EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Tuesday, June 29, 2010

 
La triste sorte di quei marchi che sponsorizzavano gli Azzurri

Il Foglio - 29 luglio 2010

La plateale eliminazione della nazionale italiana dal girone con il più basso rating UEFA ci porta a fare una serie di riflessioni di breve e lungo periodo: considerazioni che mettono insieme reputazione e mancati guadagni, disaffezione dei tifosi e investimenti degli sponsor.
La sorprendente vittoria del 2006 aveva creato un effetto moltiplicatore degli sponsor, ufficiali e non, che erano arrivati addirittura a 27 per un totale di 56 milioni di euro di contratti contro i 42 del quadriennio precedente.
Sono molte le cifre che sono circolate sui giornali in questi giorni riguardo ai danni economici causati dalla sconfitta con la Slovacchia. Di sicuro ci sono venti milioni di euro di mancato guadagno: dieci milioni da parte della FIFA, tre milioni dai premi degli sponsor ufficiali e sei da contratti con altri sponsor. Se a questi poi si aggiunge tutto il mercato dell' “indotto” legato al merchandising ufficiale (stimato intorno ai 5 milioni di euro), a quello parallelo (in nero e spesso gestito dalla criminalità organizzata), i contratti pubblicitari, le varie licenze d'esclusiva, i mancati guadagni di locali pubblici, vendite di giornali etc.. si stima che il “rosso” arriverà fino a 140 milioni di euro, e forse qualche centinaio di posti di lavoro.
Il futuro “commerciale” della nazionale si deciderà nei prossimi mesi: tutti i contratti della Figc - ad esclusione con quello con Puma che è valido fino al 2014 per 60 miloni euro - scadranno a dicembre, e dopo la batosta sudafricana sia per i diritti tv che per gli altri sponsor si prevede un calo delle entrate del 9-10%, ritornando agli investimenti precedenti alla vittoria di Berlino, come se questa non fosse mai avvenuta.

Ma scendiamo più in basso e proviamo a capire quali saranno, nel brevissimo periodo, gli effetti di marketing dell'eliminazione dell'Italia dalla World Cup e, sopratutto, come si comporteranno nei prossimi giorni quei marchi che hanno legato la propria immagine alla nazionale e ad alcuni loro giocatori.
Venerdì 25 giugno, il giorno dopo la sconfitta con la Slovacchia, Il Corriere Dello Sport – Stadio titolava “Vergogna!”, accusando Lippi, Federcalcio e i calciatori tutti. Nella stessa pagina del quotidiano, in basso a destra, svettava un tronfio Fabio Cannavaro (4 in pagella) testimonial del gel da barba Gillette. Un errore poco perdonabile, ma giustificabile dai tempi stretti di impaginazione e dalle pianificazioni dei centri media. Sicuramente da non ripetere. Il rischio è quello di inficiare la reputazione del marchio che può essere ribaltata da un'associazione con un evento negativo.
Le multinazionali che investono sulle nazionali o sui giocatori sanno bene che quando parte la macchina delle pianificazioni pubblicitarie non si può più fermare. Oggi Gillette non ha eliminato gli spazi già acquistati dal proprio centro media, ma ha avuto il tempo di sostituire l'immagine del capitano della nazionale con quella di un anonimo fotomodello della precedente campagna.
Il problema è quando l'effige del giocatore o della squadra è stampata direttamente sul prodotto o sul materiale pubblicitario all'interno del punto vendita. Nei supermercati ancora oggi sono presenti materiali pubblicitari delle patatine Pringles con l'immagine di Torres e Di Natale: quindi se stasera la Spagna esce dal mondiale, allora la scelta del colosso delle patatine non sarà stata particolarmente felice.
Questo ci fa capire che per i brand è preferibile legarsi all'immagine di un grande evento neutro (in questo caso il Mondiale o eventuali spin-off locali) piuttosto che al singolo giocatore o alla singola nazionale.
“L'associazione al team o al singolo atleta presenta degli aspetti aleatori devastanti” racconta a Il Foglio Marcel Vulpis, direttore di SportEconomy.it portale specializzato nel business legato al mondo dello sport “Oggi alcune multinazionali che decidono di investire su una squadra o su un atleta preferiscono firmare dei contratti blindati con corrispettivi legati al raggiungimento di certi obiettivi (non è questo il caso della nazionale italiana), oppure, come succede per molti tennisti da alcuni anni, le aziende di abbigliamento tecnico si riassicurano su possibili problematiche dell'atleta. Ad esempio Diadora con Kuerten si assicurò con la Lloyd di Londra e quindi, a seguito dell'incidente dell'atleta, l'azienda recuperò tutti i soldi della sponsorizzazione”.
Sulla sponsorizzazione di squadre e atleti vince quasi sempre chi gioca d'anticipo, anche perché i grandi successi non sempre si ripetono “Quattro anni fa gli azzurri in Germania giravano su macchine Volkswagen e volavano EuroFly (Meridiana). Dopo la vittoria del mondiale salirono sul carro dei vincitori, in ritardo e con contratti milionari, anche Alitalia e Fiat” spiega ancora Vulpis “Quest'anno però l'uscita dal portellone del boeing Alitalia dei giocatori italiani insultati dai tifosi e ripresa dalle telecamere non è stata una bella immagine”.

