Viareggio, a coinvolgerlo come attore nel suo “Rossini Rossini”, film per la tv del 1991. Lo scorso anno Enzo Iachetti, presentatore storico del festival, invitò provocatoriamente il ministro della Pubblica Istruzione a insegnare Gaber nelle scuole. Provocazione accolta: dal prossimo anno sarà introdotto sperimentalmente nei programmi delle scuole superiori della Lombardia. Qui si spera che, oltre ai testi, saranno mostrati i filmati dei recital dove si riesce a cogliere la vera grandezza dell'artista.
Ma Gaber era anche uomo di teatro, commediografo e fine umorista: perciò il festival, fin dalla prima edizione, coinvolge non solo cantanti, ma anche attori e comici. La cosa quest'anno ha funzionato a perfezione con l'attrice Mercedes Martini, magicamente nelle stesse corde di Gaber, un po' meno con i cabarettisti Bertolino e Vergassola che, seppur bravi nel loro genere, non sono andati oltre la solita satira politica e gli aneddoti da bar.
Viareggio oltre ad essere la “seconda patria” di Gaber – e luogo natio di Giorgio Luporini, suo sodale compagno di scrittura - è anche il territorio in cui si è consumata la recente tragedia alla stazione: così il Festival Gaber si è prolungato di un altro giorno per ospitare il memorial “Viareggio Ricorda Viareggio”, una serata in cui artisti vicini alla cittadina versiliese (Renato Zero, Giorgio Panariello, Maddalena Crippa, Marcello Lippi) hanno letto i racconti di chi ha vissuto quel tragico evento. Una sorta di Spoon River che ha riscosso una vasta partecipazione da parte del pubblico, ma che molti hanno percepito come prematura elaborazione di un lutto ancora troppo recente.
“C'è un'aria che manca l'aria” avrebbe detto Gaber.
La fiera dell'est Cosi nasce la prima grande offensiva asiatica per spodestare i marchi più famosi del mondo.Il Foglio - 22 luglio 2009Ancora un colpo ben assestato per accelerare il declino dell’impero occidentale, verrebbe da dire. Questa volta la vittima non è né la finanza né tanto meno la politica, bensì il mondo del marketing e dei brand, il dorato carrozzone che, attraverso il consumo, promette sogni di plastica a milioni di famiglie nell’intero globo. Quelli che un tempo per le multinazionali americane erano considerati paesi emergenti da conquistare (Cina, India, paesi della America Latina), opportunità da sfruttare e consumatori da ammaliare, oggi si sono trasformate in serie minacce.
La notizia campeggia sulla prima pagina dell’inserto del Financial Times di ieri. Il pezzo , firmato da Jenny Wiggins, in pratica sostiene che nel giro di pochi anni i principali brand globali non saranno più i soliti noti - Coca.Cola, Starbucks e McDonalds - bensì marchi di food and drink cinesi , indiani e colombiani. La rivelazione emerge dai risultati di una ricerca commissionata da Financial Times ai consulenti della Wollf Olins. Questo cambiamento di scenario si basa semplicemente su un paradigma che è mutato: se prima i brand globali erano quelli che conquistavano gli Stati Uniti, oggi sono i marchi che riescono a diventare i numeri uno in Asia.
E quali sarebbero questi brand? Per lo più sono sconosciuti da noi: la catena di caffè colombiana Valdez cafè, Almarai, colosso alimentare saudita con sede a Riyadh, la raffinata catena libanese di negozi di cioccolato Patchi, il produttore di vino cinese Chang Yu e United Spirits il più grande gruppo di bevande alcoliche che detiene tra i suoi prodotti anche lo scotch whisky Whyte & Mackay. Aziende che macinano miliardi di fatturato nell’altra parte del globo.
La ricerca effettuata dalla Wolf Olins è più che attendibile, la conferma è data dalle notizie di shopping forsennato che le corporations nordamericane, annusata l’aria, stanno facendo in Far East: la Pepsi Co. ha recentemente acquistato per quasi un miliardo e mezzo di dollari la Lebedyansky, il più grande gruppo di succo di frutta in Russia e sta creando una strategica joint venture con la sopracitata Almarai per il mercato asiatico e africano, mentre la Unilever (che ha in portafoglio Algida) ha incorporato la Inmarko, il colosso cinese dei gelati. Meno fortuna ha avuto la Cola-Cola il cui tentato acquisto per oltre due miliardi di dollari della cinese Huiyuan, il brand più importante di succhi di frutta in Cina, è stato bloccato dall’anti trust di Pechino.
Ma la domanda che in molti si fanno è la seguente: dove hanno sbagliato i brand occidentali? Perché non sono riusciti a conquistare con il proprio modello di business ben oliato questi mercati emergenti? Le risposte sono molte. Prendiamo l’esempio Cina: l’errore fatto da molte multinazionali del food & drink è quello di aver considerato una sola Cina, quella delle metropoli della cosiddetta zona 1 (Pechino, Shanghai, Hong Kong) già in parte abituate al modello occidentale, snobbando totalmente le “altre” Cina, quella delle migliaia di piccoli villaggi rurali, che hanno linguaggio, cultura, clima, dieta alimentare, reddito e storia totalmente diverse e che fanno la differenza in termini di revenue e notorietà. La stragrande maggioranza della popolazione cinese non vuole imitare o scimmiottare lo stile di vita degli occidentali. Vogliono essere moderni e internazionali, ma mantenendo la loro forte identità orientale.
Sempre per rimanere in “casa Cina” , c’è ancora un ostacolo di cui spesso non viene tenuto conto, ovvero la traduzione del proprio brand o prodotto in ideogrammi. Se il marchio esprime un valore o ha un senso compiuto, la traduzione risulta piuttosto semplice. Ma se, come spesso capita, il nome è di fantasia, allora il gioco si fa duro. Coca-Cola è un nome privo di significato:, così dopo la guerra il gruppo di Atlanta cercò una traduzione che ne riproducesse il suono: il significato che venne fuori era una cosa tipo “un cavallo femmina legato con la cera”. Puro nonsense. Solo più tardi i responsabili marketing riuscirono a trasformare il proprio marchio con una traduzione più appropriata, che abbinasse al suono anche un significato coerente al prodotto. Così venne scelto la traduzione “qualcosa che fa resuscitare la bocca”.
Pare però che questa volta le vendite non risusciteranno.