Friday, June 25, 2010

 
DAPPERTUTTO

Murketing. Scritto proprio così, con la "u". Non è un refuso, ma una nuova tecnica del marketing, quello giusto con la "a". Di fronte al declino dell'advertising tradizionale, e accanto alle nuove frontiere del product placement e al ritorno dei programmi marchiati da un prodotto, si sta diffondendo un altro modo di coinvolgere lo spettatore: "storpiare" la marca, che c'è ma non si vede, o si vede male. E' il vecchio trucco di far sentire più intelligente di te chi deve comprare. 
Sopratutto, funziona.

Link 9 Idee per la televisione - Giugno 2010

E' inutile negare l'evidenza. Il mercato pubblicitario non sta passando oggi un periodo sereno.
Sebbene il dato degli investimenti pubblicitari – calo sul mercato italiano del 13,4% su base annua (dati Nielsen) - sia piuttosto indicativo, non è sufficiente a spiegare cosa realmente stia accadendo. Le aziende non solo hanno ridotto i propri budget pubblicitari, ma in realtà i loro investimenti in comunicazione - a causa della mutazione continua e sempre più rapida del mondo dei media, dei consumi culturali e della tecnologia - sono destinati a calare più rapidamente o ad assumere forme nuove e sempre più difficili da rilevare.
Entriamo subito nello specifico e parliamo, quindi, di televisione.
Nel 2009 la flessione registrata dagli investimenti pubblicitari in tv, considerando sia i canali generalisti sia quelli satellitari, è stata del 10,2%. Tale ribasso è l'effetto di un anno di profonda crisi e di tagli alla comunicazione, ma anche il futuro non promette niente di buono per chi si occupa della classica tabellare tv.
L'evoluzione del piccolo schermo sta andando verso piattaforme a pagamento, dove gli spot, per definizione, devono esser pochi, e verso sistemi on demand, in cui lo spettatore visiona i contenuti quando e dove vuole, senza doversi sorbire i break. Dall'altra parte c'è la tv generalista che sta rapidamente passando al digitale terrestre: se fino a pochi mesi fa c'erano sostanzialmente otto-nove canali a spartirsi l'80% dello share, oggi abbiamo a disposizione, gratuitamente, oltre cinquanta canali di qualità. Le audience si frammentano, lo zapping aumenta e l'efficacia dei messaggi pubblicitari inseriti nei break sarà sempre più bassa.
Se nel 2009 la pubblicità in Italia ha portato nelle casse delle concessionarie tv circa 4,5 miliardi di euro a seguito della vendita di spazi per gli spot, nei prossimi anni tale cifra potrebbe essere notevolmente ridimensionata se non si trovano nuove modalità più efficaci ed efficienti alternative agli spot tradizionali.

Questa criticità si è presentata qualche anno fa negli Stati Uniti, prima ancora della recessione generale: la frammentazione dei canali e, di conseguenza, dell'audience televisiva ha sottratto valore e potere al tradizionale trenta secondi. Ad aggravare la situazione ci sono anche i nuovi metodi di distribuzione e di programmazione, come lo streaming su richiesta sulla rete (Hulu) o i dispositivi di videoregistrazione digitali (TiVo, in primis) che permettono di saltare (skip) i break pubblicitari.
Negli USA il futuro è ancora più negativo nei confronti degli investimenti classici in tv. La società di ricerche di mercato Forrester Research ha di recente pubblicato su Advertising Age un sondaggio condotto sulle prime 100 aziende che investono sul mercato statunitense: il 62% di queste ha dichiarato che il commercial tv è diventato meno efficace che in passato (l'hanno scorso l'aveva dichiarato il 53%) e che per il prossimo anno hanno assegnato meno di metà del loro budget all'acquisto di break pubblicitari. Gli investimenti si spostano quindi verso le varie forme dell'online (social network, motori di ricerca, mobile e email marketing); solo il 15% prevede di aumentare la spesa nei media tradizionali come radio, outdoor e stampa.
Le aziende e, in generale, i titolari di brand devono perciò imparare a fronteggiare il fenomeno del click sia nei nuovi media sia nel vecchio ambiente televisivo.
Il click rappresenta oggi il gesto base del mondo dei consumi culturali e sta mettendo fine alla recezione passiva dei media come avveniva in passato. Il click è al tempo stesso una via di fuga e una bacchetta magica: questa canzone è noiosa (click), questa trasmissione è una replica (click), questo link sembra interessante (click), questo spot è lungo e noioso (click).
Il click non media l'esperienza; media i media. Fa sentire chi lo effettua un soggetto attivo e libero dal controllo. (1)


Oggi una delle armi che hanno a disposizione le aziende per difendersi dal click si chiama branded entertainment.
Per branded entertainment si intende l'insieme delle attività in cui il mondo dell'advertising e dell'entertainment convergono; una contaminazione tra brand, prodotti e contenuti editoriali.
Secondo la solita indagine Forrester, per l'87% delle aziende USA intervistate, il comparto del Branded Entertainment rappresenta la formula di comunicazione televisiva più efficace per il futuro.
Niente di nuovo, anzi, decisamente un ritorno al passato: agli albori della televisione e ai suoi primi approcci con la pubblicità, il concetto di intrattenimento di marca fu quello che dette vita alla moderna fiction. Il nome soap opera deriva infatti dal fatto che i primi episodi delle fiction erano prodotti o sponsorizzati da grandi multinazionali del toiletry come Procter &Gamble e Unilever.
Di differente dal passato c'è che il mondo dell'intrattenimento di marca è diventato complesso e variegato nelle sue forme e modalità. Per quanto concerne il media televisivo, la due macro categorie sono il product placement e il branded content. Per product placement si intende l'attività di pianificazione e di posizionamento (visivo o verbale) di un marchio all’interno di un prodotto televisivo a fronte del pagamento di un corrispettivo da parte dell’azienda che viene pubblicizzata; il branded content è invece un contenuto audiovisivo originale che viene (co)prodotto da un inserzionista che può così rappresentare e visualizzare temi e valori del brand.
E' evidente che, rispetto alla pubblicità, la logica sia totalmente rovesciata: nell'advertising classico, il “brand” interrompe un contenuto altrui, nel “placement” vi entra come ospite – o come intruso, a seconda dei punti di vista - mentre nel branded content si assume la responsabilità diretta di un proprio contenuto, destinato a confrontarsi con il gradimento dell'audience invece che a sfruttarne uno altrui.

Sul product placement gli addetti ai lavori, la stampa e l'opinione pubblica si sono spesso scontrati su temi e aspetti “culturali” e “ideologici”: da un lato ci si compiace divertiti dalle Manolo Blahnik indossate da Sarah Jessica Parker in “Sex and the City”, dall'altra si multano emittenti e produttori per ciondoli “sospetti”; c'è poi chi plaude ai quasi 2 miliardi di dollari di fatturato Usa, e chi – come il sociologo Domenico De Masi - definisce il fenomeno “immorale”; da un lato si apprezza il maggior realismo conferito alle narrazioni di una quotidianità sempre più pervasa di marchi, dall'altro si rispolverano timori di comunicazione “subliminale” alla Packard (2).
Il branded content è qualcosa invece che ha più dignità di esistere, in quanto prodotto creato ad hoc, dove la marca si prende la responsabilità qualitativa ed editoriale delle narrazioni che produce e quindi ha anche un'onesta ambizione di incontrare il gradimento del pubblico; c'è però da aggiungere che, fino ad oggi, delle operazioni di branded entertainment hanno più beneficiato i brand piuttosto che il livello qualitativo dell'entertainment. Il branded content ha infatti per le aziende inserzioniste una serie di indiscutibili vantaggi: protegge dallo skipping dello spettatore sui break pubblicitari, crea una forte connessione emozionale con il suo pubblico e costruisce una reale affinità tra il brand e il suo target attraverso un contenuto rilevante e interessante.
Anche in questo caso, niente di nuovo. Non dimentichiamoci che gran parte dei programmi per bambini (dai Transformers ai Pokemon) altro non sono che show nati e prodotti per vendere action figure o giochi di carte.
I network americani negli ultimi anni hanno messo in fila una serie di brand content di discreto successo: “In The Motherhood”, nata come webseries e poi approdata sulla ABC, prodotta originariamente dal marchio di cura della persona Suave e dalla compagnia telefonica Sprint; in The Starter Wife, serie tv trasmessa anche in italia, i responsabili marketing della linea cosmetica anti-aging Pond hanno preso parte durante la fase di scrittura degli episodi. Infine alcuni mesi fa la NBC ha rinnovato l'action-comedy Chuck per una terza stagione di tredici episodi grazie alle proteste dei fans e all'importante contributo da parte di Subway, la catena di paninoteche che era già tra gli sponsor della serie e che sarà ben presente nella nuova stagione. Negli Stati Uniti molte corporation del largo consumo hanno capito che oggi l'esposizione e la visibilità sono diventate delle false chimere. Oggi il mercato richiede call to action e engagement. E, di fatto, le persone si attivano per evitare gli spot pubblicitari e reagiscono positivamente nei confronti dei contenuti dei loro programmi preferiti.

Siamo oggi però di fronte a un nuovo scenario, ambiguo per definizione e dai confini foschi e incerti che Rob Walker, giornalista titolare della rubrica Consumed del New York Times Magazine, ha definito Murketing (giocando con il termine murk = losco) che è anche il titolo del suo ultimo libro (“Murketing - “La rivoluzione del marketing ambiguo” - Etas). Walker ha analizzato profondamente le fasce più giovani d'età e il loro rapporto con i consumi in tutta la loro complessità: da una parte, infatti, la nuova generazione è iperconsapevole e non si lascia ingannare o condizionare dai messaggi pubblicitari, ma dall'altra ha un ruolo attivo e decisivo nel portare al successo determinati prodotti e marchi e utilizza gli stessi brand per definire e costruire la propria identità. Da una parte quindi c'è l'impermeabilità a l marketing tradizionale, dall'altra c'è una definitiva appropriazione della cultura commerciale, un'aperta complicità. La cultura del click ha quindi eliminato quella del controllo per sostituirla con l'assoluta libertà di questo nuovo consumatore; ciò ha portato a una decisiva scomparsa del 30” ma, allo stesso tempo, al potenziale aumento del numero di messaggi pubblicitari, più o meno diretti.

Per raggiungere in modo naturale questo target di consumatori e di influencers, dice Walker, “è necessario agire sui brand trascendendo il singolo mezzo di comunicazione e rendere il più possibile indefinito il confine tra espressione commerciale ed espressione culturale”. Insomma, per andare incontro alle nuove generazioni e superare la pratica del click, è necessario trattare i brand come “fenomeni culturali”. I casi che cita Walker sono molti, da Red Bull che ha speso centinaia di milioni di dollari in eventi segreti e di nicchia (kiteboarding, videogiochi e contest di DJ), tutte caratterizzate dalla quasi assenza del marchio in termini di striscioni, cartelloni o messaggi roboanti, alla birra Pabst che aveva architettato la propria campagna per reclamizzare il prodotto senza però darne l'impressione. In tutti questi casi di grande successo il senso del messaggio, il sottotesto, la spiegazione emotiva della “presenza-assenza” è affidato agli stessi membri della click generation.
Tutto ciò, trasferito in tv, si traduce nell'ignorare le buone regole di brand integration – il marchio ben visualizzato, per un lungo periodo di tempo, il protagonista principale deve interagire con il prodotto, pubblicizzare il brand oggetto del product placement durante i break pubblicitari – fino ad arrivare quasi a non mostrare il prodotto all'interno dello show.
L'esempio è quello di Axe, una linea di deodorante spray della Unilever. A differenza dei concorrenti, che comunicavano il prodotto in modo molto razionale (profumo e durata della protezione), Axe fu lanciato come “status symbol” e, utilizzando un registro fortemente ironico, come calamita irresistibile per le ragazze. Lo studio del target (maschio 18-22 anni) fu portato avanti attraverso una lunghe e complesse interviste di tipo etnografico sulla vita sessuale e sulla mentalità dei consumatori target, suddividendo gli intervistati in categorie antropologiche come “il Duro”, “il Giocatore”, l'”innamorato”. La prima parte della campagna fu affidata a video virali finto amatoriale diffusi in rete in cui si mostravano scene paradossali in cui alcune ragazze si trasformavano istantaneamente in maniache sessuali, grazie al contatto con utilizzatori del magico deodorante. In tv poi Axe ha prodotto City Hunters, una serie di animazione per adulti, disegnato da Milo Manara, il cui protagonista si chiama Axel, ma dove il prodotto o il brand non vengono mai mostrati, e GameKillers un mix tra fiction e reality sulla figura del “guastafeste”, adolescente che aveva come obiettivo principale quello di rovinare le relazioni amorose dei coetanei. Anche in questo caso il prodotto non veniva mostrato ma, in compenso, la riconoscibilità era fortissima.
L'aver adottato un approccio di comunicazione concepito prima in termini di significato e poi di funzionalità, ha permesso al brand di eludere il click.
Dopo tutte queste attività un marchio come Axe, avendo guadagnato il “rispetto” tra i giovani, è entrato a far parte della cultura popolare; ciò gli permette di non sentirsi in competizione diretta con altri deodoranti, bensì con i film, i programmi televisivi, gli eventi sportivi, gli altri inserzionisti pubblicitari e Internet.
Tutto questo ci dice che il mondo del click non è un ambiente su cui gli operatori di marketing hanno perso il controllo. È, in realtà, un mondo all’interno del quale hanno ottenuto una nuova libertà: la libertà di essere praticamente dappertutto.


(1)“Murketing - “La rivoluzione del marketing ambiguo” - (Etas) p.75
(2)Estratto dalla ricerca “Product placement. Per un’economia della contaminazione creativa. Criticità e chance del product placement nel sistema televisivo italiano” di IsiCult – Labmedia

Thursday, June 24, 2010

 
Il download illegale sveglia la tv generalista

Wired.it - 30 maggio 2010

Chi ha detto che la qualità e l'innovazione debbano per forza arrivare dai canali “legali” e mainstream?
Se si osserva il mondo dei media e dell'entertainment notiamo che la storia ci racconta l'esatto contrario: il seme delle novità è sempre nato da realtà del sottobosco, da situazioni spesso illegali e clandestine. Qualche esempio? Il boom delle radio private è esploso grazie alle emittenti pirata e spesso fuorilegge (da vedere, per capire, il film I love Radio Rock); le cose più interessanti dell'arte contemporanea arrivano da ex-writers (un esempio su tutti, Banksy); i produttori discografici più ricercati oggi sono coloro che hanno iniziato a fare remix pirata per le white label (Danger Mouse), per non parlare poi delle novità nel campo di internet, tutte nate nei mitizzati garage e con strumenti spesso al limite del legale.
Anche lo stagnante mondo della televisione deve oggi ringraziare tutto un movimento fatto di download illegali, passione vera e notti insonni.
Ovviamente stiamo parlando dell'evento televisivo globale di questi ultimi mesi, ovvero l'ultima puntata di Lost, che anche in Italia, ai confini dell'impero dell'entertainment, grazie a Fox Italia siamo riusciti a godere in contemporanea con gli Stati Uniti.
La passione per la serie tv, si sa, ha creato una vasta comunità di appassionati, nata, cresciuta e allevata in rete, e che a causa di certe inefficienze o cattiva gestione nei palinsesti delle reti generaliste nei confronti dei telefilm, si è vista costretta a creare una sorte di catena di montaggio 2.0 per inserire i sottotitoli sugli episodi scaricati con il peer to peer subito dopo la messa in onda USA (italiansubs e subsfactory sono le principali community di subbers).
Quindi anche i broadcaster europei più ricettivi hanno capito che la velocità e il giocare d'anticipo poteva diventare un valore di qualità e di forte fidelizzazione, fregandosene delle regole auree del palinsesto che impongono il prime time e tempi lunghi per il “confezionamento” dei programmi. I primi sono stati i francesi di Tf1 che dal gennaio 2008 hanno dato l'opportunità di seguire le puntate di Lost un giorno dopo l'on air americana, in lingua originale e sottotitolata, e portando davanti al piccolo schermo anche il pubblico più giovane del web. L'operazione è stata poi ripresa da Fox Italia culminata poi con la diretta via satellite in contemporanea con la ABC e la replica sottotitolata sedici ore dopo.
E i dati danno ragione a quest'operazione: oltre 300.000 appassionati nei due passaggi, 16,2% di share nei canali SKY e 1,6% share totale tv che, considerando il prodotto, in tempi di audience frammentata rappresentano un buon risultato.
Per il futuro i broadcaster dovranno sempre più entrare in relazione con altre realtà, che siano citizen journalist o subbers, guidate da passione e rottura dei soliti schemi.

Tuesday, June 15, 2010

 
BRAND TRUST

Ecco gli sponsor che contendono la Coppa mondiale del marchio più ganzo e famoso (Fifa compresa).

Il Foglio - 15 giugno 2010

Mettiamo da parte per un attimo il pallone, le immancabili polemiche, i pronostici su chi arriverà in finale e anche tutta la retorica legata al rilancio del continente africano, e concentriamoci sul business, che è poi il motivo per cui, almeno oggi, la FIFA organizza la Coppa del Mondo.
Trentadue nazioni coinvolte, duecento paesi che seguiranno le partite in tv per un totale di potenziali ventisei miliardi di spettatori spalmati lungo un mese sono un palcoscenico appetitoso per qualsiasi brand che si definisce globale.

La Coppa del Mondo è la big oil dello sport. E quest'anno il bottino è ancora più ricco sia per il business legato al marketing sia per le strategie di comunicazione. Rispetto al 2006 quest'anno la parola chiave di tutti i marchi sarà engagement (coinvolgimento) e il terreno di sfida internet e, sopratutto, i social media. A partire dalla FIFA. Durante i mondiali di Germania la Federazione aveva on line due siti, uno per la Coppa del Mondo e uno per sé. Quest'anno il sito fifa.com è unico per fornire ai fans una maggiore profondità di contenuti esclusivi; perché se è vero che la tv rimane il media di riferimento per la visione delle partite, gli aggiornamenti e le conversazioni avvengono in rete attraverso il computer e gli smartphone. E gli sponsor ufficiali si sono organizzati di conseguenza: Coca Cola e Panini oltre a replicare il classico album delle figurine come nel 2006 hanno ideato una raccolta di “adesivi virtuali” da scambiarsi attraverso il social network di Microsoft, McDonald's (che è il ristorante ufficiale della Coppa del Mondo, sappiatelo) è lo sponsor del gioco ufficiale online, Castrol ha organizzato il Castrol Rankings, il pagellone delle performance di giocatori e squadre e Hyundai ha sfruttato al meglio Facebook per coinvolgere i tifosi e farli vincere migliaia di biglietti e soggiorni in SudAfrica.

Il modello di riferimento della pubblicità resta quello del Superbowl americano. Per questo i principali sponsor, ufficiali e non, hanno realizzato per l'occasione spot milionari coinvolgendo registi di fama (Iñarritu per la Nike) e star del mondo dell'entertainnment (Noel Gallagher degli Oasis, il rapper Snoop Dogg, i Daft Punk e David Beckham tutti insieme nel bar di Star Wars per Adidas) senza però mai citare l'evento del Mondiale per non sembrar troppo didascalici o pedanti.
Non a caso abbiamo citato questi due marchi, perché è proprio sull'abbigliamento sportivo che si gioca la partita più importante.
Adidas è il partner principale della FIFA: a fronte di un esborso di 350 milioni di dollari, anche quest'anno fornirà il pallone ( nel Mondiale 2006 ne furono venduti dieci milioni), l'abbigliamento agli arbitri, al personale di servizio e a 12 squadre tra cui le favorite Spagna e Argentine e anche alla squadra del Sudafrica. Oltre a questo l'azienda tedesca fornisce le scarpe a duecento star del calcio, tra cui anche l'argentino Lionel Messi che quest'anno indosserà la AdiZero f50, la scarpa più leggera al mondo. Tutto questo non certo per amore del calcio, bensì per superare il record, che stabilì durante gli europei (vinti dalla “sua” Spagna), di 1,3 miliardi di euro di fatturato sui prodotti legati al calcio e confermare la sua leadership sul mercato.
Dall'altra parte c'è l'americana Nike che quest'anno nella comunicazione punta tutto sulla squadra del Brasile e una serie di calciatori superstar come il portoghese Cristiano Ronaldo e l'inglese Wayne Rooney: insieme alla sua affiliata Umbro (storico marchio che veste l'Inghilterra) sviluppano un fatturato di 1,6 miliardi di prodotti di calcio.
E infine c'è la tedesca Puma (controllata dalla gruppo francese PPR), che dopo il successo di Berlino del 2006 in cui vestiva gli azzurri campioni del mondo, è diventata un brand di prima grandezza. Quest'anno oltre all'Italia (a cui versa 15 milioni di euro all'anno) il marchio punterà sull'orgoglio africano: Puma infatti veste e sponsorizza Camerun, Ghana, Nigeria e Costa D'Avorio e in comunicazione utilizzerà i colori e lo stile di vita africano per promuovere il marchio, con l'obiettivo di una crescita a doppia cifra del fatturato. Perché se è vero che l'Africa non può ancora essere un fiorente mercato per l'abbigliamento sportivo, c'è tutto un mercato potenziale degli africani sparsi nel mondo: in Francia, ad esempio, all'inzio di quest'anno la stessa Puma andò fuori stock dopo aver venduto in pochi giorni circa 50.000 maglie della squadra di calcio dell'Algeria.
Comunque andrà, sul campo e fuori, il vincitore è già stato annunciato. Ed è la FIFA che, a fronte di un investimento di 9 milioni di dollari, tra contratti di sponsorizzazione, diritti tv e licenze del merchandising incasserà oltre tre miliardi di dollari.

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